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Clop
Nell’appartamento sopra il suo abitava un cavallo. Mario Muco ne era sicuro. Dopotutto, era la sola spiegazione logica, capite. Quando senti sopra di te uno scalpitio di zoccoli, tutto il giorno e tutti i giorni, non ti resta molto altro da pensare. E Mario lo sentiva. Clop, clop, clop, avanti e indietro, a ogni ora. Ti tirava scemo. Ma non era solo questo il problema. C’era di peggio.
Gli zoccoli sono fastidiosi e lo sanno tutti. Sono la classica calzatura indossata tradizionalmente dai vicini odiosi. Sono praticamente parte del, non so, dello stereotipo. Al piano di sopra abita qualcuno di odioso? Indossa gli zoccoli, ovvio! O forse è odioso perché li indossa, ma non è questo il punto. Il punto è che quegli zoccoli non sembravano calzature, capite. Avevano qualcosa di organico, una vibrazione viva, o roba simile. A Mario Muco ricordavano un poco quello che il protagonista della storia di Lovecraft doveva avere sentito in una fattoria nel Vermont, durante la notte. Solo che lì non era il Vermont, lui non era un personaggio di Lovecraft, probabilmente, e non viveva in una fattoria. E non lo sentiva solo di notte. Lo sentiva tutto il giorno, ogni giorno. Avanti e indietro.
Sentiva anche molti altri rumori, come se quel tizio si divertisse a scagliare a terra più o meno tutto ciò che non era inchiodato al muro o al pavimento. Se era inchiodato, forse scagliava a terra anche i chiodi, a giudicare da certi frastuoni. Ma lo scalpitio era la cosa peggiore. Era odioso in un modo al di là di ogni spiegazione logica. Lo offendeva profondamente. Era... era, ecco. Clop, clop, clop.
Chi abitava lì sopra? Mario Muco non ne era sicuro. O meglio, era sicuro del cognome, perché era scritto sul citofono, anche se il testo sul citofono valeva al massimo come indizio, non come prova. Sul suo citofono, ad esempio, c’era scritto “Fuco”, ma il suo cognome reale era Muco. Non proprio un miglioramento, ma non è questo il punto. Il punto è che il nome era sbagliato. Se era sbagliato un nome come il suo, che per quanto ridicolo era comunque una normalissima parola italiana, che cosa si poteva pensare del citofono dei vicini, che sembrava una riga della tastiera? Nel dubbio, Mario li chiamava semplicemente “gli asini”, ma solo nei suoi monologhi interiori. Perché scalpitavano, non perché fossero ignoranti o altro.
Fosse come fosse, gli asini camminavano avanti e indietro tutto il giorno, clop, clop, clop. E quanti erano? Mario Muco non lo sapeva. Forse uno, forse due, forse mille. Di loro conosceva solo i passi, il rumore costante e infernale delle loro zampe sul pavimento. Lo tiravano scemo, per l’appunto. In un paio di occasioni era stato molto vicino a salire e bussare alla loro porta, per lamentarsi. Sarebbe stato il minimo, dopotutto. Ne aveva ogni diritto, capite. Solo che non lo aveva fatto.
Perché? Non ne era sicuro. In parte era il suo carattere, un poco timido e molto scontroso, tendente all’eremita malmostoso. Parlare con altre persone era sempre un’attività sgradevole per Mario, pure quando le altre perone erano suoi parenti. Soprattutto quando erano suoi parenti, in effetti, ma non è rilevante, al momento. Il punto è che trovava sgradevole dovere andare a parlare col vicino cavallo. O con gli asini, come preferite. Trovava sgradevole anche doverli sentire tutto il giorno ma, adesso, sinceramente, come si poteva svolgere un colloquio con quei tizi?
«Scusate, potreste smettere di trottare tutto il giorno?»
Oppure, «Scusate, non posso fare a meno di sentirvi scalpitare tutto il giorno.»
O anche, «Non potreste andare a galoppare in campagna, invece di marciare avanti e indietro tutto il giorno sopra la mia testa?»
Mario Muco aveva simulato nella propria mente anche altri possibili dialoghi, ma nessuno gli aveva dato l’impressione di poter funzionare. Poteva insultarli e basta, d’accordo, e gli avrebbe dato molta soddisfazione, ma difficilmente il problema si sarebbe risolto. Che poi, gli insulti, ecco, parliamone pure. Ci vuole anche il fisico giusto. Mario Muco sembrava qualcosa che è strisciato a morire in un angolo del giardino. Gli asini al piano di sopra, uno o tanti che fossero, avevano un passo pesante, e forse erano pesanti anche loro. Forse erano grossi. Come si sarebbe risolta la situazione, se lui fosse andato a insultarli? Ecco, appunto.
Però non poteva continuare così. Qualcuno doveva fare qualcosa. Siccome gli asini non si volevano decidere a fargli un enorme favore crepando all’improvviso tutti assieme (ammesso che siano tanti e non uno solo), il nostro Mario non sapeva proprio cosa inventarsi. Doveva fare qualcosa, ovvio, ma cosa? A parte sbuffare in solitudine, ecco.