Adriano - racconti e altro

Due canti tradizionali ainu

Ho qui tradotto dalla lingua ainu due canti tradizionali, classificati come Kamui yukar in quanto i protagonisti, ossia i narratori delle storie, sono divinità. Più o meno. Sono quello che gli ainu consideravano kamui, se non altro, un termine che possiamo tradurre solo approssimativamente come divinità. Di fatto, kamui è un qualunque tipo di ierofania o cratofania, positiva o negativa, più variazioni sul tema: può essere un animale o una pianta, un luogo o un evento meteo, una persona imponente o una malattia. Esiste persino un kamui dei gabinetti, tanto per dire. Il punto è che il narratore di un kamui yukar non è mai un comune essere umano e in genere non è neppure umano, anche se può essere antropomorfo.

I due canti che ho preso qui in esame hanno ben poco di mitologico, almeno secondo la nostra idea di mitologia. Sono solo brevi episodi nella vita di personaggi soprannaturali, che si comportano in un modo non molto differente da normali esseri umani. Queste due traduzioni vogliono solo essere un semplice esercizio e non hanno altre pretese: anche per questo ho scelto due testi brevi. Brevi ma curiosi, almeno a mio parere; in modo particolare il secondo, che è una ennesima variante di un motivo che sembra piacere molto agli ainu, almeno a giudicare dal fatto che ne sono stati raccolti esempi e varianti fin dal 1886, cioè da quando qualche studioso ha cominciato a raccogliere in modo serio le storie raccontate dagli ainu.

Per il resto, entrambi i testi provengono da Nakagawa, Hiroshi; Bugaeva, Anna; Kobayashi, Miki and Yoshimi, Yoshikawa (2016-2024) A Glossed Audio Corpus of Ainu Folklore. NINJAL. Lì potrete trovare le versione in lingua originale, traduzioni in giapponese e inglese, ma anche i file audio delle storie, se le desiderate ascoltare dalla viva voce di una vecchia ainu.

Rombo

Il titolo di questo kamui yukar, se di titolo si può davvero parlare, proviene dal ritornello (sakehe) che accompagna e scandisce la sua recitazione. Il ritornello in questione è rittunna1, una parola che non ha alcun significato concreto, ma che dovrebbe funzionare come onomatopea e suggerire l’idea del rombo del tuono. Perché è usato proprio questo suono, poi, lo scopriremo alla fine, cioè quando l’identità del narratore sarà svelata, come da tradizione dei kamui yukar. Tutti questi canti sono generalmente narrati in prima persona (plurale, che è majestatis), in quanto il protagonista è un kamui, ossia un essere divino. Fa eccezione solo l’ultimo verso, che è di solito una “didascalia” in cui l’identità del narratore è svelata.

Ho modificato leggermente la scansione dei versi, per seguire la presenza del ritornello nella recitazione del canto. Ognuno dei versi seguenti, dunque, è da considerarsi come preceduto dal suo ritornello, cioè rittunna: non l’ho scritto ogni volta, ma ho rispettato in questo la convenzione tipica di scrivere il ritornello soltanto una volta all’inizio. Metrica e rima sono assenti anche in lingua originale, come è normale nei canti di questo tipo.


Rittunna!
Un villaggio ainu
Volevo vedere.
Per questo motivo
Al veicolo2 in vimini m’allacciai,
Mi strinsi ben forte
E corsi via,
Andai e poi
Sulla soglia del capovillaggio arrivai.
Fatto questo,
Dalla finestra spiai.
Il capovillaggio affilava lame.
«Ma io venni perché il villaggio ainu volevo vedere, no?»
Così pensai, quindi corsi via,
Andai nel villaggio ainu.
Che meraviglia!
Belle case
In gran numero c’erano,
Apparivano disposte
In modo incantevole.
Ne fui affascinato.
Quindi tornai, di nuovo
Venni alla soglia del capo villaggio;
Guardai, e là
Due donne c’erano.
Una donna
Stava tessendo,
Una donna
Stava cucendo.
Allora il capo del villaggio
Parlò come segue.
«Voi donne,
C’è un suono come di un dio che passa: siate reverenti!»
Così parlò il capo del villaggio, ma ancora prima, le teste già s’erano scoperte,
Accantonato era ciò che facevano,
E vidi che con rispetto agivano.
«Sono davvero obbedienti!» Così pensando, me ne compiacqui e indietro tornai.
Ecco quanto raccontò Kanna Kamui3.

