Adriano - racconti e altro

Il mito cosmogonico giapponese

Al principio cielo e terra non erano ancora separati e formavano un’unica massa confusa, simile a un uovo. Al principio c’era la grande pianura del cielo, dove apparvero le prime tre divinità. Al principio c’erano due divinità, che generarono tutto il resto. Al principio si formò una canna di bambù tra cielo e terra, da cui spuntò una divinità. E così via.

Le fonti a nostra disposizione non sono esattamente concordi su cosa avvenne in principio nel mito cosmogonico giapponese. I due testi più antichi e affidabili sono il Kojiki e il Nihonshoki1: il primo fu redatto nel 712, mentre il secondo fu redatto nel 720, entrambi per ordine della corte imperiale. Questi testi ci raccontano la storia del Giappone dalla sua nascita fino a un periodo abbastanza vicino a quello che possiamo considerare storico, almeno per come noi oggi intendiamo la storia, scivolando un poco alla volta dalla mitologia a eventi reali o realistici a sufficienza da essere almeno plausibili. La principale differenza tra questi due testi è che il Kojiki ci presenta una storia unitaria e il più possibile coerente, con una sola versione per ogni evento, mentre il Nihonshoki conserva anche versioni alternative per diversi avvenimenti: il primo è dunque più utile per avere una idea generale della storia, mentre il secondo è una miniera di approfondimenti.

Resta per entrambi i testi la tara di una tendenza a volte eccessiva a politicizzare gli eventi, nonché a forzare una unità nelle storie raccontate che in origine non esisteva. Sono mosaici, composti raccogliendo e appiccicando assieme alla meglio i racconti di aree e popolazioni diverse, nel tentativo di ricavarne una storia unica che mostrasse come la nascita del recente impero giapponese fose voluta dagli dèi (o dal Cielo, in ottica più cinese), quindi da accettare con gioia, mentre lo stesso imperatore era un discendente diretto della divinità suprema, quindi un dio in terra a tutti gli effetti. Aggiungete una spruzzata di cultura cinese, più in evidenza nel Nihonshoki che fu anche redatto in lingua cinese, e il risultato è una coppia di testimoni poco affidabili, ma gli unici a nostra disposizione, per cui ci dobbiamo arrangiare con quello che abbiamo.

Un terzo testo è il Kogo Shūi, che racconta sempre la storia del Giappone e in parte le sue origini mitiche, ma affronta il discorso da una prospettiva leggermente diversa: il suo primo obiettivo sembra essere quello di mostrare come le famiglie aristocratiche più importanti discendessero da divinità e come fosse ingiusto che la famiglia Imibe/Inbe, a cui apparteneva il compilatore del testo, non ricevesse lo stesso rispetto delle famiglie Fujiwara e Sarume. Questo discorso può essere interessante sul piano politico, ma molto meno su quello mitologico.

Un altro problema da affrontare, come si diceva, è l’influsso della cultura cinese, che proprio in quel periodo entrava di peso nell’alta società giapponese. Soprattutto nel Nihonshoki è evidente lo sforzo di razionalizzare la mitologia locale per farla sembrare più matura e “cinese”, con riferimenti continui ai principi di yin e yang, il concetto confuciano di materia leggera e pesante all’origine della formazione di cielo e terra, ma anche la rimozione delle storie meno “serie”, che invece trovano ancora spazio nel Kojiki. Aggiungiamo il fatto che questi testi sono stati redatti unendo i racconti provenienti da regioni diverse del Giappone e il risultato non può che essere piuttosto caotico, a volte contraddittorio. È comunque possibile una ricostruzione di massima del mito cosmogonico giapponese, ripulendolo il più possibile dalle contaminazioni continentali, ed è quello che cercherò di fare adesso. Se questo mito fosse davvero condiviso da tutta la popolazione e non solo dal clan dominante, gli Yamato, è un altro discorso e non abbiamo modo di saperlo.

Possiamo saltare l’immagine dell’uovo cosmico iniziale, che è di chiara origine cinese e non ha alcun collegamento col resto della mitologia giapponese. Il Nihonshoki infatti esordisce parlandoci di come cielo e terra non fossero ancora separati all’inizio, ma formassero una massa confusa, come un grande uovo. In seguito si sarebbero divisi, con la materia più leggera che sale a formare il cielo, mentre la materia più pesante si deposita sul fondo, a formare terra e acque. Questo ipotetico esordio era già stato condannato come non giapponese da studiosi quali Motoori Norinaga e Hirata Atsutane, per cui possiamo tranquillamente seguire il loro esempio e ignorarlo, per passare invece a un inizio molto più in linea con lo spirito dello Shintō.

Le fonti sono più o meno concordi sul fatto che tutto sia cominciato con tre divinità; meno concordi sono sul luogo in cui sarebbe cominciato e sui nomi delle divinità in questione. Secondo il Kojiki le tre divinità primordiali sono Ame no Minakanushi, Takami Musubi e Kami Musubi, venute in essere spontaneamente nella piana celeste di Takamagahara2, un non-luogo che più avanti sarà il paese dove abitano le divinità maggiori del Giappone, una specie di Olimpo collegato al mondo umano da un ponte fluttuante, lo Ame no Ukihashi (che significa appunto “ponte fluttuante del cielo”).

Il Kogo Shūi concorda in parte e ci racconta che tre divinità nacquero spontaneamente nel mezzo del cielo poco dopo la sua separazione dalla terra: le divinità sono Ame no Minakanushi, Takami Musubi e Kumumi Musubi. Le ultime due si distinguono anche per sesso: Takami Musubi sarebbe maschio, mentre Kumumi Musubi sarebbe femmina. Il Kogo Shūi procede poi a spiegarci quali nobili famiglie sarebbero discese in un qualche modo dalle divinità primordiali, ma qui non ci interessa.

La cosmogonia del Nihonshoki ha un inizio diverso. Nello spazio aperto tra cielo e terra, dopo la loro separazione, si sarebbe formata una specie di canna di bambù, che divenne poco dopo un dio con il nome di Kunitokotachi. A seguire, altre due divinità sarebbero apparse a formare una triade iniziale: Kuni no Satsuchi e Toyokumu. Questo almeno secondo la prima versione. Ne esistono sei in totale, che si differenziano soprattutto per il nome delle divinità apparse, ma concordano più o meno sul resto: una di queste ci propone anche nomi quasi identici a quelli che troviamo nel Kojiki, probabilmente perché ha attinto alle sue stesse fonti.

In linea generale, le tre divinità primordiali seguono uno schema simile in tutti e tre i testi: la prima divinità ha un nome che suggerisce una idea di maestà e centralità3, mentre le altre due tendono più a suggerire idee di crescita, sviluppo e abbondanza. Un tratto che caratterizza tutte queste divinità, in ogni caso, è che non fanno nulla di concreto per creare il mondo: esistono e basta. Il Kojiki precisa anche che “scompaiono” poco dopo essere apparse in scena. Alcuni interpretano questa sparizione come un diventare invisibili, altri come una specie di morte, ma in generale può essere considerato un segno della loro irrilevanza pratica nelle narrazioni più recenti del mito cosmogonico.

