Adriano - racconti e altro

Bucranio e testa di bufala

Molti di voi probabilmente sapranno, anche solo per sentito dire, che esiste una raccolta di fiabe italiane curata da Italo Calvino e pubblicata con il titolo Fiabe italiane, certo poco fantasioso ma descrittivo più che a sufficienza. In questo suo tentativo di presentarsi come il cugino italiano dei fratelli Grimm, Calvino raccolse fiabe provenienti da tutte le regioni, selezionandole poi in base a criteri che qui non ci interessano e che potrete approfondire sul vostro manuale di letteratura preferito o anche solo nella introduzione alla raccolta. A interessarci, invece, è una particolare fiaba presente in quel libro: una fiaba di origine toscana, pubblicata sotto il curioso titolo di Testa di bufala. Curioso, ma appropriato e descrittivo più che a sufficienza.

Testa di bufala è la fiaba numero 67 della raccolta e proviene da Montale Pistoiese, almeno secondo quanto ci dice Calvino1. Di per sé è la normale storia di una ragazza di bassa origine che, grazie a un aiutante magico, riesce a sposare un principe e a vivere per sempre felice e contenta, dopo avere superato qualche problema iniziale. Piuttosto standard, per una fiaba. A renderla curiosa è prima di tutto la natura dell’aiutante magico: una testa di bufala, per l’appunto. Una testa viva e parlante, che è anche capace di muoversi da sola, rotolando qui e là per il prato. Una testa che è stata dissepolta per caso da un contadino qualunque, ha preso sotto la propria ala protettrice (o il proprio corno protettore, se preferite) la figlia più giovane del contadino, l’ha cresciuta ed educata in uno strano mondo sotterraneo e dopo anni le ha permesso di tornare in superficie, dove ha incontrato il solito principe di passaggio. Poi ha maledetto la ragazza, per punirla della sua ingratitudine.

Curiosa, appunto. Curiosa soprattutto per la sua simbologia, che ci rimanda al bucranio2 del mondo classico, ma soprattutto al bucranio che lo ha preceduto nel neolitico e forse anche nel paleolitico. Diventa ancora più curiosa se decidiamo di interpretarla seguendo le letture proposte in forma schematica da Marija Gimbutas nel suo saggio Il linguaggio della Dea, ma ripresentate spesso e volentieri in molti altri suoi libri. L’argomento sembrava starle molto a cuore, capite. Quanto senso abbia (o non abbia) utilizzare un ipotetico linguaggio simbolico preistorico per interpretare una fiaba toscana di epoca recente è un altro discorso, ma possiamo comunque considerarlo un innocuo divertissement, giusto per passare il tempo. E chissà, magari potrebbe anche uscirne qualcosa di interessante. Improbabile, ne convengo, ma non si può mai dire.

Partiamo con un riassunto della fiaba, dunque. Tutto comincia quando un contadino sta zappando il suo misero campo. La lama della zappa urta qualcosa di più duro del normale, il contadino smuove la terra attorno e cosa trova? Una testa di bufala, grossa circa il doppio del normale. E non è un teschio: è proprio una testa coperta di pelle e pelo, con gli occhi aperti, che sembra viva in tutto e per tutto. Spaventato, il contadino si prepara a darle una bella zappata in fronte, quando ecco che la testa comincia a parlare e lo prega di risparmiarla, promettendo che sarebbe stata la fortuna di una delle sue figlie. L’uomo la risparmia, sospettando che ci sia di mezzo qualcosa di magico.

Dopo aver estratto e messo da parte la testa, coprendola con la propria giubba, il contadino aspetta che le sue figlie lo passino a trovare. Lo faranno, una dopo l’altra. A ognuna di loro il contadino chiede di guardare cosa ci sia sotto la giubba. Le prime due fuggono spaventate, trovando orribile la testa. La terza e più giovane, che è ancora una bambina, rimane affascinata dalla testa, le fa tanti complimenti e riceve in cambio un invito: le piacerebbe andare a vivere con la testa di bufala? La bambina si dichiara favorevole, se papà glielo permette. Il contadino accetta, forse più rassegnato che entusiasta, ma così è la vita.

Così la testa di bufala si mette in marcia, muovendosi con una serie di strane capriole sulle corna, e la bambina la segue tutta contenta. Arrivate nel cuore del bosco, la testa usa un corno per aprire una botola che si trovava in una radura, poi si infila nel passaggio e scende saltellando. La bambina la segue lungo una scala di vetro e alla fine arriva in una casa sotterranea: c’è un grande salone, c’è la testa di bufala seduta (beh, più o meno seduta, considerata la sua anatomia) su una poltrona e tutto sembra ricco e sfarzoso. Quello è il luogo in cui vivranno d’ora in poi.

Passano anni, durante i quali la bambina si occupa dei lavori domestici e la testa di bufala le insegna svariate cose, facendole grossomodo da madre. Impara a cucinare, stirare, leggere, scrivere e così via, fino a diventare una ragazza modello. Ovviamente è anche molto bella, perché così è la vita nelle fiabe. Si è affezionata a tal punto alla sua testa di bufala che ormai la chiama “mamma”. Fin qui, tutto bene, ma ovviamente non può continuare a lungo.