Passero

Il ritornello di questo kamui yukar è hankirikiri, che dovrebbe suggerire il cinguettio di un passero, personaggio che ci racconta la storia in prima persona. Che l’onomatopea funzioni o meno, poi, è a discrezione del lettore, ovviamente. Secondo chi ha composto il canto, hankirikiri è una valida trasposizione del cinguettio di un passero, a quanto pare, poi ognuno è libero di pensarla come preferisce. Ho sistemato la scansione del testo per seguire la presenza del ritornello, dove possibile: ogni verso è dunque da considerarsi come preceduto dal ritornello. Forse.

Un problema di questo testo è infatti il suo stato di conservazione, non impeccabile. Come si può sentire bene anche dalla registrazione audio, la narratrice ricordava la storia in termini generali, ma in più occasioni aveva dubbi sulle singole frasi o parole da usare. Anche la trascrizione del testo presenta almeno una lacuna. Stando così le cose, sarebbe stato meglio ignorare questo canto, invece di impelagarmi in una traduzione che avrebbe sicuramente contenuto errori o scelte discutibili, essendo condotta su un testo incerto, ma l’ho tentata ugualmente perché il racconto aveva un suo interesse. Non perché la storia sia importante o profonda: non lo è proprio. È interessante per un altro motivo.

Nel 1886 Basil Chamberlain aveva trascritto una storia che assomigliava a questa: una festa rovinata da un corvo che entrava con un escremento in bocca. Una seconda storia dello stesso tenore gli era stata poi riferita anche da John Batchelor, sempre con un corvo che irrompe in una festa di uccelli tenendo un escremento in bocca. Questo yukar ci presenta una nuova variazione dello stesso motivo, confermandoci che, a quanto pare, gli ainu amavano molto abbinare il corvo agli escrementi. Le motivazioni cambiano nelle varie storie, così come cambia il finale, ma c’è sempre un corvo che porta un escremento nella casa dove è in corso una festa. Curioso, direi.


Hankirikiri!
Un chicco di riso
Beccavo e beccavo,
Preparavo il sake.
Tutte le divinità
Invitai a venire.
Anche il ragazzo Ghiandaia
Invitai a venire.
Anche il ragazzo Corvo
Invitai a venire.
Passati due o tre giorni
«Il sake è buono, buono» così si diceva.
Bevevamo allora,
Tutte le divinità
Facevano festa assieme.
Bevevamo allora
E avevamo appena finito di bere
Quando il ragazzo Ghiandaia
Danzando uscì a svuotarsi4.
Poco tempo dopo
Da solo tornò indietro.
Con una ghianda
Tenuta in bocca
Tornò indietro.
Tutte le divinità
Fece ridere
Comportandosi così.
Il ragazzo Corvo
Guardava attento;
Andò fuori
E presto tornò.
Lo guardai e
con un grosso e duro escremento
Tenuto in bocca
Era tornato indietro.
Tutte le divinità
Si arrabbiarono e
Il giovane Corvo
Fu picchiato da tutti,
Fu ucciso5 e
Fu gettato via.
Tutte le divinità erano arrabbiate. «D’ora in poi un simile imitare in modo sporco non accada mai più» dissero, e tornarono a casa6.
Ecco quanto raccontò il passero.7