In Miti, sogni e realtà Mircea Eliade considera queste tre divinità primordiali come la versione giapponese di un motivo comune a numerose culture in tutto il mondo: le divinità celesti adorate in una età molto arcaica, dal carattere astratto, che poi sono sostituite da nuove divinità più concrete e immediate, a mano a mano che la cultura di riferimento passa da una struttura sociale basata sulla caccia e raccolta a una basata invece sull’allevamento e l’agricoltura. Se all’inizio si guarda al cielo e alla sua maestà come principio di tutte le cose, in seguito ci si concentra sulla terra e la sua fecondità molto più palese e immediata: le divinità celesti non sono abbandonate del tutto, ma passano in secondo piano, sono sostituite nel culto da divinità più concrete e diventano una sorta di fossile divino, ricordate ma non più adorate, non più rilevanti per la vita di ogni giorno.

Le tre divinità primordiali del Giappone rientrano in questa categoria? Ipotesi plausibile e a modo suo accettabile, ma non disponiamo al momento di dati sufficienti per dire come potesse essere la religiosità giapponese in epoche remote, per cui credo che sia meglio tenerla come ipotesi e non cercare di incoronarla come verità incontrovertibile. È una possibilità, ha una sua logica e tanto può bastare. Sia come sia, queste divinità spariscono quasi subito dal mito cosmogonico e tutto il lavoro di creazione del Giappone sarà subappaltato ad altri. Alcune di loro riappariranno in seguito, di tanto in tanto, ma mai come creatori. Il compito di generare il mondo spetta a figure diverse.

A chi, nello specifico? Ci arriveremo a breve.

Abbiamo dunque tre divinità, apparse all’inizio dei tempi. Subito dopo il loro arrivo, il Kojiki ci racconta che esisteva una piccola terra galleggiante sul mare, come una macchia di olio, e fluttuava come una medusa. Su questa terra si trovava qualcosa di simile a una canna di bambù, da cui germogliarono altre divinità. La stessa canna di bambù presente nel Nihonshoki? Quasi di sicuro. La si potrebbe considerare anche una versione primitiva della colonna centrale, che in innumerevoli mitologie congiunge tutti i piani verticali di esistenza: cielo, terra, inferi, più eventuali altri se presenti, ma il prosieguo del mito cosmogonico ci fornirà un’altra e più precisa immagine di colonna centrale, che prenderà il posto della canna di bambù. Questo avverrà però all’inizio della creazione del Giappone, cosa che deve ancora accadere: per adesso abbiamo solo un suo possibile embrione, la piccola isola sospesa sulle acque, che galleggia qui e là con la sua canna di bambù e non è fissata al mondo.

Prima della creazione vera e propria appariranno altre serie di divinità, per un totale di sette generazioni. All’inizio saranno divinità singole, e tutte queste divinità singole “spariranno”, almeno secondo il Kojiki, ma in seguito cominceranno ad apparire a coppie, un maschio e una femmina. Ai fini del mito cosmogonico, tutte queste divinità sono irrilevanti, perché non creano alcunché4: sono lì e basta, in alcuni casi forniscono un antenato a una famiglia aristocratica giapponese, ma in generale sembra che il loro scopo sia solo quello di raggiungere il numero sette, perché la settima generazione è quella che conta. Con Izanami e Izanagi, i settimi, il lavoro può cominciare.

Izanami e Izanagi sono la coppia che il Kogo Shūi indica come creatori del Giappone nella prima versione del mito cosmogonico. Li ritroviamo come protagonisti anche negli altri due libri, il Kojiki e il Nihonshoki, dove però arrivano alla fine di una lunga sfilza di divinità prive di un ruolo specifico nella creazione, forse il residuo di una divinità celeste primordiale divenuta poi un deus otiosus, come succede in molte altre mitologie. Irrilevante. A contare è la coppia che agirà d’ora in poi nel ruolo di demiurghi, creando le isole del Giappone e le divinità che successivamente saranno assegnate a governarle e a gestire il mondo nel suo complesso.

Izanagi è maschio, Izanami è femmina. Sono presentati come fratello e sorella, ma come spesso accade alle divinità agiranno anche come marito e moglie. Saranno anche identificati coi principi taoisti di Yin e Yang, ma questa è chiaramente un’aggiunta successiva, che non trova spazio nella versione più antica del mito cosmogonico giapponese. Izanami e Izanagi sono una coppia, sono demiurghi, sono forse il prototipo del primo uomo e della prima donna, come li interpretano alcuni studiosi, ma sono soprattutto i personaggi che porteranno a termine la cosmogonia, prima di ritirarsi e cedere il posto alla generazione successiva, che dovrà invece gestire e conservare il mondo.

I loro nomi sono tradotti di solito come “Il maschio che invita” (Izanagi) e “La femmina che invita” (Izanami), ma è stata proposta anche almeno un’altra etimologia, secondo cui i nomi conterrebbero un riferimento geografico, forse legato al luogo dove avrebbe avuto inizio la civiltà giapponese o forse solo al paese abitato dalla comunità che per prima ha tramandato questo mito. Se li interpretiamo come un riferimento geografico, i loro nomi significherebbero “Quello di Iza” (Izanagi) e “Quella di Iza” (Izanami). Altre interpretazioni sono proposte, ma non è il caso di soffermarsi troppo a lungo su questi dettagli. Qui abbiamo l’inizio di quello che forse, in passato, era la forma più autentica del mito cosmogonico giapponese ed è dunque meglio procedere con la sua descrizione.

Tutto comincia nella piana celeste di Takamagahara, quando le divinità più antiche convocano Izanami e Izanagi, consegnano loro una lancia decorata di gemme e li incaricano di costruire e consolidare il paese galleggiante. La lancia in questione è spesso raffigurata come una normale lancia: nello specifico, una lunga asta di legno sormontata da un coltellaccio a doppia lama, con pendagli appesi alla base della punta, decorati con gemme a forma di virgola. Può anche essere considerata un simbolo fallico e alcuni studiosi lo fanno, associandola allo obashira, la “colonna maschio”: una colonna dalla cima a semisfera che è rimasta a lungo in uso anche a scopi decorativi. Non è improbabile che le due forme siano collegate, ma in questa scena sarà usata solo come lancia e ci possiamo accontentare di considerarla una semplice asta decorata da gioielli.