Dopo tanto tempo passato sottoterra, la ragazza vorrebbe tornare un poco in superficie, a rivedere il sole, prendere una boccata d’aria fresca e così via. Testa di Bufala è contraria, all’inizio, ma alla lunga accetta: le dona una veste d’argento, una seggiolina e le permette di salire nella radura a fare la calza. Neanche il tempo di sedersi ed ecco che passa di lì il solito principe, perché nelle fiabe non puoi fare un metro senza trovarne uno. Il giovane vede la ragazza, si innamora perdutamente di lei e le chiede di sposarlo. Corteggiamento fulmineo, insomma. La ragazza non avrebbe obiezioni, ma prima deve sentire che ne pensa la mamma, ossia Testa di Bufala.

Scende di nuovo nella casa sotterranea, spiega alla “mamma” tutto ciò che è successo e lei la lascia libera di fare come preferisce. Le raccomanda solo di non essere ingrata, perché tutto ciò che ha ottenuto lo deve a lei, anche se le è capitato subito un colpo di fortuna. Potete già immaginare cosa succederà fra poco, dopo aver sentito questo avvertimento.

Scambiate le promesse di matrimonio, il principe dichiara che tornerà tra otto giorni a recuperare la futura sposa, per darle il tempo di prepararsi. La ragazza si prepara. Con l’aiuto di Testa di Bufala mette assieme un corredo da regina, mentre la “mamma” continua a ricordare che dovrà stare attenta a non dimenticarsi alcunché, al momento della partenza. Se si dimenticherà qualcosa, le potrà succedere una qualche disgrazia. Ma non è una minaccia, ovvio. È solo un avvertimento.

Viene il giorno della partenza, arriva il principe col suo corteo di carrozze e ovviamente la ragazza si dimentica più cose: dimentica il pettine, dimentica di salutare Testa di Bufala e dimentica pure di chiudere la botola, una volta uscita. Se ne ricorda quando il corteo si sta già allontanando dal bosco e supplica il principe di tornare indietro. Dopo piagnistei vari, il principe accetta e si fa retromarcia. La botola è ancora aperta e la ragazza corre subito di sotto a cercare il pettine. Testa di Bufala la accoglie con commenti sarcastici, ma la ragazza neppure se ne accorge, tutta presa com’è dal suo pettine smarrito. Lo cerca invano in un cassetto del comò, si raddrizza, si vede riflessa nello specchio posto proprio lì di fronte e scopre che la sua testa è diventata quella di una bufala. Per qualche strano motivo, adesso non la trova più affascinante come quando era bambina: le sembra un orrore. In fondo si sa che i gusti cambiano, crescendo.

La ragazza chiede aiuto a Testa di Bufala, ma lei le risponde di attaccarsi. Quella è la punizione che ha ricevuto per la sua ingratitudine verso la persona (ok, la testa, ma ci siamo capiti) a cui doveva tutto: se n’è andata di casa col suo bel principe e non si è neppure presa la briga di salutare quella che lei chiamava “mamma” fino a cinque minuti prima. Adesso si dovrà arrangiare da sola.

Dopo qualche piagnisteo la ragazza si arrende. Si avvolge un fitto velo attorno alla testa e torna al corteo del principe, dichiarando di essersi dovuta coprire così a causa un problema agli occhi. Il principe le crede, o almeno non ha obiezioni, e tutti ripartono verso la reggia, dove li attente la madre del principe, tutta curiosa di vedere questa sua futura nuora di cui il figlio le ha parlato tanto bene. Non che la riuscirà a vedere, non imbacuccata come è adesso. La vedrà però il principe, quando i due promessi sposi saranno rimasti da soli e la ragazza non saprà più cosa inventarsi per rinviare lo svelamento. Anche in senso letterale.

Il principe scopre così che la sua futura sposa ha una testa di bovino. Reagisce benissimo: si copre subito gli occhi perché non vuole più vedere quell’orrore. A dimostrazione che si era innamorato del suo carattere, non certo del suo aspetto fisico, mi pare chiaro. Subito la vorrebbe mettere al rogo, ma poi ne discute con la madre e lei lo convince che è meglio rinchiuderla in soffitta, per adesso. Poi si vedrà. Così avviene.

A corte si diffonde la voce che il principe tiene nascosta la ragazza perché è geloso; lui ci resta male e si deprime sempre di più, mentre la madre lo esorta a trovarsi una fidanzata migliore, più umana, e poi potranno far sparire il mostro. Il principe obietta che ha dato la sua parola e non può rimangiarsi la promessa, anche se lo vorrebbe tanto. Cosa fare? Semplice. Ci sono altre due belle damigelle che lo sposerebbero di corsa, lì a corte. Facciamole gareggiare col mostro e tu sposerai la vincitrice. Al principe piace la proposta della madre e decide di seguirla.

La sfida consiste nel filare una libbra di lino: avranno otto giorni3 di tempo. Le altre due pretendenti si mettono subito al lavoro, chiuse nella loro stanza; la ragazza, invece, non fa altro che piangere e non combina alcunché. La notte prima dello scadere del tempo, ormai disperata, fugge di nascosto dalla finestra e corre nel bosco fino alla botola di Testa di Bufala, scende nel sottosuolo e supplica la “mamma” di aiutarla, perché in fondo è colpa sua se adesso lei è ridotta così. Testa di Bufala la rimprovera per la sua ingratitudine, dice di non poterla aiutare, ma alla fine le dona una noce, da consegnare al principe. La ragazza obbedisce: quando il principe apre la noce, il giorno dopo, trova al suo interno un lino filato alla perfezione, molto migliore di quello prodotto dalle altre due concorrenti. La regina ne prende atto, ma non si arrende.

