Morte e riti funebri ainu
Con il termine uwepeker, scritto anche uepeker (la “w” è puramente eufonica: la si può inserire o escludere senza alterare il significato del vocabolo), si indica una particolare categoria dei racconti orali appartenenti alla tradizione ainu dell’isola di Hokkaidō; tra gli ainu che vivevano a Sachalin, lo stesso tipo di storie era invece indicato col termine tuita, almeno in base a quanto ci riferisce il polacco Bronisłav Piłsudski, che si dedicò alle ricerche etnologiche per far passare il tempo durante i suoi anni di esilio a Sachalin. Uwepeker o altro, questi racconti ainu erano in prosa, a differenza degli yukar, i canti epici, e il loro contenuto era più vicino alla quotidianità, anche se mai troppo realistico. Corrispondono più o meno alle nostre fiabe, dove i protagonisti sono normali esseri umani, le cui imprese si intrecciano spesso col soprannaturale o il fantastico per poter arrivare al lieto fine di prammatica.
Nel particolare uwepeker che ho tradotto qui, la componente soprannaturale è ridotta al minimo e si trova nella prima parte della storia: è l’innesco, che mette in moto gli eventi. Per quanto ridotta, ha però un suo interesse, perché ci permette di osservare da vicino il modo in cui gli ainu concepivano la morte e i riti necessari per un buon passaggio da questo all’altro mondo, ovunque esso sia. Come già il titolo della storia ci dice, a scatenare gli eventi è proprio il tentativo di profanare una sepoltura ainu, commesso da un ragazzo povero nel vano tentativo di arricchirsi. Impresa disperata già in partenza, perché gli ainu non erano soliti seppellire tesori coi loro morti, eppure è proprio ciò che accade in questa storia: assieme al cadavere della moglie del capo villaggio, è stato sepolto anche il suo scrigno di tesori da donna.
Il tesoro seppellito assieme al morto è solo una delle anomalie che troviamo in questa storia, rispetto a quanto ci è raccontato sulle usanze funebri degli ainu. Dobbiamo considerarla solo come una licenza poetica? Oppure è il ricordo di usanze più antiche di quelle note a noi? Dopotutto, le prime descrizioni dettagliate che abbiamo della vita tra gli ainu risalgono a un’epoca molto recente, quando ormai gli ainu stessi erano avviati alla sparizione come popolo e cultura indipendenti. Ci troviamo più o meno nella stessa situazione degli studi sulle tribù nordamericane: sono cominciate in forma seria soltanto quando le tribù erano ormai sbandate e la loro esistenza tradizionale era stata travolta e spezzata. Quei frammenti superstiti rispecchiano fedelmente come stessero le cose due o tre secoli prima? Forse, o forse erano solo un tentativo di salvare il salvabile di un mondo che ormai non poteva più esistere. Se aggiungiamo che le ricerche sugli ainu sono state condotte in luoghi diversi e tempi diversi da persone con obiettivi diversi e mentalità diverse, è inevitabile un certo grado di contraddizione e confusione. Lo vedremo strada facendo.
La storia si apre con la morte della moglie del capo villaggio di una comunità ainu. La sua sepoltura non ci è descritta, ma possiamo ipotizzare che il rituale assomigliasse a quello descritto ad esempio da John Batchelor verso la fine dell’Ottocento1. Il funerale avveniva il giorno stesso della morte, o al massimo il giorno seguente, quando la morte avveniva all’interno del villaggio. Il cadavere era vestito dei suoi abiti migliori e disteso su un tappeto alla destra del focolare, coi piedi rivolti verso la porta2, mentre il resto della casa era occupato dagli invitati alla cerimonia: parenti, amici e altra gente del villaggio. Accanto al cadavere erano posati vari oggetti che gli erano appartenuti in vita, a seconda del sesso e dell’età del morto: arco, frecce e altri strumenti da caccia per gli uomini, una pentola e piccoli gioielli personali per una donna, giocattoli per un bambino e così via. Sono presenti anche inau in abbondanza, sia accanto al cadavere che nel resto della casa, perché gli inau non mancano mai in ogni cerimonia religiosa: sarebbe come una cerimonia cattolica senza crocifissi e candele.
Batchelor aggiunge anche che, in occasione del funerale di una donna, era stato deposto accanto al cadavere un pezzo di tessuto bianco che lui stesso aveva fornito in precedenza a quella famiglia, mentre richieste di stoffa bianca gli erano arrivate pure in occasione di altri funerali. Non sapeva spiegarsi bene il perché e fornisce due ipotesi (pagg. 204-205): che il tessuto bianco sia visto come un simbolo di purezza, oppure che sia una “contaminazione” giapponese, dato che il bianco è il colore dei morti e della morte per i giapponesi. Batchelor propendeva per la prima ipotesi.
Preparato il cadavere, gli sono offerti simbolicamente cibo e un bicchiere di sake, collocati accanto a lui. Si procede con l’invocazione di Ape Kamui, la dea del fuoco, che è la grande intermediaria tra umani e mondo divino ed è dunque la prima figura a cui ogni preghiera è rivolta, perché la trasmetta al dio invocato. Le si offrono libagioni e la si prega di accompagnare il morto nell’aldilà, dove poi dovrà raccontare tutti i pregi. Ape Kamui, che viveva nel focolare al centro della casa di ogni ainu, aveva anche il ruolo di osservare tutto ciò che facevano gli abitanti della casa e riferirlo poi a chi di dovere, al momento della morte. Non è ben chiaro come si svolgesse il giudizio, almeno non nelle testimonianze che ci sono arrivate, ma la dea del fuoco aveva un ruolo chiave, forse come avvocato o forse come giudice. È possibile che neppure gli stessi ainu lo sapessero più molto bene, alla fine dell’Ottocento.
