L’Ingordo
C’era una volta un uomo che si mise in testa di far fortuna e diventar ricco, se poteva, di pover’uomo che egli era. Com’ha da fare, che non aveva nulla al mondo? Prende una fava e dice tra sè: Questa m’ha da arricchire. Si mette in via e, dopo molto aver camminato, giunge a una casupola di contadini. C’era sulla porta una donna, che stava aspettando il marito. Le s’avvicina e dice: Fatemi il piacere, buona donna, di tenermi per poco questa fava, ch’io torno subito, - e gliela dà. La contadina, senza pensare al fine, prende la fava e la mette sopra un deschetto. Lì attorno c’erano de’ polli, che andavano beccando qua e là. Uno d’essi salta sul deschetto, dà del becco sulla fava e se la inghiotte. Proprio in quella, ed eran passati pochi minuti, torna il galantuomo e ridomanda la sua fava. La contadina cerca e non la trova più. - Sarà stato questo pollo, - dice l’uomo, - a mangiarmela; non vedete che ancor si netta il becco? Ma io non voglio perder il mio, - e si prende il pollo. La povera donna lo prega che non faccia, ch’ella non n’ha colpa; ma l’altro duro, e va al suo viaggio.
Cammina ancora, e si ferma a una cascina. Picchia, e a un contadino che gli viene ad aprire, dice: Tenetemi, vi prego, per poco questo pollo in custodia, finchè io torno.
- Volentieri, - risponde il contadino, - date qua, - e prende il pollo e lo mette in una stalla dov’era un maiale. Questo, senza una discrezione al mondo, sentendosi il nuovo ospite tra le gambe, lo acciuffa e se lo mangia. Torna il padrone e vuole il suo pollo. - Che volete ch’io vi faccia? quell’ingordo di maiale se l’è mangiato. Ve ne darò un altro in suo cambio. - Il ladro, che ormai gli si può dare questo nome, grida ad alta voce: No, io non ci sto a questi patti. O voi mi restituite il mio pollo, o io porto via il vostro maiale. - Ripiglia il contadino: Vi par giustizia codesta? - Ma non ebbe tempo nè anche di aggiunger parola, che il briccone lo piglia per la gola, lo chiude in una stanza, e se ne va col maiale.
Cammina ancora, e giunge alla casa di certa povera gente. Domanda che gli tengano per poco il maiale. Dicon di sì, e lo mettono in una stalla dov’era un cavallo. Poco dopo torna il ladruncolo e domanda del suo maiale. Il cavallo se l’è mangiato; ed egli, non badando alle preghiere di que’ poveri diavoli, monta sul cavallo, e via di corsa. Corri e corri, picchia di nuovo a una casa di campagna. Gli viene ad aprire una giovane, la quale domanda: Che volete, buon uomo?- Che mi teniate questo cavallo finchè io ritorno. - Volentieri. - La fanciulla piglia per la cavezza il cavallo e lo tira in una stalla, lo lega e poi prende una forca e riempie la greppia di fieno. Come succedesse non so, il fatto è che ella con la forca ferì il cavallo in modo che cascò per terra morto. La giovane corre in casa, racconta ai suoi la faccenda e si va a nascondere. Arriva il padrone, va in istalla per veder il cavallo e lo trova morto. Domanda ai contadini: Chi m’ha ucciso il cavallo? - Risponde uno: È stata mia figlia, ma non l’ha fatto apposta, credetelo. Chiedete quella ricompensa che vi pare e poi lasciateci in pace.
- Che ricompensa! io voglio la fanciulla, in altro modo voi non ve la caverete.
Dice il povero padre: Abbiate compassione di noi.
Ma il birbone, senz’ascoltar altro, fruga di qua, fruga di là, trovò la fanciulla, la mise in un sacco e se la portò via.
Dopo un pezzo arriva a una casa. Picchia e prega gli si tenga in custodia quel sacco, e poi va per le sue faccende. La fanciulla quando si sentì posar per terra, riacquistò i sentimenti, che aveva prima smarriti per lo spavento. Zitta zitta ascolta per sapere dove si trovi, ed ecco le par d’udire la voce d’una sua zia. La chiama per nome e la prega che sleghi il sacco e la metta in libertà. La padrona della casa, ch’era appunto una zia della giovane, slega il sacco e libera la nipote. Poi pensa al modo di vendicarsi del furfante. Prende un cane rabbioso, lo mette nel sacco, e aspetta che torni pur il galantuomo e si porti via la sua roba: e intanto la fanciulla si nasconde. Non passa un’ora che giunge il ladro. Toglie su il sacco, se lo mette in ispalla e va in mezzo a una campagna e, quand’è qui, messolo per terra, dice: Ah! briccona, tu credevi d’uccidermi il cavallo e di nasconderti e ch’io non ti trovassi. Ma t’ho ben scovata fuori, ed ora sei mia, intendi, e me ne pagherai il fio. Detto questo, scioglie il sacco, ma non l’ebbe appena sciolto, che ne salta fuori il cane rabbioso e lo addenta per il naso, per le orecchie, per le labbra, per tutto il corpo, e lo trascina lungo disteso morto in mezzo alla campagna. E così il malandrino trovò la fortuna che ben meritava.
Commento
Una storia quasi uguale la troviamo nell’opera Moorish literature, pubblicata a inizio Novecento a cura (anche) di Renée Basset: è la fiaba presentata col titolo di “The child” e attribuita ai berberi della Cabiria. Notevole differenza è che la versione nordafricana ha un lieto fine per il truffatore, mentre in questa fiaba mantovana le cose finiscono male per lui, con tanto di morale conclusiva. Potremmo forse aprire un dibattito sulla visione del mondo dei due popoli, i loro codici di valori e così via, ma è forse meglio scrollare le spalle e prenderla solo per quello che è: una fiaba buffa.
Per il resto, la possiamo considerare una versione nera della classica fiaba in cui un personaggio si arricchisce con una serie di baratti sempre più vantaggiosi, partendo da qualcosa di insignificante, come una pagliuzza. Esiste anche la fiaba opposta, raccolta ad esempio dai fratelli Grimm, in cui il protagonista si impoverisce sempre di più di baratto in baratto, credendo di fare invece affari d’oro, ma questo è un altro discorso.