NOTE

1 - L’accento è sulla lettera i: rìttunna.
2 - Il termine ainu sinta, nel linguaggio quotidiano, indicava un particolare tipo di culla, il solo tipo di culla che fosse diffuso tra gli ainu del passato. Era una struttura simile a una specie di altalena. Poteva essere fissata direttamente al soffitto, a un ramo, oppure a una specie di treppiede formato da tre pali fissati al suolo; in ogni caso, la culla era una piccola piattaforma fatta di vimini o legno. Il neonato era fissato ben stretto alla piattaforma e poteva così essere fatto dondolare nell’aria, per cullarlo. Nei kamui yukar, invece, con sinta si indica un veicolo utilizzato dai kamui per viaggiare nell’aria, in genere per spostarsi dal loro mondo a quello umano. Cosa fosse di preciso non lo sappiamo, ma le scarne descrizioni che troviamo nei canti, limitate di solito a una parola o due, come qui, lo fanno assomigliare almeno un poco alla culla dei neonati, ma capace di volare, spesso emettendo forti rumori: entrambe possono essere fatte di vimini, entrambe galleggiano in aria, entrambe richiedono che il loro passeggero sia legato ben stretto. Forse un tipo di sinta deriva dall’altro, o forse chissà. Per il resto, immaginatelo pure come preferite.
Curiosamente, a pagina 583 del suo The Ainu and their folklore, John Batchelor scrive di aver scoperto che la gente a volte si rivolge a Dio usando il termine shinda (la sua trascrizione di sinta), perché lui stesso li ha sentiti invocare Dio con questo nome. Non ho idea se si tratti di una incomprensione, oppure di una deformazione professionale, dato che Batchelor visse per anni tra gli ainu come missionario anglicano, ma tant’è.
3 - Kanna Kamui è il dio del tuono, come il ritornello suggeriva. La parola kanna significa appunto “tuono”; può anche significare “di nuovo” o “in alto”, come in kanna mosir, il mondo celeste o superiore, che è di solito contrapposto a pokna mosir, il mondo infero, ma questo è un altro discorso e qui non ci interessa. Il tuono può anche essere indicato semplicemente come kamuyhum, ossia “il suono (hum) del dio (kamui)”, che non è molto diverso dal giapponese kaminari, oppure in una forma più lunga come kannakamuyhum, cioè il suono del dio del tuono. Rittunna sarebbe appunto questo suono.
4 - Qui il testo originale propone un esoyne soyne. Nel canto sono presenti diversi verbi con raddoppiamento, come tokpatokpa, oppure tapkartapkar, e questo potrebbe essere interpretato allo stesso modo, volendo. Il problema è che qui i due verbi sono scritti separati; inoltre, se soyne significa “uscire”, esoyne significa invece “andare al gabinetto”, preso da solo, che non è proprio la stessa cosa. Forse è stato scritto male, forse no. Ho cercato di tenere assieme il tutto con una traduzione che ha senso, ma che potrebbe non essere approvata.
5 - Degna di nota è l’espressione usata in lingua ainu: a=raike wa isam, che significa letteralmente “fu ucciso e non è più”. Il verbo isam è infatti la forma negativa del verbo essere e significa dunque “non esserci”, “non esistere”. Troviamo altre espressioni simili a questa, in cui gli ainu aggiungono alla fine un “wa isam”, una proposizione coordinata che serve di fatto a rafforzare il concetto che quella particolare cosa non c’è più, è sparita, in seguito all’azione espressa dal verbo contenuto nella proposizione precedente: abbiamo ad esempio arpa wa isam, che significa “se n’è andato” e dunque adesso non è più qui (sia nel senso letterale di “è partito”, sia un quello figurato di “è morto”).
6 - Ho il forte sospetto che la narratrice qui si sia dimenticata un paio di ritornelli, ma il testo era disponibile in questa forma e così l’ho mantenuto.
7 - Una storia quasi identica a questo canto, ma in prosa, la possiamo trovare a pagina 53 di Ainu life and lore, di John Batchelor: la riporto qui di seguito, tanto per averne una versione in più.
“Una volta, un bel piccolo passero raccolse del miglio, lo mise in sei barilotti e li sistemò a fermentare presso la finestra orientale. Passati alcuni giorni, le divinità vollero che fosse diviso anche con loro. L’odore della fermentazione riempiva tutta la casa. Quando fu filtrato e giunse il tempo stabilito per il festino di bevute, venne una grande folla di divinità e la festa fu ben fornita di partecipanti. C’erano aquile e ghiandaie, corvi e uccelli d’acqua, falchi e cornacchie, e molti altri tipi di uccelli. Tutti furono molto contenti del vino delizioso. Mentre gli altri bevevano, la ghiandaia si alzò e danzò davanti alla compagnia. Uscì dalla casa e, quando ritornò, teneva una ghianda nel becco e la lasciò cadere dentro la botte. Questo migliorò il sapore del vino e le divinità ne furono contente. Poi fu il corvo a danzare. Anche lui uscì, ma quando rientrò aveva un pezzo di escremento nel becco, che portò e gettò dentro il vino. Questo lo rovinò e causò molta rabbia. Pareva proprio che il povero corvo sarebbe stato fatto a pezzi. Così i padroni di casa uscirono e chiamarono il picchio, chiedendogli di venire a fare da paciere. Lui però disse: «O passero, tu hai preparato il vino, ma non mi hai invitato alla tua festa. Per questo non ti verrò ad aiutare, adesso, anche se il litigio è così grosso.» In seguito mandarono a chiamare il beccaccino, ma diede la stessa risposta. Siccome non si trovò nessuno che volesse fare da paciere, il povero corvo fu ucciso.”