I due discendono dal cielo attraverso il ponte Ame no Ukihashi, che collega il paese delle divinità al mondo sottostante ed è forse una immagine ispirata all’arcobaleno, che anche in altre culture è spesso usato dalle divinità per comunicare tra cielo e terra5. Giunti in vista delle acque, che in quel momento coprivano tutto il mondo, Izanami e Izanagi vi affondano la lancia: quando ritirano l’arma, le gocce che cadono dalla sua punta si depositano sulla superficie del mare e si solidificano, creando così la prima isola, chiamata Onogoro. I due demiurghi possono così scendere dal cielo e posare per primi i piedi sulla terra. Quale sarebbe di preciso questa prima terra è dibattuto, ma in una poesia attribuita all’imperatore Nintoku l’autore dichiarava di poter scorgere Onogoro mentre si trovava sull’isola di Awaji, nel mare interno del Giappone, e la tradizione giapponese non lo ha mai smentito. Possiamo dunque tenerla per buona anche noi.

Possiamo aggiungere che nella narrazione che ci presenta il Nihonshoki sono descritte versioni alternative di come sarebbe stata creata questa prima terra: l’isola di Onogoro non si sarebbe formata da gocce di acqua condensate, ma sarebbe stata estratta dal fondale marino con la lancia, per esempio, oppure l’avrebbero trovata frugando alla cieca con la lancia sulla superficie del mare, e così via. Sia come sia, l’isola è creata in un modo che richiama i pescatori primordiali di altri miti cosmogonici, diffusi soprattutto tra popoli di Asia settentrionale e Nordamerica, e il Giappone comincia così a prendere forma.

Izanami e Izanagi scendono dunque su questa isoletta, formata da gocce d’acqua solidificate. La loro prima azione è costruire una casa per stabilirsi in quel luogo, che diventerà così il pilastro al centro del paese. Secondo il Kujiki (da non confondere col Kojiki: sono due testi diversi), invece, il pilastro centrale sarà la stessa lancia ingioiellata, che i due useranno come colonna portante al centro della loro nuova casa. Sia come sia, l’isola di Onogoro diventa lo axis mundi, la colonna di congiunzione tra cielo e terra: è la prima isola a essere stata fondata, è alla base del ponte che discende dal cielo, è la sede dei demiurghi, è il posto in cui si trova la lancia con cui il primo pezzo del Giappone è stato costruito. Come Eliade ci ricorda in più occasioni, l’uso di considerare come axis mundi il pilastro centrale della casa è diffuso in svariate culture in tutto il mondo, specie in Asia settentrionale, e non è strano ritrovarla anche nel mito cosmogonico giapponese. Se la casa rappresenta un microcosmo, un mondo in miniatura, allora il suo pilastro centrale, che regge il tetto, rappresenterà una versione in miniatura dell’asse che attraversa e unisce il macrocosmo.

La fase successiva è interessante sotto vari aspetti. Dopo aver eretto una casa, Izanami e Izanagi decidono di sposarsi e per ufficializzare il loro matrimonio ricorrono a un rituale curioso, che forse era davvero in uso nel Giappone arcaico: in questo caso, che a istituire la tradizione siano stati i due demiurghi vale come modello mitico che la popolazione ha poi seguito, l’antecedente sulla cui base tutti i matrimoni sarebbero stati condotti. È stato anche suggerito che l’intera cerimonia fosse una specie di danza di corteggiamento per coppie, come si potevano trovare nei paesi europei attorno all’albero di maggio, e anche questa ipotesi ha una sua verosimiglianza almeno ideale. Ma vediamo adesso come sia di preciso questa cerimonia.

Izanami e Izanagi girano attorno al pilastro del mondo, che è anche la colonna portante della loro casa, cioè il palo al centro della capanna. Izanami, la donna, gira attorno al pilastro da destra, mentre Izanagi, l’uomo, vi gira attorno da sinistra. Quando si incontrano sul lato opposto, Izanami parla per prima, recitando quella che era probabilmente una formula stereotipata per il rituale di matrimonio o almeno di corteggiamento. Il loro successivo rapporto sessuale, però, non darà buoni risultati, perché ne nascerà un figlio deforme, che subito dopo depositeranno in una barchetta di canne e getteranno via, affidandolo alle correnti marine. Genereranno subito dopo anche l’isola di Awaji, che sarebbe la placenta del primo parto, ma neppure questa sarà contata tra i loro figli ufficiali.

Dopo questo primo tentativo fallimentare, i due demiurghi saliranno di nuovo in cielo a interrogare gli dèi celesti, che ricorreranno a una forma di divinazione6 e spiegheranno loro il problema: nel rito matrimoniale la donna ha parlato per prima, mentre era l’uomo che doveva farlo. Siccome il rito non si è svolto correttamente, i loro figli sono nati male. Dovranno ripetere tutto nel modo corretto. Izanami e Izanagi tornano dunque sull’isola di Onogoro e ripetono il matrimonio, con la differenza che stavolta è Izanagi a parlare per primo. Il risultato sarà un figlio normale, perché la regola divina è stata rispettata.

Una volta celebrato con successo il matrimonio, i due demiurghi genereranno una dopo l’altra tutte le isole che formano l’arcipelago giapponese, o almeno tutte le isole note all’epoca in cui sono stati redatti i testi che contengono il mito cosmogonico. Dopo aver finito con le isole, cominceranno a generare tutto il resto: mare, fiumi, vento, piante, monti, pianure e insomma tutto quello che serve a comporre un paese. Giunti a questo punto, le fonti del mito si differenziano.

Il Nihonshoki ci presenta subito la creazione delle divinità maggiori, che dovranno governare il Giappone appena completato. Il Kojiki, invece, ci racconta la morte di Izanami, uccisa partorendo il dio del fuoco. Questi elementi compaiono in entrambi i testi, sia chiaro: la differenza è solo nella posizione. Siccome il Nihonshoki conserva anche versioni alternative, più vicine al Kojiki, in questa sede seguiremo l’ordine proposto dal Kojiki stesso. A titolo informativo, possiamo aggiungere che il Kogo Shūi segue una versione ancora diversa, saltando completamente la fase della creazione del paese: dagli dei celesti si passa direttamente alla contesa tra Amaterasu e Susanoo, senza accenni alle opere di Izanami e Izanagi. Possiamo dunque tralasciare quel testo e seguire per il momento la versione del Kojiki, che è diventata la più famosa nell’immaginario comune.

Dopo aver generato il grosso del territorio giapponese conosciuto all’epoca e averlo riempito di laghi, fiumi, monti, pianure, alberi e venti, tutti prodotti da loro come altrettante divinità, i due demiurghi si sentono affamati e creano anche la dea del cibo: il Kojiki ce la presenta come Ōgetsuhime, mentre il Nihonshoki la chiama Uka no Mitama. Vale la pena di citarla qui, a differenza di tutte le altre creazioni di Izanagi e Izanami, perché la dea del cibo sarà poi la protagonista di un mitologema particolare, che coinvolgerà gli dèi della generazione successiva, quelli che alla scomparsa dei due demiurghi erediteranno il mondo e lo dovranno governare. È anche una delle poche divinità presenti nella cosmogonia a ricevere poi un culto vero e proprio in tempi storici anche nella città di Ise, forse la città più importante nello Shintō7.