Seconda gara: cucire una camicia di tela. La storia si ripete tale e quale, con la ragazza che piange per tutto il tempo, corre nel bosco dalla “mamma”, la supplica di aiutarla, si prende i rimproveri e alla fine riceve una nocciola. Al suo interno c’è una camicia cucita alla perfezione, ricamata in oro, che le permette di vincere anche la seconda prova.

Terza e ultima gara: acconciarsi al meglio per il gran ballo in programma tra otto giorni. Chi sarà la più bella tra le tre diventerà la moglie del principe. Ancora una volta la ragazza passa tutta la settimana a piangere, per poi correre nel bosco e il resto lo sapete anche voi. Stavolta Testa di Bufala è più chiara nel rimprovero e spiega alla ragazza che la colpa è soltanto sua: dopo tutto il bene che ha ricevuto dalla “mamma”, lei se n’è andata senza neppure un saluto, neanche fosse un cane. La ragazza si dichiara superpentitissima davvero, sul serio, che più pentita non si può. Giura che non lo rifarebbe mai più, che stavolta la coprirebbe di baci prima di andarsene e così via. Alla fine Testa di Bufala la perdona, le permette di ritrovare il pettine dimenticato e le restituisce la testa normale, ancora più bella di prima. La ragazza la ringrazia, la bacia e se ne va, saltando di gioia.

Arriva il ballo. Le prime due sono ok, ma niente di speciale e il principe ci resta male. Toglie il velo alla ragazza e scopre che la sua testa è tornata normale, anzi è pure meglio di prima: è la vincitrice, ovvio. I due si sposano e da allora vivono sempre insieme, felici e contenti. Fine della storia.

Questa è la fiaba, così come è stata raccolta da Calvino. Una storia molto simile la troviamo già nel cosiddetto Pentamerone di Giambattista Basile, noto anche come Cunto de li cunti. In questa raccolta di novelle del Seicento, infatti, compare anche La faccia di capra, la cui trama è quasi identica a Testa di bufala, ma presenta alcune differenze cosmetiche: la creatura magica è una fata che si manifesta come una grossa lucertola, la punizione della ragazza consiste nel ritrovarsi con la faccia di una capra, la ragazza ha un nome (Renzolla), il luogo magico non è un sotterraneo ma un castello nel bosco, eccetera.

Se la storia in sé è piuttosto convenzionale e non rappresenta una novità né a livello nazionale, né a livello internazionale, tanto è vero che una sua variante era già stata trascritta ai primi del Seicento, a rendere interessante Testa di bufala è la simbologia scelta. Non tanto per il ruolo ricoperto dal personaggio Testa di Bufala, tipico aiutante magico che risolve tutti i problemi del protagonista inetto, ma per la sua fisionomia. Questo la rende interessante. Una testa, per l’appunto, e di bufala. Una testa che si sdoppia, a un certo punto, perché una sua gemella prende il posto della testa umana della protagonista. Che significato possiede, ammesso e non concesso che abbia un qualche significato particolare? Come dicevo all’inizio, proveremo a interpretarla utilizzando il simbolo del bucranio, così come definito da Marija Gimbutas nel suo studio sui linguaggi preistorici.

Prima di tutto, vediamo di chiarire cosa sia il bucranio. Con questo termine si indica di solito un elemento decorativo a forma di teschio di bovino, che compare in edifici del mondo classico. In seguito lo stesso simbolo è stato ritrovato anche su edifici molto più antichi, come nei templi di Çatal Hüyük risalenti al VII millennio, o addirittura tra le rovine di Tepe Guran, un insediamento agricolo in Iran che risalirebbe all’VIII millennio. Che avesse sempre lo stesso significato è una ipotesi tutta da dimostrare e forse indimostrabile, ma è indubbio che avesse almeno lo stesso aspetto: un teschio bovino, probabilmente di un bisonte. Il bisonte, sia come corna che come figura intera, occupava un ruolo di primissimo piano anche nell’arte paleolitica, dopotutto. Perché?

Marija Gimbutas cerca di trovare un senso a questo e altri simboli preistorici. Il libro principale in cui spiega le sue interpretazioni è Il linguaggio della dea ed è proprio dal capitolo ventiquattro di questa opera che partiremo: un capitolo dedicato, tra le altre cose, al bucranio, che forse è l’antenato di Testa di Bufala e forse no. Vediamo se riusciremo a scoprirlo.

La premessa di questo capitolo è abbastanza curiosa, tanto che vale la pena di citarla così come è: “Il ruolo del toro come più importante animale sacrificale nel dramma della creazione è spiegato dalla sua identificazione con l’organo uterino e con le acque rigenerative”4. Alla base di questa interpretazione si trova il libro Symbols of Birth and Death in the Neolitic Era di Dorothy Cameron, pubblicato nel 1981, dove l’autrice utilizza immagini prese anche da testi di medicina per sostenere la sua idea di una somiglianza visiva tra gli organi riproduttivi femminili e la testa e le corna di un toro. Questa somiglianza, secondo Cameron, sarebbe stata scoperta durante il processo di scarnificazione a cui erano sottoposti i cadaveri e che consisteva nel lasciarli esposti agli elementi e agli animali, soprattutto volatili, fino a che non erano stati ripuliti dalla carne e lo scheletro era così pronto per la sepoltura definitiva.