Dopo questo rito funebre, il cadavere è avvolto in un tappeto specifico per la sepoltura, chiamato toma, poi legato a un palo e trasportato fino al luogo dove sarà sepolto. Questo luogo non era fisso, perché gli ainu non avevano cimiteri di alcun tipo: i morti erano sepolti fuori dal villaggio, di solito verso la montagna, in un punto scelto dai parenti o dal capo villaggio. Batchelor riteneva che la seconda opzione fosse la più antica. Sia come sia, la fossa è scavata, foderata di tappeti e poi il morto vi è calato, ancora avvolto nel suo toma, che svolgeva la funzione di bara. Accanto al cadavere sono deposti alcuni suoi oggetti personali, probabilmente gli stessi che aveva avuto accanto già durante il rito funebre in casa: questi oggetti, però, sono rotti prima di essere messi nella fossa. Per completare la sepoltura, si copre il tutto con altri tappeti e poi con la terra, infine con uno strato di rami e altro, per tenere lontane le volpi (o almeno Batchelor racconta che gli ainu gli diedero questa spiegazione per il loro gesto).
Non ci sono lapidi vere e proprie, ma ai piedi della sepoltura è conficcato un bastone, a cui è legata la fascia simile a una bandana che la persona indossava sulla testa: nel caso degli uomini, il bastone ha la forma di un remo, anche se secondo Batchelor assomigliava molto di più a una lancia, mentre per le donne non ha una sagoma specifica, ma la sua estremità è arrotondata con cura e c’è un foro che la attraversa. Queste forme avevano un significato particolare? Un tempo sì, quasi sicuramente, ma quando Batchelor lo chiese agli ainu della sua epoca, nessuno se lo ricordava più: sostenevano che avevano sempre fatto così ed era una usanza tramandata dall’antichità, che loro continuavano a ripetere. La sola funzione pratica che avesse lo palo, almeno alla fine dell’Ottocento, era di avvisare eventuali cacciatori di passaggio che in quel luogo si trovava una tomba, per cui era meglio girare alla larga e non disturbare l’occupante.
Finita la sepoltura, si torna alla casa dei parenti del defunto, per una sorta di festa che sarebbe chiamata wen iku wen ipe, ossia “il cattivo bere e il cattivo mangiare”. In pratica, si bevevano alcolici e si mangiava in memoria del defunto, spesso ubriacandosi, ed era considerata una festa “cattiva” perché cattiva era l’occasione in cui si celebrava, non perché ci fosse qualcosa di male nel mangiare e bere dopo un funerale. Festini di questo tipo si svolgono tuttora anche in diversi paesi occidentali, dopotutto, per cui non c’è niente di strano. Dopo questa ultima cerimonia, del morto si parlerà il meno possibile, non si pronuncerà il suo nome e non ci si avvicinerà al luogo dove è stato sepolto, se appena è possibile evitarlo.
Nel racconto qui tradotto, non troviamo una descrizione del funerale della moglie del capo villaggio, perché avviene fuori scena, ma abbiamo comunque alcuni riferimenti alle pratiche funebri adottate, in particolare quando si tratta di riparare la sepoltura: per placare lo spirito della moglie, infatti, il capo villaggio organizzerà una nuova cerimonia funebre, dandoci così una possibilità di osservarne lo svolgimento, almeno a grandi linee. Alcuni aspetti corrispondono alla descrizione che Batchelor ci ha dato, ma altri sono decisamente diversi. La sepoltura, soprattutto.
Tanto per cominciare, la tomba si trova proprio al centro del villaggio. In ainu, la sua posizione è indicata come kotan noski, “in mezzo al villaggio”, mentre nella versione giapponese è 村の真ん中に, “nel pieno centro del villaggio”, giusto per sottolineare il concetto. Il che è piuttosto strano, dato che le sepolture dovrebbero essere effettuate all’esterno del villaggio, se possibile tra i boschi o in montagna. O almeno, nell’Ottocento funzionava così, stando alle testimonianze di chi ha vissuto tra gli ainu in quel periodo. Spostare la sepoltura al centro del villaggio è solo una licenza poetica, per rendere più drammatica la scena? Possiamo interpretarla così, volendo, ma non è una spiegazione molto affascinante. Forse questo uwepeker ci segnala che in comunità diverse vigevano tradizioni diverse, o almeno era possibile fare una eccezione, in casi speciali.
Per quanto sia possibile parlare di “cultura ainu”, infatti, è sempre bene ricordare che gli ainu non hanno mai avuto alcun tipo di governo centralizzato, almeno in epoca storica. Il popolo ainu non ha mai costituito uno stato, ma viveva sparpagliato in numerosi villaggi di dimensioni modeste, spesso composti da una manciata di famiglie principali, più qualche ramo collaterale. Quando un ramo collaterale diventava troppo numeroso, non aveva problemi a trasferirsi altrove e fondare un nuovo villaggio. Questo significa che, sebbene esistesse una “cultura” generale, che accomunava tutti gli ainu, i villaggi le potevano benissimo interpretare in modo diverso e darvi un colore particolare. Se queste differenze esistevano nella lingua, dove villaggi distanti una decina di chilometri potevano usare parole diverse per indicare le stesse cose3, è del tutto possibile che anche nelle tradizioni ci fossero divergenze, a seconda della zona.
