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Troppo caldo
Elia Santi stava facendo un sogno orribile. Era incollato al pavimento, riverso sulla schiena, e non si riusciva più a staccare. Sgambettava un poco, a fatica, come un coleottero capovolto, un insetto che è rimasto appiccicato alla carta moschicida, o quelle strisce che suo padre appendeva al lampadario in salotto e dopo un paio d’ore erano disgustose da vedere. Respirava a stento, attraverso qualcosa premuto sulla sua faccia. Si sentiva il panico addosso: era una mano che gli comprimeva il petto e lo spingeva giù, giù, giù. Un sogno orribile, già, dal quale fu felice di svegliarsi di colpo, nel cuore della notte, rantolando.
Ma si era svegliato davvero? Per un attimo, Elia non ne fu sicuro. Era buio ma non troppo, sentiva il materasso sotto di sé, ma c’era qualcosa di sbagliato. Provò ad alzare un braccio e non si mosse. Era incollato al lenzuolo. Tutto il suo corpo era incollato al lenzuolo, e respirava a stento, qualcosa gli colava sulla pelle, si sentiva una pressione ferma sul petto e...
E. Il momento di confusione passò. Luglio, già. Era metà luglio, era in pianura padana, tutto era più o meno normale. Perché è normale svegliarsi in piena notte incollato al letto, quando è metà estate e vivi in pianura padana. Elia Santi respirò già meglio, ma non troppo, perché l’aria era vischiosa e si faceva davvero fatica a spremerla nelle narici. Ma anche questo era normale. Sgradevole, ovvio, ma normale. Ci era quasi abituato. Era solo afa.
Rimase coricato ancora un poco, a ritrovare un minimo di orientamento nel suo mondo mentale. Un sogno, sì. Solo un sogno. La realtà faceva quasi più schifo, d’accordo, ma almeno era reale e questo cambiava tutto. Non necessariamente in meglio, ma lo rendeva più accettabile. Che brutta stagione. Pure, c’era di peggio. C’è sempre di peggio nella vita di un eliasanti qualunque. Era più o meno una legge di natura, capite. O almeno lui la pensava così e tanto basta.
Quando fu quasi sicuro di aver ritrovato l’equilibrio e quando fu chiaro che non si sarebbe riuscito a riaddormentare a breve, Elia si scrostò dal letto e si alzò, barcollando un poco. Caldo. Non un soffio di aria. Non si poteva andare avanti così. C’era anche la classica zanzara che gli ronzava e sibilava a ridosso di un timpano. Perché devono fare così? Perché non possono pungerti e basta, ma ti devono sempre ronzare nelle orecchie? Perché tanto dolore?
Elia Santi non lo sapeva, ma sapeva di dover cercare un poco di aria. Caracollò fino alla finestra, un paio di passi soltanto ma che in quel particolare momento gli sembravano mille. Era aperta, come al solito in estate. Era spalancata per invitare l’aria a entrare, ma l’aria non entrava. Non c’era aria. Sia chiaro che per “aria” ci stiamo riferendo al vento, non all’atmosfera pura e semplice. Se non ci fosse stata quella, Elia Santi sarebbe già morto per carenza di ossigeno. Si sentiva invece morire per grave carenza di ventilazione, che è tutta un’altra cosa ed è perfettamente normale, in estate.
Così raggiunse la finestra, si posò al davanzale e si affacciò. Tutto immobile. Pareva che il paese si fosse trasformato in uno di quegli insetti preistorici, inglobati da una goccia di ambra o quel cavolo che era, Elia non se lo ricordava più di preciso. Era stato maniaco di dinosauri e preistoria, vero, ma lo era stato da bambino, come tutti i bambini. Allora l’avrebbe saputo. Oggi bambino non lo era più da un pezzo e vattelo a ricordare come funzionava di preciso. Però era così, davvero. Solo che il suo paese non era avvolto nell’ambra. Era avvolto nella melassa ed era l’aria stessa.
Luglio padano, si diceva. Elia Santi lo sapeva, ma era orribile lo stesso, quando ti svegliava in piena notte e non riuscivi a respirare. Pure, sarebbe passato. Passava sempre, tutti gli anni. Bastava giusto aspettare. E mentre Elia aspettava, lasciava che il suo sguardo si posasse pigro sulla via.
Niente di interessante da vedere. Una strada, qualche lampione, pochi alberi rachitici a costeggiarlo, poche auto parcheggiate, l’edificio di fronte al suo, qualcosa di nero che si arrampicava sul muro, la luce rossastra dell’insegna ancora accesa dell’alberghetto lì accanto, vaghe tracce di probabili stelle nel cielo, sbiadite e quasi cancellate dall’umidità. Come colonna sonora, il pigro abbaiare lontano e fiacco di un cane, che forse non sapeva in quale altro modo passare il tempo.
Qualcosa non andava.