Il bucranio, e il toro in generale, sarebbe dunque nato come un simbolo collegato a quella che Gimbutas chiama “la Dea”, figura femminile che sarebbe stata oggetto di culto in epoca preistorica, almeno nel continente europeo e nelle aree limitrofe, e che nei suoi studi è caratterizzata di volta in volta con epiteti diversi: Dea Uccello, Dea Rapace, Dea Serpente e così via, a seconda del ruolo che le era assegnato in quel particolare insieme di simboli. Queste figure divine potrebbero essere dee diverse, potrebbero essere la stessa Dea con facce diverse, o altro ancora: non è rilevante nel caso che abbiamo preso qui in esame. Per noi, al momento, conta solo la testa di bovino, protagonista della fiaba Testa di bufala. Quella che, come bucranio, secondo Cameron e Gimbutas sarebbe una raffigurazione degli organi riproduttivi femminili, con tutto il bagaglio simbolico che ne deriva.

Fin qui, nessun problema per noi. Protagonista della fiaba è Testa di Bufala, che è espressamente indicata come femmina ed è chiamata “mamma” dalla figlia adottiva: una interpretazione che vede il bucranio come un simbolo femminile, connesso per di più alla riproduzione e dunque al divenire madre, sembra fatta apposta e in effetti l’ho scelta per questo motivo. Quando la protagonista di una storia è una testa di bovino, è femmina ed è chiamata “mamma” dalla ragazza che sta allevando, sarebbe assurdo cercare di collegarla al toro così come è concepito in ambito indoeuropeo, simbolo virile degli dèi celesti e fecondatore della terra. Molto più semplice seguire l’interpretazione di Gimbutas e vedere dove ci porterà.

Il bucranio, e il toro in generale, come simbolo femminile, dunque. Simbolo di nascita, sì, ma soprattutto di rigenerazione, della vita che ritorna dopo la morte, in un ciclo ininterrotto. Un ciclo che non ha alcun collegamento col saṃsāra buddhista o variazioni sul tema: non è una serie di rinascite con valore moraleggiate ed espiatorio, gestito dal karma o da forze analoghe. Il ciclo a cui rimanda il bucranio è il normale ciclo della natura, l’alternarsi delle stagioni, le fasi lunari, la giostra costituita da nascita, crescita, invecchiamento, morte e di nuovo nascita, per ricominciare da capo. Questo è il tipo di rigenerazione a cui rimanderebbe la simbologia preistorica, almeno secondo la lettura che ne dà Marija Gimbutas nelle sue opere.

Sempre secondo la sua lettura, il bucranio sarebbe uno dei tanti simboli con cui era espresso questo concetto: è anche il solo che ci interessi, almeno al momento. A sostegno della sua affermazione, Gimbutas ci porta vari esempi presi sia da Çatal Hüyük, sia da Creta, sia da diversi altri scavi che hanno portato alla luce insediamenti neolitici in altre parti d’Europa e del Vicino Oriente. Nell’arte dell’Europa antica, che sia ceramica o altro, il bucranio e le corna di toro apparirebbero tipicamente associate a simboli di morte, come avvoltoio e cinghiale, ma anche a simboli di divenire e di rigenerazione, come uova, spazzole, triangoli, rombi, vortici e altro ancora. Troviamo il bucranio anche in alcune tombe sotterranee scoperte in Sardegna e databili attorno al IV o III millennio. In tutti questi casi, secondo Gimbutas, sarebbe associato a una idea, una speranza di rigenerazione e rinascita: la morte non come fine, ma come fase di un processo continuo, che l’alterna alla vita.

Questa almeno è la sua interpretazione, detta molto in breve: per dettagli, più o meno qualunque opera di Gimbutas può andare bene, oltre a quelle già citate. Fatta questa premessa, spostiamoci adesso alla fiaba raccolta da Calvino, per vedere se sia possibile trovare collegamenti a supporto di una lettura di questo tipo, oltre alla pura e semplice forma della protagonista.

Testa di Bufala non è un teschio di bovino, ma una testa completa, viva, a cui manca solo un corpo sotto di sé. Appare sulla scena quando un contadino sta zappando il suo campo e per caso scopre un oggetto sepolto nel terreno: quell’oggetto è una testa bovina. Parlante. Potrebbe essere un primo collegamento con una dimensione ctonia e con la morte, se vogliamo, perché di solito sono i morti a essere sepolti sottoterra: chi è sepolto senza essere già morto, di solito lo diventa in breve tempo. Potremmo, ma non lo faremo. Per adesso, limitiamoci a ricordare che la nostra Testa di Bufala comincia la sua carriera come oggetto sepolto in un campo.

Una volta riportata alla luce, la nostra testa promette subito che farà la fortuna di una delle figlie del suo scopritore. Come faceva a sapere che il contadino aveva figlie? Lo sapeva e basta: la fiaba non lo specifica e quindi anche noi siamo tenuti ad accettarlo così come è. Come al solito, ci sono tre figlie ed è la minore ad avere successo, dopo che le due sorelle maggiori hanno fallito nello stesso modo: uno schema classico che ritroviamo spesso e volentieri, declinato sia al maschile che al femminile, e su cui non ci soffermeremo. Nelle fiabe si impongono i figli minori, punto5. Così è la vita, almeno in questo microcosmo narrativo.