Oltre alle differenze spaziali, esistono anche differenze diacroniche. I riti funebri dell’Ottocento potrebbero non essere stati identici a quelli di qualche secolo prima. Se lo uwepeker è abbastanza antico, potrebbe testimoniare le abitudini degli ainu di un’altra epoca, di cui non possediamo alcuna informazione scritta. Non sarebbe del tutto impossibile. Nel suo Tōno monogatari, per esempio, una raccolta di aneddoti e folklore in generale proveniente da Tōno, villaggio nella parte nordorientale dello Honshū, Yanagita Kunio (1875-1962) ci riferisce una storia interessante, la numero 16 di questa raccolta.
Yanagita Kunio ci racconta infatti che lo ishigami4 di Wano era una pietra piccola e simile a un palo, conficcata verticalmente in una risaia. Il proprietario di quella risaia aveva deciso un giorno di trasferire altrove quella pietra, perché intralciava il lavoro dei campi. Quando però scavò il terreno sotto la pietra, ne emerse una grande quantità di ossa umane. Il proprietario del campo interruppe subito i lavori e cambiò idea, lasciando stare la pietra.
Secondo l’etnologo locale Ino Kanori (1867–1925), ossa umane in grande quantità furono trovate anche durante gli scavi di pietre verticali nei tumuli Emishi del villaggio di Otomo nello Hokkaidō. Gli Emishi vissero anche nel nordest dello Honshū prima del V secolo. L’ipotesi è che fossero imparentati con gli ainu e quelle pietre rappresentavano luoghi di sepoltura. Due storie simili erano raccontate anche nel villaggio di Ayaori.
Questo è quanto scriveva Yanagita Kunio. Col termine emishi, gli antichi testi giapponesi più o meno storici indicavano in genere tutte le popolazioni dell’arcipelago giapponese che non si erano ancora sottomesse al regno di Yamato, quello che sarebbe poi divenuto l’impero giapponese. Era un termine generico, usato in modo simile a come gli antichi greci usavano la parola “barbari”: se per i greci i barbari erano tutti quelli che non parlavano greco, indipendentemente dal livello culturale, per gli antichi giapponesi erano emishi tutti quelli che non erano stati sottomessi e assimilati dal regno di Yamato e non riconoscevano l’autorità dell’imperatore. Erano soprattutto popolazioni dell’est e del nordest, accusate di ogni nefandezza possibile nelle cronache, perché erano i cattivi. Gli antenati degli ainu erano sicuramente etichettati come emishi, ma non tutti gli emishi erano necessariamente antenati degli ainu. Gli tsuchigumo erano un tipo di emishi, per esempio.
Furono gli antenati degli ainu a erigere quei tumuli, con una pietra conficcata alla loro sommità? Era il modo in cui seppellivano i loro morti in un’epoca distante un millennio e mezzo circa? È certo possibile immaginare che sia andata così: le pietre simile a un palo, conficcate sopra le sepolture, potrebbero ricordare i pali usati nell’Ottocento dagli ainu per marcare il luogo in cui era sepolto uno di loro. D’altro canto, però, conficcare una pietra sopra una sepoltura è una pratica che si può trovare in buona parte del mondo, in forme più o meno raffinate: anche le nostre lapidi non sono altro che pietre conficcate nel terreno per indicare una sepoltura, dopotutto. Forse in un remoto passato gli antenati degli ainu seppellivano i propri morti in tumuli collettivi, di cui le più recenti fosse individuali sono un vago ricordo, o forse no. Il punto è che le usanze funebri possono cambiare col tempo: non sapendo a quando risalga lo uwepeker, non possiamo essere certi del motivo per cui la moglie del capo villaggio è stata sepolta al centro del paese, invece che in un luogo abbandonato nei dintorni.
Un altro particolare della sepoltura è la presenza di un “tesoro” assieme al cadavere della donna. Lo scrigno di tesori da donna, di cui si parla nel racconto, corrisponde al cesto dei tesori posseduto da Ape Kamui nel secondo yukar che ho tradotto in altra sede: se lo scrigno della dea del fuoco conteneva oggetti magici, quello di una normale donna ainu conteneva soltanto oggetti che saranno stati importanti per quella persona, senza dubbio, ma è difficile dire quanto preziosi sarebbero potuti apparire agli occhi di altri. In assenza di una descrizione, possiamo ipotizzare che contenesse alcuni cimeli di famiglia, o almeno oggetti che la donna aveva ricevuto dalla propria madre e che avrebbe poi trasmesso alle proprie figlie: strumenti utili in casa, forse, ma anche qualche gioiello, o ciò che per gli ainu contava come gioiello.
Negli uwepeker compaiono spesso tesori, ma quasi mai abbiamo descrizioni anche vaghe su come siano fatti di preciso. Sono solo indicati come “tesori”, ikor, e altri personaggi possono commentare che sono tesori davvero preziosi, come accade per esempio nella storia dell’uomo che sposò la dea orso, ma noi non sapremo mai cosa fossero di preciso: erano lasciati alla fantasia degli ascoltatori, probabilmente. Se consideriamo però da cosa fossero costituiti i tipici “tesori di famiglia” custoditi nelle case ainu, nell’angolo a nordest del focolare, allora dobbiamo concludere che si trattava per lo più di paccottiglia, spesso di origine giapponese: una vecchia spada, una ciotola o una tazza laccata, oggetti luccicanti di metallo o decorati in un modo particolare, eccetera. Non proprio le famose “perline colorate” che gli europei avrebbero rifilato ai primitivi, ma siamo nelle vicinanze.