Izanami partorisce infine il dio dei fuoco ed è mortalmente ferita da questo evento. È il culmine dell’attività dei due demiurghi, nonché il momento in cui la morte entra nel mondo appena creato. Lo fa in grande stile, con Izanami che, oltre a essere la prima persona ad abitare il Giappone, assieme al marito e fratello Izanagi, è anche la prima a morire e a dover scendere nel regno dei morti. Comincia così l’ultimo atto della creazione, con la separazione tra il luogo riservato ai vivi e quello riservato ai defunti: stabilito questo confine, possiamo dire che la cosmogonia è davvero terminata. Abbiamo anche una delle scene più famose della mitologia giapponese.

Partorendo il dio del fuoco, Izanami è gravemente ferita e muore, ma non prima di aver generato ulteriori divinità dalle sue ferite e da varie secrezioni del suo corpo. Izanagi, rimasto solo, piange la morte della compagna e sorella e la seppellisce sul monte Hiba, sul confine della regione di Izumo8 (oggi nella prefettura di Shimane). Nel Nihonshoki troviamo indicato anche un luogo di sepoltura alternativo, nella regione di Kii, un territorio che era apparentemente legato al territorio di Izumo, forse un alleato o un vassallo: è dunque possibile che almeno una parte del mitologema provenga in origine da questo popolo, che fu anche il principale ostacolo alla unificazione del Giappone da parte della regione di Yamato.

Dopo avere ucciso e fatto a pezzi con la sua spada il dio del fuoco, generando così una serie di altre divinità, il Kojiki ci racconta che Izanagi decide di rivedere Izanami e la va a cercare nel paese di Yomi, noto anche come Ne no Kuni9: il regno dei morti, in altri termini. Comincia così la sua katabasis10, un mito comune a svariate altre culture in tutto il mondo: come spesso accade in questi casi, anche per Izanagi il viaggio nel regno dei morti si concluderà con un fallimento.

Secondo la narrazione del Kojiki, Izanagi si reca all’ingresso del regno dei morti, che si trova nel paese di Izumo, e scende nel mondo sotterraneo per inseguire Izanami. Quando la trova, immersa nel buio, Izanami gli dice che non può più tornare con lui nel paese che stavano creando assieme, perché è arrivato troppo tardi e lei ha già mangiato alla mensa dei morti. Lo invita comunque ad attendere un poco, mentre lei ne parla col dio dei morti11: mi raccomando, tu non guardare.

Ovviamente accade quello che accade sempre nelle storie di questo tipo: Izanagi non resiste e guarda, anche perché Izanami ci stava mettendo troppo tempo. Preso il pettine di bambù che aveva tra i capelli, Izanagi ne spezza un dente e lo accende per illuminare il cammino. Alla luce del fuoco, vede finalmente Izanami e non è lo spettacolo che avrebbe desiderato lui: il corpo della moglie è in decomposizione ed è diventato un cumulo di vermi. Orripilato dalla scena, Izanagi fugge, mentre Izanami si arrabbia e lo fa inseguire da creature demoniache non ben precisate e indicate solo come otto12 divinità del tuono. Comincia così la lotta di Izanagi per tornare nel regno dei vivi.

Durante la sua fuga, getta dietro di sé diversi oggetti per rallentare gli inseguitori, seguendo così uno schema che ritroviamo nelle storie di numerose altre culture, quando si tratta di inseguimenti: il fuggitivo butta via oggetti per distrarre gli inseguitori e in parte ci riesce. In questo caso, ad esempio, la fascia che tratteneva i capelli di Izanagi si trasforma in frutta, il pettine in germogli di bambù e i demoni si fermano per un poco a mangiarli, concedendo così un minimo vantaggio al fuggiasco.

Izanami però non gli concede tregua e lo incalza inviando rinforzi. Arrivato alla salita finale (Yomi no Saka), che lo avrebbe ricondotto al mondo di superficie, Izanagi raccoglie tre pesche da un albero lì vicino e le scaglia contro gli inseguitori. La sua nuova arma ha successo: i demoni che lo inseguivano non solo rallentano, ma fuggono proprio. Grato dell’aiuto, seppure involontario, Izanagi benedice il pesco e i suoi frutti, ed è per questo che da allora il pesco e le pesche sono considerati una protezione contro il male. O così ci racconta il Kojiki13.

Il confronto finale tra Izanagi e Izanami avviene quando Izanagi è appena riemerso alla luce e ha trascinato un enorme masso davanti all’ingresso al regno dei morti, per bloccare il passaggio. Con la pietra a separarli definitivamente, Izanagi pronuncia quella che poi diventerà la formula ufficiale per ripudiare una moglie e tronca così il loro matrimonio. Izanami non la prende bene e promette all’ormai ex marito che, per punirlo, ogni giorno lei ucciderà mille persone nel suo paese, ossia il Giappone. Izanagi risponde che lui allora ne farà nascere ogni giorno altre millecinquecento, così i vivi saranno sempre più dei morti.

Con questo ultimo atto la cosmogonia può dirsi conclusa: anche la morte è entrata a far parte del nuovo mondo e il confine tra vivi e morti è stato tracciato in modo netto e definitivo. Da una parte abbiamo Izanagi, che tornerà in cielo, si purificherà e abbandonerà la scena, lasciando che siano i suoi figli a governare il paese. Dall’altra parte abbiamo Izanami, morta e diventata una divinità ctonia e infernale, che il Kojiki proclama come “regina dei morti”: un destino che la accomuna allo Yama della mitologia indiana, che fu il primo morto e in seguito divenne il signore dei morti. Per i due demiurghi il lavoro è finito ed è finito con una separazione definitiva, come è normale in questi casi: fossero rimasti assieme, la creazione non sarebbe mai terminata, perché ogni loro rapporto espandeva il mondo. Terminata per sempre la loro relazione e con essa la creazione, adesso può cominciare la fase organizzativa, di cui si occuperanno i loro discendenti, proprio come in Grecia furono prima Crono e poi Zeus a subentrare alla coppia creatrice formata da Gea e Urano.

La narrazione del Nihonshoki si differenzia in alcune parti da quella del Kojiki. Quando i due demiurghi si incontrano nel regno dei morti, Izanami non dice di doverne discutere col dio dei morti: dice invece di avere bisogno di riposare per un poco, ma l’invito a non guardarla rimane, perché è la regola che l’eroe dovrà inevitabilmente infrangere per sancire la separazione definitiva tra i vivi e i morti. Izanagi è curioso e usa come fiammifero uno dei denti del suo pettine di bambù: vede che il corpo della moglie è una massa di vermi e decomposizione, ne resta orripilato e fugge.