La figlia minore andrà così a vivere con Testa di Bufala e sarà allevata da lei. E dove vivranno? In una casa speciale, sottoterra, dove Testa di Bufala siede su una poltrona (che forse un tempo era un trono), come sovrana di quel piccolo mondo ctonio. Abbiamo già accennato ai bucrani trovati nelle sepolture sotterranee in Sardegna: a questi possiamo aggiungere i teschi di toro ritrovati negli scavi di Herpaly, in Ungheria, un antico villaggio neolitico. In questo luogo, a quanto pare, c’era l’usanza di seppellire da uno a quattro teschi di toro sotto il pavimento delle case vicino alle sepolture di neonati e bambini, di entrambi i sessi6. Servivano probabilmente a simboleggiare la loro rinascita, secondo Gimbutas. Nella fiaba di Testa di bufala troviamo una casa sotterranea, con una testa di bovino che tiene compagnia a una bambina, come precettore molto sui generis. Pura coincidenza, quasi di sicuro, ma piuttosto interessante.

Diventa ancora più interessante se consideriamo la struttura della casa sotterranea. Come sia fatta, la storia non ce lo racconta, purtroppo. Non sappiamo quante stanze avesse, come fossero disposte e così via. C’è un salone principesco, con una poltrona su cui siede Testa di Bufala. Ci dovrebbero essere altre stanze, tra cui una con il comò in cui è rimasto il pettine della ragazza. Altro non sappiamo. Sappiamo però che per raggiungerla bisognava scendere lungo una scala di vetro, da percorrere con cautela e senza le scarpe, perché molto fragile. Non è un dettaglio da poco, unito al suo essere una casa sotterranea.

Può essere una semplice coincidenza, di nuovo, ma in molte tradizioni sciamaniche l’accesso al regno dei morti richiede l’attraversamento di un qualche passaggio particolare, spesso pericoloso: può essere un ponte di lama, una porta stretta, un ponte di frecce, un ponte subacqueo, un cammino sottile come un capello e così via. Le scale sono usate di solito per ascendere al cielo, ma anche quelle tendono ad essere pericolose, o almeno utilizzabili soltanto dagli iniziati. Qui abbiamo una scala verso il basso, fatta di vetro, che deve essere percorsa con prudenza e il cui utilizzo, forse, è riservato soltanto a chi è stato invitato da Testa di Bufala. Che la casa sotterranea sia una immagine dell’aldilà, o almeno un suo vago ricordo?

Potrebbe. Nel mondo cretese il regno dei morti era spesso descritto come un labirinto, al cui centro si trovava Asterione. Nel mito greco di Teseo, molto più tardo rispetto alla civiltà cretese, Asterione è diventato il terribile Minotauro, che deve essere ucciso dall’eroe Teseo, ma il luogo in cui trovarlo non è cambiato: è sempre il centro del labirinto. Il labirinto cretese rimane una raffigurazione del regno dei morti, dove è facile l’accesso, ma si può uscire soltanto se si è autorizzati dalla Signora del labirinto. La Signora del labirinto, nel mito greco, diventa Arianna, figlia di Minosse e sorella del Minotauro, ed è Arianna che permette a Teseo di uscire dal labirinto, donandogli il famoso filo: senza il suo aiuto, l’eroe non avrebbe mai potuto fare ritorno nel mondo dei vivi7.

Nella fiaba Testa di bufala troviamo una casa sotterranea, al cui centro, seduta su una poltrona, c’è di nuovo una figura bovina: Testa di Bufala. La ragazza può uscire dalla casa, ma solo col permesso di Testa di Bufala. Quando se ne andrà col principe, dimenticando di salutare la “mamma”, riceverà una punizione: anche la sua testa diventerà quella di un bovino, per ricordarle che no, non ha ancora lasciato la casa sotterranea, non davvero, perché Testa di Bufala resterà con lei, accanto a lei, ovunque lei andrà. Per liberarsi dalla maledizione, dovrà tornare sui propri passi e ottenere prima il perdono e poi l’autorizzazione a lasciare la casa. Solo a quel punto la ragazza avrà reciso il cordone ombelicale che la lega alla madre e sarà diventata una persona completa, pronta a lasciarsi davvero alle spalle il mondo ctonio (uterino) in cui è stata allevata e cominciare così una vita autonoma.

Collegato alla ingratitudine della ragazza e alla “maledizione” che la colpisce troviamo anche un oggetto particolare: il pettine. È quello che lei dimentica di portare con sé quando abbandona la casa assieme al principe ed è quello che torna indietro a recuperare. Non l’unica cosa che ha dimenticato, perché si è scordata anche di mostrare a Testa di Bufala la propria gratitudine e salutarla come si conviene, ma è l’unica che lei è capace di ricordare al momento. Sarà proprio aprendo il cassetto dove si trova il pettine che la ragazza vedrà in uno specchio che la sua testa è stata trasformata in quella di un bovino e la sua penitenza comincerà. Ma perché proprio quell’oggetto? Che cosa ha di tanto speciale quel pettine?

Niente, per quanto ci dice la fiaba. Curiosamente, però, anche spazzola e pettine sono simboli che si possono ritrovare nell’arte neolitica e forse anche paleolitica, proprio come il bucranio, e in quel contesto avrebbero un significato particolare, almeno secondo Gimbutas, che ne parla nel capitolo 26 della sua opera Il linguaggio della Dea, già citata più volte. Ecco come si apre la sezione 26.3 di quel capitolo: “La spazzola - una serie di linee parallele delimitate su un lato da una lineetta - appare nel Paleolitico Superiore abbinata ai serpenti e al pesce e permane in tutta la preistoria e nella storia”8. Prosegue poi spiegandoci che, secondo la sua interpretazione, la spazzola sarebbe un simbolo di energia e rappresenterebbe i poteri rigenerativi della Dea. Questa energia favorirebbe la rinascita e sarebbe la ragione per cui la si trova sulle tombe megalitiche dell’Europa occidentale, abbinata o alternata al simbolo della nave.