Era questo il contenuto del fatidico “scrigno di tesori da donna”? Non lo sapremo mai, ma non è poi così importante. Importante è che il marito abbia deciso di seppellirlo assieme alla moglie. Dato che il racconto sottolinea più volte l’infelicità dell’uomo per la mancanza di figli, mi pare chiaro che la decisione di seppellire il tesoro sia dovuta alla mancanza di eredi, che altrimenti lo avrebbero avuto in dote come accadeva di solito nelle famiglie ainu, almeno in epoca storica. Era un comportamento abituale, oppure il capo villaggio costituisce una eccezione? Non lo sappiamo e non ci sono testimonianze a riguardo, almeno non nei testi che sono riuscito a consultare: potrebbe essere una licenza poetica, oppure un evento raro ma plausibile. Sia come sia, il seppellimento dello scrigno è l’evento che provoca tutto il resto della storia e tanto ci può bastare, sul piano narrativo.
Una cosa che possiamo affermare, però, è che lo scrigno di tesori non avrebbe seguito la moglie nel suo viaggio verso l’aldilà. Era stato sepolto assieme a lei forse per metterlo al sicuro, forse per non doverlo avere sotto gli occhi, ma il marito non lo aveva seppellito come corredo funebre. Gli oggetti che finivano sepolti assieme al cadavere, o che comunque erano immaginati accompagnare il morto nell’aldilà, dovevano essere “uccisi” a propria volta, spezzandoli. Distruggendo il corpo degli oggetti, infatti, la loro essenza si liberava e poteva raggiungere il proprietario nell’aldilà, dove sarebbe stata di nuovo a sua disposizione. Siccome qualcuno voleva rubare lo scrigno, è inevitabile che il suo contenuto fosse ancora intero e utilizzabile, altrimenti sarebbe servito a ben poco5.
La profanazione della sepoltura causa una reazione molto sgradevole da parte del cadavere: il profanatore è trattenuto nella fossa e sarà necessario un apposito rituale per liberarlo. Non che dopo la liberazione se la passerà molto meglio, disprezzato da tutto il villaggio, ma questo è un altro paio di maniche. Ciò che ci interessa è la profanazione della tomba e la conseguente punizione.
È ovvio che questo non avveniva realmente, ma rispecchia le paure degli ainu riguardo ai morti, in base alle testimonianze che sono state raccolte. Come abbiamo già visto, gli ainu seppellivano i propri morti lontano dal villaggio, almeno secondo le testimonianze di Batchelor e di altri. Il palo infisso accanto alla fossa serviva a indicare che in quel punto era stato sepolto qualcuno ed era dunque un luogo da evitare. Possiamo prendere come esempio il capitolo XX di Ainu Life and Lore, altra opera di Batchelor, in cui il missionario anglicano ci racconta di un episodio che gli era accaduto mentre si trovava nel villaggio di Piratori assieme a Penri, locale capo villaggio nonché suo amico. La storia comincia a pagina 149 nell’edizione del 1971 di questo libro.
Penri era un ainu che ospitava spesso Batchelor, quando il missionario si trovava dalle sue parti. In una occasione, mentre stavano passeggiando assieme, Batchelor ci racconta che Penri si era mostrato parecchio contrario ad andare in una certa direzione, lontana dal sentiero che stavano percorrendo. Dopo avere insistito molto, il missionario scoprì che l’amico ainu non voleva andare da quella parte, perché una persona era stata sepolta in quella zona: secondo Penri, lo spirito del morto si trovava ancora nei pressi della sepoltura e avrebbe danneggiato chiunque avesse disturbato la sua ultima dimora. Lo spirito, in quel periodo, era infatti impegnato a liberarsi dalla materia del corpo e si sarebbe arrabbiamo molto se qualcuno avesse interferito in quel processo. A pagina 150, parlando della fossa in cui era sepolta la propria madre, Penri aggiunge che “se una persona dovesse camminare sopra a una tomba, non importa quanto vecchia sia, sarà sicuramente punita”.
Nello uwepeker seguente, abbiamo proprio una dimostrazione di questo. Non solo una persona si avvicina troppo alla sepoltura, non solo la calpesta, ma la profana direttamente, cominciando a disseppellire ciò che vi era interrato. La punizione del morto non tarda ad arrivare, proprio come la tradizione ainu prevedeva: in questo, il racconto che abbiamo preso in esame rispecchia in modo fedele ciò che troviamo testimoniato anche in testi compilati da ricercatori occidentali. Lo troviamo testimoniato anche in un altro aspetto, più avanti. A pagina 151 del libro già citato, possiamo leggere che Penri aveva chiamato a raccolta amici e parenti, quando Batchelor era andato a visitare la tomba della madre, nonostante le raccomandazioni a non farlo. Al ritorno, il missionario si dovette sottoporre a un rito di purificazione, per rimuovere ogni contaminazione che poteva avere raccolto nella sua “avventura” in terra proibita.
Nello uwepeker, il capo villaggio chiama a raccolta tutti i vicini e anche in quel caso ci sarà un rito da celebrare, ma nulla di così semplice e blando come capitò a Batchelor nella realtà. Nella storia, infatti, il curioso di turno non si accontenta di guardare la sepoltura, ma la profana: si rende dunque necessario un rituale di maggior peso per placare l’ira del morto. Il rituale eseguito nella storia è una cerimonia reale e si chiama in vari modi, a seconda della zona: può essere lo uniwente, il niwen horipi, il niwen horippa o anche semplicemente horippa, a conferma di quanto dicevamo in precedenza sull’esistenza di sfumature locali per molti aspetti della cultura ainu. È un rituale di notevole interesse, su cui vale la pena di soffermarsi.