In questa versione, Izanami fa inseguire il marito dalle otto donne spaventose di Yomi, ma per il resto tutto si svolge secondo lo schema già visto. Il Nihonshoki aggiunge qualche episodio extra, come Izanagi che orina contro un albero e il fiotto si trasforma in un largo fiume che ostacola i suoi avversari, mentre Izanami non invia i rinforzi ma si attiva subito in prima persona, rincorrendo il marito dopo il fallimento delle otto donne spaventose. Per il resto tutto si svolge secondo copione, fino al confronto tra i due e il ripudio formale di Izanami.

Il norito recitato nel corso dello Hishizume no matsuri, la cerimonia per la pacificazione del fuoco, ci presenta una terza versione di questa storia, che si differenza parecchio da quelle contenute nel Kojiki e nel Nihonshoki. Come era il caso per molte preghiere e formule recitate in occasione di guarigioni, esorcismi e variazioni sul tema, anche questo norito giapponese contiene una breve narrazione delle origini del suo soggetto. Trattandosi del fuoco, le sue origini coincidono appunto col parto letale di Izanami. Il norito ci racconta così che, dopo aver partorito innumerevoli isole e divinità, Izanami partorì anche il dio del fuoco, qui chiamato Homusubi no kami, una nascita che le bruciò gravemente i genitali. Izanami si nascose così dentro la roccia, dicendo al marito di non guardarla per sette giorni e sette notti. Prima dello scadere dei sette giorni, però, Izanagi la guarda, trovando strano il comportamento della moglie. Ne segue la separazione, anche se in una forma meno violenta rispetto a quella descritta nei testi storico-mitologici.

Izanami, infatti, dichiara che da quel momento in poi il marito governerà il mondo superiore, mentre lei governerà il mondo inferiore: questo perché Izanagi non ha rispettato la sua richiesta di non guardarla per sette giorni (e sette notti). Mentre se ne va, giunta ormai al passo di Yomotsu Hira Saka (presumibilmente un altro nome di Yomi no Saka, il pendio che conduce nel regno dei morti), Izanami pensa che il dio del fuoco da lei partorito potrebbe costituire un pericolo per il mondo di superficie governato dal marito, a causa del suo carattere difficile. Torna quindi indietro e partorisce altre quattro divinità, a cui assegnerà il compito di sottomettere il dio del fuoco in caso di problemi: queste divinità sono la dea dell’acqua (Mizuhanome), la dea della terra (Haniyamahime), la vegetazione dei fiumi e una zucca vuota. In caso di problemi col dio del fuoco, Haniyamahime avrebbe preso la vegetazione, Mizuhanome la zucca vuota e assieme avrebbero sottomesso il fuoco. Ma questo è un altro discorso.

L’episodio della discesa nel regno dei morti di Izanagi, contenuto nel Kojiki e nel Nihonshoki, è infarcito di particolari che diventeranno di grande importanza nel folklore giapponese, anche solo a livello di superstizione. Altri elementi sono invece comuni ai miti di culture molto diverse tra loro e varrà quindi la pena di spendere un poco di tempo per esaminarlo più in dettaglio.

La discesa agli inferi, in generale, è un mitologema che troviamo un po’ dappertutto. A volte è un dio a compierla, a volte un eroe, ma gli obiettivi di questa impresa sono sempre gli stessi: recuperare qualcosa che la morte ci ha portato via, oppure interrogare lo spirito di un morto per ricevere informazioni necessarie. Nel caso di Izanagi, ovviamente si tratta del primo tipo e ha innumerevoli precedenti nelle mitologie di tutto il mondo: Hermes che entra nell’Ade per recuperare Persefone, Orfeo che va in cerca di Euridice, Indra che scende nel regno dei morti per liberare Ushas, Enkidu che scende nel regno dei morti per recuperare il tamburo perduto da Gilgamesh e così via, un elenco completo richiederebbe troppo tempo e difficilmente sarebbe davvero completo, vista la pletora di esempi, tutti diversi nella forma ma identici nella sostanza.

Sfidare le divinità infere per riportare indietro una persona morta è probabilmente uno dei mitologemi più ricorrenti per l’umanità, anche perché rappresenta uno dei suoi più grandi desideri: chi non ha mai sognato di poter riavere indietro una persona cara, morta all’improvviso? Finché ci saranno storie, ci saranno anche eroi che tenteranno l’impossibile e si avventureranno nel regno dei morti per recuperare una qualche persona. Gli dèi a volte ci riescono; i mortali mai, perché il mito deve insegnarci che il morto è morto e non potrà mai esserci ritorno. Così gli eroi umani scendono nell’aldilà, trovano ciò che stavano cercando, ma non riescono mai a rispettare le condizioni ricevute per poterlo riportare indietro. Il fallimento è inevitabile ed è parte della struttura stessa del mitologema. Bisogna fallire perché la vita funziona così, anche nei miti. Eppure si tenta lo stesso.

Eccezione a questa regola mitica sono le discese agli inferi di tipo sciamanico, il cui scopo è generalmente (ma non sempre) curativo. Siccome presso alcune culture le malattie sono causate dalla perdita dell’anima, o almeno di una delle anime di cui è fornita ogni persona, lo sciamano deve spesso ricorrere a una discesa estatica nell’aldilà per recuperare l’anima del malato, di solito contrattando con le divinità infere per ottenere la liberazione. In questi casi e nelle storie derivate da questo modello, il viaggio agli inferi ha spesso risultato positivo, ma è un contesto molto differente da quello della mitologia a cui ci riferiamo qui: lo menziono giusto per completezza, anche perché spesso ha influenzato ed è stato influenzato dalla mitologia della cultura di appartenenza, specialmente per le immagini utilizzate.

Un altro elemento comune a svariate culture è l’impossibilità di abbandonare il regno dei morti, dopo aver consumato un qualche tipo di cibo che abbiamo ricevuto in quel luogo. Lo troviamo nel mitologema del ratto di Persefone: quando Hermes scende nell’Ade su ordine di Zeus per recuperare la Kore rapita, scopre di non poterlo fare perché lei ha mangiato il seme di melograno offerto (apposta) da Ade stesso. In quel caso, alla fine si raggiunge una soluzione di compromesso, visto che erano in ballo divinità di alto rango: Persefone potrà trascorrere parte dell’anno in superficie, assieme alla madre, ma alla fine dovrà sempre tornare nel regno dei morti, dal suo nuovo marito.