Sempre seguendo lo studio di Gimbutas, scopriamo che il pettine/spazzola appare a volte come una dea, o almeno come una figura femminile dotata di testa e seni: pendenti a forma di pettine antropomorfo sono stati trovati in Svizzera, ad esempio, e risalirebbero alla cultura Cortaillod del V millennio, mentre raffigurazioni simili continuerebbero ad apparire in Europa centrale fino al periodo celtico La Tène, sempre con questa curiosa mescolanza di pettine e figura umana. Che anche il pettine della nostra fiaba abbia un qualche significato simile? Potrebbe, certo, ma dubito fortemente che sia stata una scelta deliberata e meditata del narratore. Potrebbe semplicemente essere scivolato nel racconto, se è vero che, come ci dice sempre Gimbutas, in alcune zone dell’Europa9 il pettine è rimasto in uso tra i contadini fino a epoche recenti come pendente da fare indossare alle neomamme, per proteggerle da vari tipi di accidenti e malattie. Che qualche tradizione simile fosse esistita anche in Toscana è tutto da dimostrare, ma è indubbio che un simbolo come questo possa tornare utile a una figlia che esce di casa per andarsi a sposare.

Nella fiaba troviamo anche altri simboli che ci rimandano all’universo del bucranio e della Dea così come descritto da Gimbutas. Quando la ragazza chiede aiuto a Testa di Bufala per superare le prove che la madre del principe le ha imposto, nei primi due casi riceve una noce e una nocciola, al cui interno, al posto del seme/frutto, si troveranno gli oggetti che le servono. Curiosamente, ma ormai neanche poi così tanto, il bucranio era spesso raffigurato assieme a immagini di semi e, in generale, oggetti da cui può germogliare una nuova vita, come le uova o le nocciole. Nel caso della nostra fiaba, dai due frutti scelti non germoglia una nuova vita, non proprio, ma racchiudono pur sempre la possibilità di superare il test e mantenere vive le speranze della ragazza di potersi alla fine accasare davvero col suo principe. Si sarebbero potuti scegliere altri modi per farle avere sia il lino filato che la camicia cucita, ma in Testa di bufala si è scelto di racchiuderli dentro una noce e una nocciola10, altri due simboli che si incastrano alla perfezione col contesto. Le coincidenze ormai si accumulano davvero, ma sono ancora coincidenze, dopotutto.

Seguendo questa chiave di lettura, troviamo dunque che un contadino disseppellisce per caso un antico simbolo di rigenerazione, vivo e vegeto. Questo simbolo adotta la figlia minore del suo scopritore e la porta a vivere nel suo regno, una strana e ricca dimora sotterranea, a cui si accede tramite una botola e una scala di vetro. Dopo anni di vita sotterranea, come una specie cicala, la bambina ormai ragazza riemerge in superficie, incontra subito un principe di passaggio e accetta di andare a vivere con lui. Tempo di partire e subito torna indietro, per recuperare un amuleto carico di energia rigenerativa, capace di proteggere le puerpere; dovrebbe anche ringraziare e salutare la madre adottiva, ma non lo fa e per questo la sua testa è trasformata in una copia del bucranio stesso. Dopo varie prove, riesce ad espiare le proprie colpe, ritrova il pettine/amuleto, la sua testa torna normale e può cominciare la nuova vita nel palazzo del principe.

Possiamo vederla come una sorta di romanzo di formazione, a modo suo: una fiaba di formazione, visto il contesto. Adottata da Testa di Bufala e allevata in un microcosmo isolato, la bambina non ha problemi a crescere sul piano fisico, ma deve poi dimostrare di essere cresciuta anche su un piano caratteriale. Se in un primo momento fallisce, le prove successive la porteranno a maturare, con l’aiuto severo ma non troppo della madre adottiva, che a modo suo la spinge a emanciparsi. Una volta pronta, può lasciare davvero la casa/utero, separarsi dalla madre e cominciare una nuova vita, dove toccherà poi a lei diventare madre e continuare così il ciclo. Una possibile lettura per una storia infarcita di una curiosa e a volte bizzarra simbologia neolitica, volendo.

Al di là di questi significati ermetici, da estrarre a colpi di scalpello, la fiaba Testa di bufala ci presenta elementi molto più consueti, comuni sia ad altre fiabe che a storie di diverso tipo. Uno di questi lo abbiamo già indicato ed è il classico motivo delle tre sorelle (o tre fratelli, a seconda dei casi) che devono superare una prova: le prime due falliscono, la terza e più giovane ha successo. Lo troviamo più o meno ovunque e non è il caso di soffermarsi oltre. Il motivo delle tre prove che la madre del principe impone alla ragazza è già più interessante, soprattutto combinato al modo in cui le prove sono superate: non grazie alle capacità del personaggio, ma grazie all’intervento del suo aiutante magico. Ricorda un poco quanto avviene nella tipica fiaba della ragazza pigra: la regina le affida lavori di tessitura, lei non muove un dito e frigna tutto il tempo, all’ultimo momento spunta una fata che svolge il lavoro al posto suo in cambio di un invito al matrimonio col principe e tutto si risolve per il meglio. Qui abbiamo Testa di Bufala nel ruolo della fata e non ci sono inviti di mezzo, ma lo schema rimane lo stesso già visto altrove.