Il nome, prima di tutto. La parola niwen significa “essere arrabbiato, feroce, selvaggio”, mentre horipi significa “danzare”: uniwente significa “arrabbiarsi assieme”, grossomodo6, mentre niwen horipi è la “danza selvaggia” o la “danza della rabbia”. Questo rituale si esegue quando qualcuno muore all’improvviso per incidente o cause non naturali7, o almeno per ciò che gli ainu concepiscono in questo modo: un omicidio lo è di sicuro, ma anche finire disperso in mare per un incidente di pesca rientra in questa categoria. Quando una persona è strappata di colpo alla vita da cause impreviste e inaspettate, è necessario placare il suo spirito ricorrendo a questo rituale. In cosa consiste di preciso? Ne abbiamo diverse descrizioni, ma in questa sede ho deciso di usare quella fatta da Kayano Shigeru, ainu lui stesso e autore di un testo autobiografico disponibile anche nella traduzione in inglese, per cui facilmente reperibile8.
Nel sesto capitolo del libro, troviamo la descrizione di un uniwente (lo chiama così) a cui suo padre aveva partecipato nel 1937, quando il marito di una sua cugina era affogato in un fiume e il suo corpo trascinato via dalla piena durante il disgelo. Chiaro caso di morte improvvisa e inaspettata, anche in assenza di cadavere. Essendo stato il fiume a causarne la morte, era anche necessario rimproverare la divinità del fiume, perché si era dimostrata negligente. La rabbia da cui lo uniwente prende nome, dunque, era in questo caso diretta anche contro il kamui del fiume. Vediamo però in dettaglio come si svolge questo rito, seguendo la descrizione data da Kayano Shigeru.
A partecipare sono sia uomini che donne, vestiti bene. Gli uomini portano una spada appesa alla spalla, mentre le donne impugnano un bastone. Tutti sono allineati, in una o più file a seconda del numero dei partecipanti. L’uomo che guida la cerimonia (e le file) sfodera la spada con la mano destra, la solleva e grida: «Wohohoho hoohoy!», mentre fa un passo avanti. Le donne rispondono gridando: «Wooy!» e facendo a propria volta un passo in avanti. Gli uomini fanno un passo avanti gridando: «Wohohoho hooy!» e le donne avanzano di un altro passo, gridando: «Wooy!» E così via, fino a che non si arriva all’altare, dove li attende la persona in lutto (cioè il parente più stretto del defunto, se possibile).
Quando sono arrivati abbastanza vicino alla persona in lutto, gli ainu si fermano e calpestano il suolo col piede destro a ogni parola del loro canto, mettendoci più forza possibile. Gli uomini compiono un gesto di affondo con la spada, impugnata sempre nella mano destra, mentre le donne protendono in avanti il pugno destro, tenendo il bastone con la sinistra, ed emettono un grido particolarmente acuto, sempre muovendosi a tempo con gli uomini. Questo grido era chiamato pewtanke ed era usato di solito come richiesta di aiuto: pare che fosse possibile sentirlo anche a quattro chilometri di distanza, se una donna si impegnava davvero, almeno secondo l’autore.
Mentre si svolgeva questa specie di danza sincronizzata, la persona che guidava il corteo recitava o declamava una preghiera improvvisata sul momento, che era anche un’orazione: descriveva in che modo si fosse verificata la morte, rimproverava le divinità che l’avevano lasciata accadere o che vi avevano contribuito e così via, a seconda dell’ispirazione. Essere bravi oratori era una dote molto importante per gli ainu, perché anche le contese e i dissidi all’interno della comunità o tra comunità limitrofe erano risolti perlopiù da sfide oratorie, quando possibile. Lo vediamo già nella lingua ainu, dove saggezza ed eloquenza coincidono e sono entrambe espresse come il possesso di pawetok, la capacità di parlar bene, formata a partire da pawe, che significa “discorso”9.
A titolo di esempio, possiamo prendere anche una descrizione dello stesso rituale fatta da Batchelor: scelgo quella contenuta nel suo vocabolario sotto la voce niwenhoribi10 (pagg. 291-292), perché è la più breve. Questa è la definizione: “La cerimonia praticata alla morte per accidente di una persona. Questa cerimonia consiste in uomini e donne che formano una singola fila e marciano il più vicino possibile al luogo dell’incidente, emettendo un particolare grugnito a ogni passo compiuto. Gli uomini marciano con spade sguainate o lunghi coltelli nella mano destra; quando il piede sinistro è posato al suolo, la spada è affondata in avanti e quando è posato il piede destro la si ritira indietro. Una perfetta sincronia è mantenuta in questo atto”. Qualche differenza, ma niente di cruciale.
Lo uwepeker tradotto più in basso ci dice che si eseguiva questa cerimonia anche per pacificare uno spirito dopo che la sua sepoltura era stata profanata. Nulla di strano. Se il niwen horipi serviva a dare pace agli spiriti dei morti che erano stati strappati improvvisamente alla vita, è ragionevole che sia usata anche per pacificarli dopo che un altro evento improvviso e imprevisto li aveva disturbati. Presso molte popolazioni troviamo l’idea che una morte improvvisa e prematura possa generare uno spirito maligno e vendicativo: i morti assassinati e i morti per incidente erano temuti proprio perché la loro vita era stata spezzata di colpo e non aveva seguito il suo normale svolgimento11. Privati dei rituali che li avrebbero aiutati ad abbandonare in tranquillità questo mondo per avviarsi verso il prossimo, il loro spirito rimaneva in una sorta di limbo, incapace di avanzare, e il loro stato non ben definito li rendeva pericolosi per la comunità. Se gli ainu avevano un rituale per questo genere di morti, è ragionevole che lo usassero anche per i defunti disturbati nel periodo successivo alla sepoltura, quando stavano attendendo la disgregazione del cadavere per poter passare oltre, come già ci aveva spiegato Penri, l’ainu amico di Batchelor.