Allo stesso modo, nella Kaṭha-upaniṣad troviamo la discesa agli inferi di Naciketas, in preparazione alla quale il padre gli raccomanda di non mangiare durante i tre giorni che dovrà trascorrere nella casa di Yama, il dio dei morti: in quella occasione, poi, l’astenersi dal cibo ha anche il valore extra di prova di iniziazione, per dimostrare di essere forte a sufficienza da meritare un premio da Yama. In una parte successiva del Kojiki è esplicitamente detto che mangiare nel paese dei morti significa non poter tornare mai più sulla terra, avvertimento che ritorna anche nellla quinta storia del secondo libro del Nihon ryōiki, opera del IX secolo, dove al protagonista è intimato di non mmangiare alcun cibo di Yomi no Kuni. Il divieto di mangiare mentre ci si trova nell’aldilà lo incontriamo anche in miti finnici, malesi, ainu e così via: non è il caso di elencarli tutti, perché è un motivo così comune da essere ormai accettato nelle storie di quasi tutto il mondo, senza problemi. Ma a cosa è dovuto?

Sono possibili più interpretazioni, sia specifiche per una determinata cultura14, sia generali per tutti i miti del viaggio nell’aldilà, ma è probabile che si tratti di un’applicazione particolare di una regola di ospitalità che compare in svariate società. Chi accetta cibo dal padrone di casa ne accetta anche l’ospitalità ed è tenuto a ricambiare rispettando e onorando le regole di quella casa. Mancare di rispetto a chi ti concede ospitalità è un insulto che può costare molto caro presso diversi popoli. Inoltre, condividere il cibo con qualcuno significa anche condividerne il destino, legarsi a quella persona: il compagno è appunto una persona con cui dividi il tuo pane, come ci mostra l’etimologia della parola, e la commensalità era uno degli aspetti fondamentali che contraddistingueva gli appartenenti di un particolare clan. Se accetti di condividere il cibo coi morti, diventi un loro compagno, entri nel clan dei morti, e il risultato può essere uno solo, non molto piacevole per chi invece vorrebbe tornare al mondo dei vivi.

Ancora, un motivo che appare in diverse mitologie è il divieto di guardare in faccia i morti, siano essi singoli defunti, siano invece le divinità dell’oltretomba. Nell’iconografia greca Ade era raffigurato tipicamente col capo girato all’indietro, intento a guardarsi alle spalle, oppure ha la testa coperta: non possiamo vedere il suo volto, e anche gli eroi che scendono nel suo regno non lo guardano in faccia mentre gli parlano, neppure quando lo stanno sfidando. Orfeo non poteva girarsi a guardare Euridice, mentre la stava accompagnando via dall’Ade. Coprire il volto dei morti è una usanza che troviamo in culture di ogni tipo, inclusa la nostra. Nel caso di Izanami, il divieto era di guardarla in generale: il luogo in cui si trovavano era buio, dopotutto, e non sarebbe stato comunque necessario specificare su quale parte del corpo non dovesse posarsi lo sguardo. Possiamo pure considerarlo come un divieto di guardare il suo “vero volto”, ossia la natura che Izanami aveva nel regno dei morti. Divieto che Izanagi infrangerà, come è inevitabile, portando la luce in un mondo fatto di tenebra.

Passando a elementi connessi più specificamente al folklore giapponese e alle sue superstizioni, in questo episodio troviamo l’origine di una superstizione dei giapponesi del tempo, almeno secondo il Nihonshoki: accendere soltanto una luce porta male. Izanagi, infatti, aveva acceso solo un dente del pettine di bambù e questo gesto gli aveva senza dubbio portato sfortuna, mostrandogli le condizioni disastrose del corpo della moglie: se poi prendiamo per vera l’affermazione dei compilatori del Nihonshoki, i giapponesi avrebbero in seguito evitato di accendere una sola luce proprio per non attirare la sfortuna, preferendo invece avere due luci accese contemporaneamente. Superstizione non molto più assurda di quella legata al divieto di accendere tre sigarette con lo stesso fiammifero, tutto considerato.

Altra superstizione presentata nella stessa scena è legata al pettine, in particolare al gesto compiuto da Izanagi, che getta il pettine dietro di sé. Gettare via un pettine era un gesto usato anticamente dai giapponesi per indicare una separazione e il Rekisei josōkō ci informa che esiste (o esisteva a quei tempi) un proverbio secondo cui raccogliere un pettine gettato significava tagliare il rapporto tra padre e figli15. Lo Azuma kagami racconta poi che raccogliendo un pettine gettato via di notte si correrebbe il rischio di trasformarsi in un’altra persona. Tutto questo ci conferma che il pettine aveva un valore simbolico piuttosto forte nella cultura giapponese dell’epoca, e non certo positivo. Ma come si collega all’episodio di Izanagi?

Non è ben chiaro, ma subito dopo averci raccontato di Izanagi che usa il dente del suo pettine per farne un fiammifero, il Nihonshoki dichiara che è per questo che i giapponesi del suo tempo non raccolgono pettini trovati per terra: un collegamento dovrebbe dunque esserci, almeno nella mente del compilatore di quell’antologia. Tutto potrebbe anche essere legato alla parola giapponese kushi, che significa “pettine” ed è composta da due sillabe che, prese singolarmente, possono significare dolore (ku) e morte (shi). Dolore e morte di sicuro non mancano nella visione del corpo putrefatto di Izanami, che sconvolge Izanagi al punto da farlo fuggire. Ricordiamo poi che il pettine fu gettato da Izanagi per rallentare i suoi inseguitori: trovare un pettine per terra, al buio, potrebbe essere stato considerato un segno di sventura anche perché ricordava questa scena particolare, anche se gettare un pettine dietro di sé per frenare gli inseguitori è un motivo che compare nelle fiabe di mezzo mondo.

Abbiamo già parlato del pesco, che in una storia cinese incarnava l’albero della vita, e le pesche che nel folklore giapponese saranno poi associate alla lotta contro i demoni e le forze del male in genere: la storia di Momotarō, l’eroe nato da una pesca, rende esplicita questa connessione oltre ogni possibile dubbio. Il mito della discesa agli inferi di Izanagi ci racconta che l’albero e i suoi frutti hanno ricevuto il potere di opporsi al male grazie alla benedizione dello stesso Izanagi, che era riuscito a utilizzarli per scacciare i demoni inviati da Izanami a inseguirlo e catturarlo, fornendoci così la spiegazione (mitica) di come sia nato questo potere. Una possibile spiegazione non mitica è che sia stato importato dalla Cina, dove il pesco aveva appunto un grande valore e i suoi frutti potevano conferire l’immortalità.

Chiusa la parentesi dell’oltretomba, si chiuderà anche la carriera di Izanagi: le sue abluzioni purificatrici genereranno le tre divinità che subentreranno a governare il paese e il nostro eroe si potrà ritirare dalla scena, diventando un nuovo deus otiosus nel cielo16. La cosmogonia è conclusa e a governare il neonato Giappone provvederanno altre divinità.

