Giovanni della Forza
Un povero contadino aveva un ragazzone grande e grosso e gli mangiava tanto ch’egli non poteva mantenerlo. Il ragazzone chiamavasi Giovanni della Forza. Un ricco signore lo vide così grande e grosso, gli piacque e lo domandò al padre per servitore. Andato Giovanni nella casa del padrone si trovò con altri servi, i quali non facevano che guardarlo, tant’era alto e membruto. Il padrone disse a’ servi che se ne andassero al vicino bosco e ne atterrassero gli alberi. Prima di partire i servi fecero una buona polenta e si misero a tavola per mangiare. Giovanni, che vide i compagnoni seduti a tavola, cominciò a ridere di que’ bocchini gentili, e preso un calderone e acceso un gran fuoco, si fece una così smisurata polenta che sarebbe bastata per cento; ed egli se la mangiò solo in un attimo. Mangiato ch’ebbero, con carri e scuri s’avviano per andare al bosco. Vi giungono e cominciano il lavoro attorno a una pianta e durano gran fatica prima di atterrarla. Giovanni da principio li guarda, poi piglia una scure, dà con essa contro una pianta, e la pianta è giù, e poi contro un’altra e anche questa è giù. I compagni, trasecolati, stanno a bocca aperta a mirarlo. Ed egli, senza darsi pensiero di loro, atterra tutte le piante del bosco, poi con una lunghissima fune le lega in un fascio, che pareva un monte, e se lo tira dietro sino a casa. Al padrone non pareva vero di possedere un servitore così forte e così utile, e gli prese a voler bene. Ma per questo appunto gli altri servi cominciarono ad averlo in odio e a pensar il modo di ucciderlo. Un giorno, mentre Giovanni se ne andava solo per la campagna, gl’invidiosi cominciarono a gettargli contro sassi da tutte le bande, pensando che non se ne sarebbe potuto difendere. E invece il giovanotto, al piovere de’ sassi, non fa che grattarsi il capo, dicendo: Oh! curiosa questa, vien giù la tempesta e il cielo è sereno. Videro allora i servi che la pelle di Giovanni era troppo dura e che dovevano pensare ad altro se volevano liberarsene. Ed ecco come credettero d’averne trovato il modo. Se n’andava una volta Giovanni solo per la campagna; passa vicino a un pozzo e vede lì presso un uomo che si lamentava in questa maniera: Oh! poveretto me. Chi m’aiuterà? io son rovinato.
-Che hai?- domanda il giovane, - perchè ti disperi tanto?
-Oh! se sapessi, - risponde l’uomo, - io me n’andava alla vicina città e portava meco una cassetta di gioielli che era tutta la mia fortuna. Stracco, mi fermo a questo pozzo per riposarmi, metto giù la cassetta, e senza ch’io sappia come, mi cade nell’acqua. Io non ho il coraggio di calarmi giù, chè son troppo meschino. Ma tu, che sei così forte e gagliardo e buono, dovresti aiutarmi, calarti nel pozzo e tirarmi su la cassetta, che te ne sarò grato.
-Oh! ben volentieri, - disse Giovanni; - trova tu una corda e poi lascia fare a me.
La corda fu recata, e Giovanni, calato giù nel pozzo, poteva pescare un secolo, che la cassetta non l’avrebbe già trovata. E intanto i servi, che avevano ordito l’inganno per ammazzarlo a man salva e ch’erano appiattati lì vicino, s’accostarono al pozzo, e alzata a stento una grossa macina da mulino, ve la lasciarono rovinar giù. Ma Giovanni, credete che rimanesse schiacciato come una focaccia? V’ingannate. Non s’accorse nè anche egli della macina; e poco dopo, non trovando la cassetta, fece segno con la fune all’uomo del tesoro che lo tirasse su. I compagni però eransi dileguati e con essi l’amico. S’aiutò da per se il giovane alla meglio, e fu fuori del pozzo, e comparve innanzi ai servi, che come rimanessero al vederlo, immaginatelo voi. Allora videro ch’era proprio una pazzia il voler vincere un uomo di quella forza e da nemici gli diventarono amici. Anzi vollero fare un pranzo. Mentr’erano a tavola, dànno un grosso tacchino a Giovanni perchè lo spartisca. Giovanni se lo prende, e senza tanti complimenti, comincia così intero a mandarlo giù per la gola. E spingi e spingi, una zampa del tacchino si mostrava ancor fuori, e un gatto, ch’era quivi, spicca un salto e addenta la zampa di tutta forza. Non si sbigottisce il ghiottone, e spingi e spingi, si caccia giù per quella golaccia anche il gatto. Ma questo non era già morto, e quando si sentì sepolto nel ventre di quell’omaccione, cominciò a graffiar disperatamente, e graffia e graffia, uscì finalmente di quel buio. E il povero Giovanni della Forza cadde a un tratto morto lungo disteso per terra.
Commento
I vari Giovanni forzuti o senza paura, che compaiono spesso nelle fiabe italiane ed europee in generale, hanno questa curiosa tendenza a concludere le loro avventure con una morte imbarazzante, di solito causata da una qualche sciocchezza. Si prenda ad esempio il caso di Zovanin senza paura, protagonista di una fiaba tirolese, che muore di paura dopo aver visto che gli avevano rimontato la testa al contrario (storia lunga). In tutto questo potrebbe forse esserci un qualche tipo di morale, ma probabilmente è meglio non pensarci troppo.
Quella di abbattere tutti gli alberi del bosco e legarli assieme con una corda è una delle classiche millanterie che troviamo nelle storie del personaggio scaltro che inganna un gigante fingendo di essere più forte di lui: spesso quel personaggio parte per girare il mondo dopo aver ucciso più mosche in un colpo solo, gesto che lo fa sentire un eroe. Seguiranno equivoci di ogni tipo e una vittoria finale. Qui la vediamo messa in pratica da qualcuno che non millanta ma fa sul serio, per una volta. Tradizionali sono anche i sassi confusi con gocce di pioggia, quando si vuole mostrare la grande forza di qualcuno.