Dopo la profanazione della sepoltura da parte del ragazzo povero cattivo, abbiamo così la danza per pacificare lo spirito della defunta12. Lo uwepeker prosegue mostrandoci anche una breve replica del rito funebre, o almeno della parte che segue la sepoltura del morto: ci si raduna nella casa della famiglia in lutto, che qui è costituita dal solo capo villaggio, e si mangia e beve tutti assieme. Molto interessante il commento attribuito al capo villaggio, secondo il quale la moglie adesso potrà raggiungere il paese dei kamui, specificato in seguito come il luogo delle divinità, degli antenati. Si pone così una nuova domanda relativa alla morte presso gli ainu: dove vanno a finire gli spiriti dei morti? Che tipo di aldilà avevano?
La risposta purtroppo è che non lo sappiamo di preciso. Le spiegazioni raccolte dai vari ricercatori non sono uniformi e opinioni diverse si possono trovare anche nelle storie ainu. Abbiamo racconti in cui il paese dei morti è descritto come un luogo raggiungibile attraverso una profonda galleria, e dunque sotterraneo, ma abbiamo anche storie in cui sembra essere da qualche parte in cielo. In altri testi, infine, sembra coincidere col paese dove vivono le divinità, i kamui; si ha anche il sospetto che, almeno in certi casi, i morti stessi non siano così diversi dai kamui. Kamui minori, ovvio, non le grandi figure del culto, come la dea del fuoco, ma pur sempre piccole divinità, che spesso sono immaginate come numi tutelari della famiglia a cui il defunto era appartenuto in vita. Forse i kamui erano esseri dalla natura incorporea in generale, nell’antichità, e da questa idea si è sviluppato il resto: i morti, non più legati al corpo, sarebbero dunque kamui proprio per la loro natura ormai incorporea. Ma è solo una idea.
Se vogliamo fare una media delle opinioni raccolte, possiamo dire che il paese dei morti, per gli ainu, si trova al di sotto della terra, in un mondo che è l’opposto rispetto a quello dei vivi. Non è proprio sotterraneo, anche se si raggiunge passando per una galleria, ma è più simile a una specie di mondo degli antipodi, costruito al di sotto del nostro mondo. Se lo ainu mosir, ossia il paese degli ainu, costituisce una facciata del foglio, il kamui mosir costituisce la facciata opposta: nello ainu mosir abitano le persone vive, mentre nel kamui mosir abitano i morti e le divinità. Questa almeno è l’impressione che se ne ricava, leggendo un numero sufficiente di storie ainu in cui si parla di viaggi nel regno dei morti.
Quando nel mondo dei vivi è giorno, nel mondo dei morti è notte, e viceversa. Quando nel mondo dei vivi è estate, nel mondo dei morti è inverno, e viceversa. I morti puzzano per i vivi, ma i vivi puzzano per i morti. I morti sono invisibili per i vivi, ma i vivi sono invisibili per i morti. Questo è il modo in cui i due mondi si contrappongono l’un l’altro, come due facce di una stessa medaglia. Ricordiamo che anche i kamui, le divinità, sono invisibili per gli esseri umani13: quando vogliono interagire con le persone, devono indossare abiti di animali, oppure devono abitare dentro un albero, nei fenomeni atmosferici e così via. I kamui del sole e della luna, per esempio, sono visibili soltanto mentre viaggiano nel cielo a bordo dei loro veicoli, ossia il sole e la luna. Anche i kamui, inoltre, sono infastiditi dall’odore degli esseri umani, come ci raccontano diverse storie.
Semplici coincidenze? Oppure sono gli ultimi residui di un periodo in cui i morti e i kamui erano la stessa cosa? Possiamo ricordare che per i giapponesi gli antenati, dopo una opportuna purificazione, avevano la possibilità di diventare kami e custodire la famiglia a cui erano appartenuti in vita14. Certi personaggi famosi, inoltre, furono divinizzati dopo la morte, come Sugawara no Michizane15, che divenne un kami che presiedeva sul sapere, sulla calligrafia ed era collegato pure ai fulmini. Che una idea simile sia presente anche tra i loro vicini ainu, o almeno che lo sia stata, non sembra affatto improbabile. Se poi consideriamo che la parola ainu per indicare gli antenati, ossia sinrit, si usa anche per indicare le radici delle piante, l’aldilà degli ainu potrebbe non essere molto lontano, almeno come concetto, dal Ne no Kuni dei giapponesi, ossia il paese (kuni) delle radici (ne), che il Kojiki presenta come il luogo che Susanoo sarebbe andato a governare al termine della sua carriera. Un luogo che, pur essendo descritto a tratti come sotterraneo e collegato al mondo normale tramite un passaggio non ben descritto, aveva anche campi coltivati e la luce del sole.
Ancora una cosa da dire sull’aldilà ainu. La discriminante per accedervi dopo la morte, per quanto possiamo vedere, non era tanto un buon comportamento in vita, ma l’essere stati sepolti nel modo corretto, con tutti i rituali richiesti. Se il tuo funerale si era svolto nel modo appropriato, allora c’era posto per te nel paese dei morti; era poi possibile che il tuo comportamento in vita ti sarebbe valso una qualche punizione, ma l’accesso si conquistava coi giusti riti funebri, non col giusto stile di vita. Questo ovviamente rendeva ancora più grave rovinare la sepoltura di una persona, perché le potevi impedire di ricongiungersi ai suoi antenati, e possiamo capire meglio la necessità sia di un rituale per placare il morto, sia di ripetere una parte del suo funerale, come avviene nello uwepeker preso in esame.