Prima di chiudere, vale la pena di raccontare in breve una variante presentata dal Nihonshoki, perché ha ancora una sua rilevanza cosmogonica. Come accennato in precedenza, secondo almeno una versione della storia, dopo avere generato le otto isole principali dell’arcipelago giapponese, Izanami e Izanagi decisero di produrre anche qualcuno che sarebbe stato il signore di tutto il mondo: nacque così una figlia che splendeva di luce intensa, Amaterasu, la dea del sole, la cui grandezza era superiore a quella di tutti gli altri loro figli. Visto quanto era splendida, i genitori decisero di mandarla subito in cielo, che a quel punto era ancora molto vicino alla terra e si poteva raggiungere con una scala17.

Subito dopo Amaterasu, generarono Tsukiyomi (oppure Tsukiyumi, o anche Tsukuyomi), il dio della luna. Visto che anche lui era luminoso, sebbene non tanto quanto la sorella maggiore, Izanami e Izanagi decisero di spedirlo in cielo, dove avrebbe governato assieme ad Amaterasu e sarebbe diventato il suo consorte. Nacque poi un figlio difettoso, simile a una sanguisuga18, e lo abbandonarono in una barca, perché non riusciva neppure a stare in piedi da solo. Il terzo figlio ufficiale fu Susanoo.

Susanoo ci è presentato subito come una divinità dal pessimo carattere, che spesso si comporta male, è crudele, piange e si lamenta in continuazione, causando alluvioni e così via. Nulla di strano, per un personaggio che sarà (anche) un dio delle tempeste. I suoi genitori, però, non approvano il suo comportamento e decidono così di cacciarlo, destinandolo a Ne no Kuni, quel regno dei morti di cui si è già parlato a sufficienza. Susanoo diventerà dunque (anche) un dio dei morti.

Queste tre divinità, però, appartengono a un altro ciclo mitico, successivo alla cosmogonia, e non le tratterò in questa sede. Le ho citate solo per segnalare come una delle versioni usate dal Nihonshoki ne abbia anticipato nascita, attribuendola inoltre a entrambi i demiurghi, mentre il Kojiki li fa nascere solo dopo il ritorno di Izanagi dal regno dei morti. La versione del mito presentata nel Kojiki è quella che sarà poi adottata anche dal Nihonshoki, per cui la possiamo considerare la versione ufficiale, o almeno la più famosa: le tre nuove divinità nascono dopo il viaggio nell’aldilà di Izanagi e sono generate da lui solo, nel corso delle sue abluzioni purificatrici. Che esistano anche varianti in cui la loro nascita è anticipata e inserita nella cosmogonia, però, è un fatto curioso e merita di essere segnalato in questa sede, almeno a mio parere.

La storia della creazione del mondo, circoscritto qui al Giappone, si conclude così, almeno nella sua versione raccontata dai testi più antichi in nostro possesso. Tre divinità celesti sono apparse da sole all’inizio del tempo; Izanami e Izanagi sono arrivati in seguito come coppia di demiurghi e hanno ricevuto dalle divinità celesti l’incarico di generare il paese; la loro opera di creazione si è conclusa con la morte di Izanami, che segna l’arrivo della morte nel nuovo mondo e la separazione definitiva tra vivi e morti; i due demiurghi terminano la propria attività separati: Izanami negli abissi della terra, Izanagi in cielo. Adesso si tratterà di governare il nuovo paese e di questo si occuperà la nuova generazione di dei. La creazione è finita: comincia la fase di conservazione.