Un motivo molto più interessante è quello della trasformazione di una parte del corpo. Nella nostra fiaba, la testa umana della ragazza è trasformata nella testa di un bovino, come punizione per la sua mancanza di gratitudine verso la madre adottiva. Nella novella di Basile, la faccia della ragazza è trasformata in quella di una capra. Molti altri personaggi sono sottoposti a mutazioni simili fin dalle storie raccontate nell’antichità, e potrebbero avere contribuito a fornire la materia prima di questa fiaba. Un esempio famoso di punizione, immortalato nelle Metamorfosi di Ovidio, è quello di re Mida, a cui Apollo fece spuntare un pregevole paio di orecchie da asino come punizione perché, nella sfida musicale tra il dio e il satiro Marsia, il re non lo aveva proclamato vincitore. Un altro lo troviamo in “La bbèlla Mandùche”, fiaba contenuta nel volume Tradizioni popolari abruzzesi di Gennaro Finamore e molto simile come trama alla nostra Testa di bufala: la ragazza ingrata è qui punita con una lunga barba, che il principe di turno non apprezza molto.

Più peculiare è il caso di Niamh Chinn Óir, figlia di Manannán, il dio irlandese del mare. Manannán, infatti, trasformò la testa della figlia in una testa di maiale, non certo una sorte molto migliore rispetto a quella toccata alla ragazza anonima di Testa di bufala. Nel suo caso, però, non era stata una punizione, non esattamente, ma uno dei soliti tentativi vani di premunirsi contro una profezia. Come al solito, il tentativo non funziona: a spezzare l’incantesimo sarà Oisín11 e lo spezzerà nell’unico modo in cui questi incantesimi si possono spezzare, ossia sposando la ragazza dalla testa di maiale. Il matrimonio lo costringerà a trasferirsi ad abitare a Tir na nÓg12, dove vivrà una esperienza da Urashima Tarō irlandese, scoprendo al suo ritorno in patria che i tre anni trascorsi nell’altro mondo corrispondono a trecento anni nel nostro mondo, ma questa è un’altra storia e non ci interessa, al momento.

Nel caso di Testa di bufala abbiamo sia una punizione, come quella di Mida, sia un viaggio in un altro mondo, forse il mondo dei morti, come accade a Oisín, e anche in questa storia la mutazione è legata a un matrimonio, ma le somiglianze si esauriscono qui: il modo in cui gli elementi sono ricombinati nella fiaba toscana è diverso dagli esempi “mitici” e un confronto vero e proprio sarebbe una perdita di tempo. Limitiamoci sono a fare presente che il tema della trasformazione di una parte del corpo, per punizione o altro, ha precedenti famosi e la nostra fiaba si inserisce almeno in parte in quella tradizione.

Il risultato è una fiaba piuttosto convenzionale come struttura generale, che condivide diversi motivi con molte altre storie e che ci conduce al solito lieto fine con una spruzzata di insegnamento morale, a modo suo, e un blando tentativo di mostrare una maturazione nella protagonista. Protagonista che, va sottolineato, rimarrà anonima per tutta la storia, proprio come gli altri personaggi umani: il solo nome proprio utilizzato è quello della testa bovina e, beh, non è che sia proprio un granché di nome, diciamolo pure. Una testa di bufala che si chiama Testa di Bufala non vincerà mai un premio per l’originalità, suppongo, anche se è indubbiamente appropriato e descrittivo. A rendere particolare la storia è la scelta delle immagini, non la trama.

Perché proprio una testa di bufala? Perché una casa sotterranea, con una scala di vetro per accedere? E perché scegliere di consegnare i prodotti della tessitura racchiusi dentro una noce e una nocciola? Abbiamo provato a rispondere in un modo forse non convenzionale, utilizzando un vocabolario di (ipotetici) simboli preistorici redatto da Marija Gimbutas, collegati al culto di una (presunta) Dea nell’Europa antica e nei paesi limitrofi. Alcuni di questi simboli sembrano sorprendentemente adatti al nostro caso, vuoi per pura coincidenza, vuoi per una qualche misteriosa forma di memoria ancestrale, quello che Jung chiamerebbe forse “inconscio collettivo”. Ognuno scelga pure liberamente come considerarla, a seconda delle proprie preferenze: resta il fatto che i simboli sembrano funzionare, in questo caso specifico. In altri casi probabilmente non funzionerebbero. Come dicevo in apertura, ho scelto questa fiaba proprio perché sembra fatta apposta per essere interpretata così: la nostra breve analisi sembra confermare questa impressione.

Cosa ne possiamo ricavare? Che se partiamo con una idea preconcetta, qualunque essa sia, la troveremo confermata in ogni nostra analisi della realtà. In questa fiaba compaiono immagini che sembrano corrispondere a simboli usati nel neolitico e dintorni. Improbabile che siano stati inseriti deliberatamente da chiunque abbia inventato questa storia, o da uno dei narratori successivi. Forse rispecchiano un vago ricordo di tradizioni che si sono conservate più a lungo in quella particolare zona geografica, sopravvivendo come immagini anche dopo che il loro significato era stato ormai dimenticato da tutti. Forse è solo una pura coincidenza, come possono capitare spesso nella vita. Non tutti i sigari sono necessariamente un simbolo fallico, dopotutto: a volte sono solo sigari.