Resta poi un dettaglio menzionato da Batchelor, che però non troviamo nella storia. Secondo quanto leggiamo alle pagine 151 e 152 di Ainu Life and Lore, le donne anziane erano mandate a vivere da sole in un piccolo capanno, costruito dai familiari come luogo in cui poter morire in pace. Dopo la morte dell’occupante, il capanno era bruciato, per mandarlo nell’aldilà assieme a lei, nel caso ne avesse bisogno anche là. Questo accadde anche alla madre di Penri, il già citato amico di Batchelor nonché capo villaggio di Piratori. Qualcosa del genere accadeva anche quando moriva la moglie di qualcuno: il marito era tenuto a bruciare la casa in cui avevano vissuto, per mandarla nell’aldilà assieme alla defunta. Il marito non si sarebbe risposato, quindi non avrebbe avuto bisogno di quella casa nel mondo dei vivi, secondo gli ainu, ma gli sarebbe servita quando si fosse ricongiunto alla moglie, dopo la propria morte. Ciò si applicava solo alla moglie principale, in caso di poligamia.
Nella storia qui presa in esame, non si vede traccia di questa usanza: nonostante il capo villaggio mostri più di una volta di essere molto attaccato alla defunta moglie, la loro casa sembra essere ancora in piedi, anziché bruciata perché accompagnasse la moglie nel paese dei morti. Non era in uso nel territorio da cui proviene lo uwepeker? Oppure una parte del racconto è più recente, dato che Batchelor ci informa che l’usanza era ormai stata abbandonata ai tempi in cui era entrato in contatto con gli ainu, ossia verso la fine dell’Ottocento? È anche possibile che sia stata omessa soltanto perché non rilevante ai fini della storia, sia chiaro, ma è curioso che non se ne parli, visto che il capo villaggio sembra rimpiangere di continuo la moglie.
Sia come sia, concludiamo pure le chiacchiere e passiamo alla lettura del racconto.
Il povero che scava la fossa della moglie del capo villaggio
C’era un ragazzo povero nella parte occidentale16 del villaggio. C’era un ragazzo povero nella parte orientale del villaggio. Un giorno, quando la moglie del capo villaggio morì, il capo villaggio si disse: «Non abbiamo neppure figli e io ho uno scrigno di tesori da donna, ma a chi andrà?», e sentii dire che in seguito seppellì tutti i tesori da donna che la moglie possedeva.
Il ragazzo povero della parte orientale del villaggio venne da me e mi disse così: «Ragazzo povero della parte occidentale del nostro villaggio, poiché si dice che nel centro del villaggio sono sepolti tutti i tesori da donna della moglie del capo villaggio, se noi andiamo e li disseppelliamo, ci impadroniremo dei tesori da donna e poi in un qualche modo riusciremo a trovare una moglie. Vieni con me, dai!» Io avevo paura e la cosa non mi piaceva, ma poiché non voleva sentire ragione, il ragazzo povero della parte orientale del villaggio mi portò con sé.
Poiché ero spaventato, gli dicevo: «Cosa me ne faccio io di tesori da donna?» Lui però mi rispondeva: «Se tu te ne stai semplicemente lì accanto a me, io scaverò la sua sepoltura e prenderò i tesori da donna, poi li dividerò con te.» Benché io gli dissi: «Non li voglio proprio i tesori da donna», poiché mi continuava a tirare con sé, noi andammo fino alla sepoltura e lui cominciò a scavare quella fossa ancora fresca della moglie del capo villaggio. Quanto a me, poiché ero spaventato, me ne restavo ben lontano.
Mentre scavava nella fossa, qualcosa dalla fossa lo afferrò e lui non riuscì più a uscire dal fondo dello scavo. Mi gridò: «Aiutami!», ma io ero così terrorizzato che, per quanto mi riguardava, non mi sarei mai avvicinato a lui. Ero terrorizzato e tremavo come una foglia. A quel punto, la gente del villaggio cominciava a svegliarsi e in tutto il villaggio il fumo cominciava a salire. Il capo villaggio stava proprio al centro del paese e dopo la morte della moglie viveva da solo. Poiché il fumo ormai saliva anche dalla sua casa e poiché era impossibile tenere segreto l’accaduto, mentre ancora continuavo a tremare io mi avviai ed entrai nella casa del capo villaggio.
Sedetti accanto alla porta e ancora stavo tremando. Il capo villaggio mi disse: «Cosa stai facendo? Mio caro ragazzo povero, sei entrato molto presto, eh?» Così mi disse. Poiché mi stava guardando, io gli raccontai tutto: «Questo è ciò che è successo.» Tra una parolaccia e l’altra, lui mi disse: «Siediti accanto al fuoco». Poiché ero spaventato, avevo paura anche ad avvicinarmi al fuoco, ma poiché mi ordinò di venire vicino al fuoco, io strisciai pian piano verso il fuoco. Quando mi fui seduto, lui cucinò e mi diede da mangiare. «Mangia, mangia, presto!» mi diceva, mentre mi faceva mangiare, poi uscì e convocò l’intero villaggio.
In breve tutta la gente del villaggio si raccolse e andarono verso la tomba. Lì il capo villaggio, alla testa di tutti, condusse una danza rituale17, nel corso della quale quel ragazzo povero si liberò dalla tomba e tutti lo sgridarono, poi la sepoltura fu ripristinata e tutti infine stavano tornando a casa, quando quel capo villaggio disse: «Voi tutti, gente, non andate a casa vostra, ma venite a riposarvi da me.» Poi aggiunse: «Ragazzo povero, vieni anche tu con me».