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NOTE

1 - In origine il Nihonshoki era chiamato Nihongi, ma in seguito è stato aggiunto un kanji extra al suo titolo ed è diventato Nihonshoki, nome con cui oggi è indicato più spesso in contesti formali. Lo potete trovare sotto entrambi i titoli, a seconda delle preferenze di chi lo cita, per cui è bene ricordare che è sempre lo stesso libro. A differenza del Kojiki, questa opera è scritta in cinese e cerca di fornire una cronologia rigorosa degli eventi, almeno di quelli successivi alla creazione del mondo, ma ovviamente sul piano storico ha la stessa affidabilità della Bibbia e di altri testi simili.
2 - Scritto anche come Takamanohara, è l’“alta piana del cielo”, uno dei tre regni che formano il mondo. Gli altri due sono Ashihara no Takatsukuni, cioè il paese degli umani (il Giappone, insomma), e Ne no Kuni, cioè l’oltretomba.
3 - Hirata Atsutane e alcuni discepoli nel suo gruppo suggerivano che questa figura fosse un riferimento alla stella polare, in particolare Ame no Minakanushi, il cui nome può essere tradotto come “signore al centro del cielo”, ma i pareri a riguardo sono tutt’altro che concordi. A Kunitokotachi sarà dedicato un culto alquanto artificiale in epoche successive, ma non riscuoterà mai grande partecipazione emotiva tra la gente comune.
4 - Alcune di queste divinità compariranno di tanto in tanto in episodi successivi, come ad esempio Kami Musubi, che sembra collegato al territorio di Izumo e ai suoi personaggi divini, e Takami Musubi che a volte pare sostituire la dea del sole Amaterasu come capo politico, ma nel mito cosmogonico non hanno alcuna rilevanza: tutto ciò che fanno è ordinare ai due demiurghi di pensarci loro. È giusto menzionare che esistono, ma per il resto li possiamo ignorare senza alcun problema, almeno in questa sede.
5 - Alcuni studiosi lo collegano invece alla Via Lattea, altra immagine che nella mitologia di molte culture compare come strada celeste riservata alle divinità, mentre una scuola di pensiero più concreta tende invece a vedere questo ponte fluttuante come una barca o una catena di barche, sostenendo che i primi veri ponti siano stati costruiti in Giappone soltanto in epoca storica, cioè molto dopo la nascita di questi miti. Sia come sia, il punto è che questo ponte celeste ci mostra che anche per i giapponesi, come per molti altri popoli, in epoca mitica il cielo e la terra erano ancora in contatto e ci si poteva spostare tra i due piani ricorrendo a mezzi sufficientemente normali.
6 - La tipica forma di divinazione usata in Giappone in epoca arcaica consisteva nel bruciare sul fuoco una scapola di cervo e studiare l’aspetto delle screpolature prodotte dal calore sulla superficie dell’osso. Possiamo ipotizzare che sia stata impiegata anche in questo caso. Curiosamente, anche nel Popol-Vuh dei Quiché/Maya le divinità ricorrono alla divinazione per spiegarsi un fallimento commesso durante la loro opera di creazione: nel loro caso, però, non avviene durante la creazione del paese, ma durante quella degli esseri umani. Che le divinità ricorrano alla divinazione, invece, lo possiamo considerare una licenza poetica e comunque è meglio non pensarci troppo.
7 - Esistono in realtà almeno tre figure diverse accreditate come divinità del cibo, quattro se vogliamo contare anche Inari, ma tutte incarnano in linea di massima lo stesso archetipo: la madre dei cinque cereali, che dona a tutti il materiale prodotto da lei. È anche protagonista di un mitologema piuttosto interessante, come accennavo, in cui la dea del cibo è uccisa e il suo corpo genera i cinque cereali e altri prodotti della terra, invece di decomporsi come un cadavere normale. Ne parleremo in un’altra occasione.
8 - In epoca antica il Giappone era diviso in svariate regioni indipendenti, ognuna delle quali costituiva uno stato autonomo, con cultura non necessariamente identica ai vicini. Nel corso del primo millennio furono unificate da Yamato, la regione che si dimostrò più forte e avanzata, ma il conflitto con la regione rivale di Izumo sembra essere stato lungo e si riflette spesso nella mitologia. Divinità di Yamato e divinità di Izumo raramente vanno d’accordo, ma le due regioni ci hanno fornito assieme la maggior parte del materiale mitico a nostra disposizione. Fondere il tutto per ricavarne una storia unitaria, come ha cercato di fare il Kojiki, non è sempre un processo indolore e privo di cicatrici, specie se il tuo primo obiettivo è quello di giustificare la supremazia della regione vincitrice, come accade nei due testi a nostra disposizione.
9 - Yomi no Kuni e Ne no Kuni sono due dei nomi con cui è comunemente indicato l’aldilà: il primo sembra di origine o almeno di ispirazione cinese, perché i caratteri con cui è scritto Yomi significano “sorgente gialla”, immagine dell’oltretomba che troviamo in Cina. La parola yomi, di contro, è spesso associata a yo e yoru, che significano “notte”. Ne no Kuni significa invece “paese delle radici” ed è chiaramente un nome appropriato per descrivere un mondo sotterraneo, come era l’aldilà immaginato nella mitologia giapponese (e non solo in quella). Il suo accesso si trova tradizionalmente nella regione di Izumo. Considerato che in Giappone sembra esistere anche una divisione orizzontale (paese dei vivi/paese dei morti) accanto a quella verticale già vista (cielo/terra/inferi), il regno dei morti potrebbe non essere un posto così sotterraneo. Non del tutto, almeno, e non sempre. A volte è sottoterra, a volte è un poco più in là. Dipende dalla storia.
10 - Katabasis e nekyia sono due termini greci con cui si descrivevano due tipi di storie che comportavano un contatto col regno dei morti. Nella katabasis l’eroe scendeva fisicamente nel regno dei morti, di solito per recuperare qualcosa, e il suo viaggio comportava spesso un qualche tipo di confronto con le divinità dell’oltretomba: esempio classico è il mito di Orfeo ed Euridice. Nella nekyia, invece, l’eroe evocava i morti per interrogarli e ricevere di solito una profezia: esempio classico è il canto undicesimo dell’Odissea, dove Odisseo raggiunge l’ingresso dell’Ade e offre un sacrificio per attirare le ombre dei morti e interrogare Tiresia, invece di entrare lui stesso nell’aldilà. Col tempo si è affermato sempre più l’uso di nekyia per indicare qualunque storia che coinvolga l’aldilà, non solo i casi di necromanzia, ma questo è un altro discorso: nekyia e katabasis nascono come due cose diverse.
11 - Non abbiamo idea di chi potrebbe essere questo dio dei morti, mai citato prima e mai citato in seguito. Più avanti saranno Izanami e quindi Susanoo a ricoprire questo ruolo, ma in questo momento della storia non dovrebbe ancora essercene uno. Non può essere neppure Enma, che pure diventerà la più famosa figura di re dei morti in Giappone: Enma è infatti una divinità buddhista e i giapponesi dell’epoca arcaica ancora non lo potevano conoscere, anche se poteva essere stato già noto quando il Kojiki fu redatto, in effetti.
12 - Oltre a essere un numero sacro per le divinità giapponesi, il numero otto può anche essere usato per indicare semplicemente “tanti”: non possiamo dunque essere certi di quanti siano i demoni che inseguono Izanagi. Erano comunque tanti, almeno dalla prospettiva di chi stava cercando di fuggire.
13 - È soprattutto nella tradizione cinese che il pesco era un albero di grande importanza e carico di valore mistico, almeno in origine: in Cina era infatti considerato sacro e incarnava l’albero della vita, i cui frutti rendono immortali, oltre ad avere il potere di scacciare certi demoni. È almeno possibile che in origine comparisse un albero diverso in questo racconto e che a sostituirlo col pesco sia stato un compilatore del testo. Sia come sia, il pesco si è saputo conquistare un ruolo di primissimo piano anche nel folklore giapponese come albero che scaccia i demoni, per cui oggi appare del tutto naturale che Izanagi abbia usato proprio i suoi frutti per difendersi.
14 - Tsugita Uruu, per esempio, afferma che mangiare cibo cotto col fuoco del regno dei morti costituiva una delle più terribili forme di impurità, così grave da impedire per sempre il ritorno al mondo dei viventi. Izanami afferma proprio di aver mangiato cibo cotto sulla fornace del luogo: il suo gesto sarebbe dunque così impuro da separarla per sempre dai vivi, secondo questa teoria. D’altro canto, la dicotomia puro/impuro ha un peso enorme nella visione del mondo shintoista, per cui è normale che sia sottolineata l’impurità del regno dei morti e del suo cibo, più ancora che altre possibili cause.
15 - Sempre Tsugita Uruu racconta che, al momento della sua ascesa al trono, l’imperatore era tenuto a inviare a Ise una delle sue figlie non sposate, che avrebbe lavorato come sacerdotessa nel grande santuario di Amaterasu. Nel corso della cerimonia di addio, la figlia avrebbe anche ricevuto un pettine, il cui significato era “non tornare mai più nella capitale”.
16 - Oppure no. Il Nihonshoki ci propone due varianti su questo tema: in una versione, Izanagi si costruisce una casa sull’isola di Awaji, dove vivrà nascosto per sempre; nella seconda versione, Izanagi ascende in cielo e si ritira a vivere nel piccolo palazzo del sole, una specie di versione divina della sorte che toccava agli imperatori quando abdicavano per cedere il trono al proprio erede.
17 - E il ponte? Non lo sappiamo: qui si parla solo di una scala. Forse coincide col ponte e forse no.
18 - In giapponese è chiamato Hiruko, un sostantivo che si può tradurre come “figlio sanguisuga”, in quanto composto da hiru, che significa “sanguisuga”, e ko, che significa “figlio, bambino”, ma è stata proposta anche una interpretazione alternativa, dove hiru andrebbe inteso come “giorno, sole”. In questo secondo caso, il figlio deforme sarebbe un bambino-sole nato debole e smorto, seguendo il modello del sostantivo hirume, “donna-sole”, altro appellativo usato per indicare la dea del sole meglio nota come Amaterasu. L’immagine del sole che viaggia in barca, poi, è nota a sufficienza da non avere bisogno di altre spiegazioni, suppongo.