Altra possibile lettura, che non esclude ma integra quella a cui ci siamo riferiti fino a qui, è di vederla come la versione romanzata di un rito d’iniziazione, come se ne svolgevano parecchi anche nella nostra antichità. Abbiamo la ragazzina che lascia la casa dei genitori e si ritira a vivere in un posto isolato assieme a una guida che indossa una maschera di bufalo. Per alcuni anni rimane a vivere in questo luogo, dove riceve una educazione appropriata al suo futuro ruolo di donna e madre. Al termine di questo periodo, è restituta al mondo normale, dove dovrà sposarsi e cominciare la propria vita come membro attivo della comunità. In un primo momento non è ammessa integralmente nel nuovo ordine sociale e deve indossare anche lei una maschera, come la sua guida, a simboleggiare il suo ruolo di personaggio liminale, sospeso tra due mondi. Dopo avere superato anche le prove a cui la futura suocera la sottopone, si conquista il diritto di entrare nella nuova famiglia e può abbandonare il travestimento: è reintegrata nella società, è una donna adulta, sposata e si è guadagnata il suo vissero felici e contenti.

Poteva avvenire qualcosa del genere in epoca neolitica? Sicuramente sì, dato che si conservano tracce di cerimonie simili anche nella classicità greca e romana, sebbene in forme molto più brevi e semplificate. Se sia avvenuto davvero e abbia fornito il seme da cui, col tempo, sono germogliate storie come questa, però, è tutto un altro discorso ed è molto difficile da dimostrare. Teniamola buona come possibile lettura, se vogliamo, ma non cerchiamo di convincerci che sia la verità assoluta: il rischio di essere smentiti dalla realtà è troppo elevato.

La fiaba Testa di bufala, come molte altre fiabe, può essere interpretata in svariati modi, se davvero lo si desidera. Ricorrendo alla simbologia codificata (o decodificata, a seconda dei punti di vista) da Marija Gimbutas nei suoi studi sull’arte preistorica, alcune immagini sembrano assumere un senso e non essere soltanto una scelta arbitraria. Forse è una interpretazione corretta e forse non lo è; forse la fiaba riecheggia concetti di grande antichità e forse è solo un racconto per far passare il tempo e intrattenere il pubblico con scene buffe, che per puro caso coincidono con vecchi simboli. L’ultima parola è giusto lasciarla ai lettori, ossia ai destinatari della storia. Così è, se vi pare.

NOTE

1 - Tecnicamente proviene dalla raccolta Sessanta novelle popolari montalesi pubblicata nel 1880, che contiene le storie collezionate da Gherardo Nerucci setacciando i dintorni di Pistoia a partire dal 1868. Calvino vi ha attinto a piene mani per il reparto toscano della sua opera, proprio come ha pescato dai volumi di Pitrè per le fiabe siciliane. Ma questo è un altro discorso.
2 - Un teschio di bovino, ovviamente. Da non confondere con Bucefalo, che invece era il cavallo di Alessandro Magno e il cui nome significa “testa di bovino”: simile a un teschio, d’accordo, ma non proprio uguale.
3 - In questa fiaba vanno di moda gli intervalli di otto giorni, già. Ne troveremo altri.
4 - Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea (1989), pag. 265.
5 - Si può discutere su questa tradizione ed è stato fatto più volte, immaginando antiche forme di successione che davano la precedenza all’ultimogenito anziché al primogenito, e molto altro ancora, intrecciato anche coi miti in cui sono i figli minori a conquistare il trono di signori degli dèi (solo in Grecia abbiamo prima Crono, poi Zeus). Tutto interessante, certo, ma ci porterebbe fuori tema e quindi passiamo oltre.
6 - Marija Gimbutas, op.cit., pagg. 269-270.
7 - Per dettagli, rimando in particolare a Károly Kerényi, Nel labirinto.
8 - Marija Gimbutas, op.cit., pag. 298.
9 - Nei paesi baltici, forse? Marija Gimbutas qui non lo specifica, ma nelle sue opere sono il bacino a cui attinge di preferenza, quando parla di antiche tradizioni sopravvissute tra i contadini in un qualche angolo di Europa. Niente di strano, essendo lituana lei stessa e avendo dunque la possibilità di esaminare da vicino eventuali residui di culti o credenze precristiane tra i suoi conterranei.
10 - Anche in una versione basca della fiaba resa famosa da Perrault sotto il titolo di Pelle di asino, presente in vari paesi sotto altri nomi, troviamo le noci usate come contenitori per gli abiti magici che la fata di turno dona alla protagonista. Il popolo basco è considerato da Gimbutas una sopravvivenza degli antichi abitanti dell’Europa, predecessori degli indoeuropei e devoti alla Dea, che nel caso dei baschi compare come Andre Mari. Giusto a titolo informativo.
11 - Meglio noto al grande pubblico col suo nome scozzese, Ossian: proprio quello a cui furono attribuiti i celebri canti che tanto piacquero a lord Byron.
12 - Un mondo noto con svariati nomi, tra cui “terra della promessa”: a volte corrisponde al mondo dei sidhe, a volte a una specie di Campi Elisi, ma in generale è il posto dove vive il popolo fatato delle storie irlandesi e segue regole diverse dal mondo degli esseri umani. Può includere o meno i morti, a seconda del racconto in cui compare: i suoi confini non sono ben definiti, almeno non nella tradizione irlandese giunta fino a noi attraverso i monaci cristiani medievali.