Poiché lo diceva il capo villaggio, benché io avessi paura, mi accodai agli altri e andai alla casa, in segno di rispetto verso tutti gli altri. «Se raccogliamo cibo e lo cuciniamo, celebrando di nuovo il congedo di mia moglie, lei sicuramente raggiungerà i kamuy18.» Quando il capo villaggio disse così, gli abitanti del villaggio raccolsero il cibo e lo cucinarono, dopodiché il capo villaggio, voltandosi per avere di fronte la propria moglie, pregò perché lei andasse tranquillamente al luogo delle divinità, al luogo degli antenati. «Poiché il povero ha fatto una cattiva azione, per questo anche mia moglie ha ricevuto un insulto.» E pregava dicendo questo.
Quando poi tutti gli altri cominciarono a uscire, lui disse così: «Ho intenzione di tenermi in casa questo mio ragazzo povero, per occuparsi di me. Avete qualcosa in contrario?»
«Va bene. Cosa dovrebbe esserci di male? Sembra avere un buon cuore ed è una brava persona, perché invece di aiutare ti ha avvisato.» Così risposero, poi tutti gli altri uscirono e il capo villaggio mi tagliò i capelli e mi lavò la faccia, mi portò begli abiti e me li fece indossare. Mi sentivo proprio una persona perbene. In seguito, dicendomi «In questo modo cuciniamo, in questo modo prepariamo le cose che si mangiano» mi spiegò.
Pregò per me di diventare suo figlio, poi mi fece raccogliere la legna e attingere l’acqua, andammo assieme sulla montagna e pregò dicendo: «Questo è mio figlio». Preparò una trappola ad arco per me, dicendo: «Questo è la trappola ad arco di mio figlio». Quando andammo a controllare il giorno seguente quelle trappole, c’erano più cervi e orsi morti nella mia trappola, così lui disse: «Ne gioisco io, anche se lo ha fatto mio figlio». Poiché poi mi disse di chiamarlo padre, io facevo tutto chiamandolo sempre «Papà». Salivo in montagna e quando ritornavo indietro, attingevo acqua, raccoglievo legname, cucinavo e non lasciavo che le mani di quel mio padre toccassero alcunché.
Io ero assieme a lui e lui era assieme a me, e dicendo: «Questo è il modo in cui si pregano le divinità, ecco come si fa» mi istruiva e vivevamo assieme. Quando ero povero, mi chiamavano “ragazzo povero”, ma non mi sono mai arreso e così ho lavorato duro. Ottenni una bella donna come moglie e vivemmo assieme. Dopo questo, anche se mio padre non andò più in montagna e non faceva più nulla, poiché io mi occupavo di tutto per lui, gli dissi: «Non andare più in montagna». Andavo io in montagna e lui lavorava le pelli fino al mio ritorno; mia moglie era una grande lavoratrice ed ebbe un figlio poco dopo il matrimonio.
Quando nacque un maschio, mio padre disse: «Se mia moglie fosse ancora viva, quanto avrebbe gioito per questo, ma sono solo! Mi sembra una brutta cosa essere vivo e coccolare un bambino, qualcosa che mia moglie desiderava tanto: adesso che è accaduto. Ma coccolarlo da solo...» Così parlava, e poiché poi mi disse: «Meglio che tu non vada mai a trovare quell’altro ragazzo povero, perché ti contagerebbe con la povertà», io non ci andai mai, ma si diceva che quel ragazzo povero quasi non riuscisse più a nutrire se stesso.
Poiché non c’era persona che catturasse tante prede come me e io sapevo parlare molto bene, nel villaggio ero onorato da tutti. Quando eseguivamo la cerimonia dell’orso19, invitavamo tutti quanti gli anziani e li facevamo mangiare e donavamo loro cibo. Per questo anche se un tempo mi avevano chiamato “ragazzo povero”, adesso non c’era nessuno che fosse mio pari e mio padre gioiva di questo. «Se solo mia moglie fosse ancora viva, quanto ne avrebbe gioito. Invece sono qui a farlo da solo,» così diceva, e intanto continuavamo le nostre vite.
Nel frattempo, poiché ci nacquero molti figli e figlie, mio padre li amava tutti e li portava sulle spalle, e quando veniva buio li faceva addormentare cullandoli. Così vivevamo. Un tempo io ero stato povero, ma nel frattempo mio padre invecchiò e i miei figli si fecero grandi e presero moglie. Le mie figlie invece le sposai tutte in famiglie ricche e mio padre le andava a visitare.
Mio padre visse così a lungo da mangiare il cibo che i vari nipoti cucinavano per lui. Quando divenne così vecchio, gli fabbricammo un letto dove dormire, bollivamo il cibo fino a renderlo soffice e lo facevamo mangiare imboccandolo. Così ripeteva spesso: «I figli che io desideravo così tanto, davvero mi trattano così bene, adesso?» e in questo modo noi vivevamo, finché un giorno mio padre ci lasciò.
In seguito, anche se avevo così tanti figli, per nessuno di loro sembravano esserci periodi difficili e poiché alla fine anch’io divenni vecchio, «Figli miei, un tempo ero povero, ma se racconto che sono diventato ricco e che me la passo bene, gli altri mi replicheranno: “Cosa credi di essere, un povero che fa il ricco?” Per questo non lo dovrete raccontare, figli miei. Se diamo cibo a quelli che non possono procurarselo da soli, le divinità di sicuro si prenderanno cura di noi. Per questo, voi tutti, fate come ho fatto io. Figli miei, agli inizio io ero povero, ero senza padre né madre, ero invidioso. “Ragazzo povero”, così mi chiamavano, ma poiché il mio cuore rimase buono, grazie a questo il capo villaggio mi adottò come figlio. Poiché pregò per me come suo figlio, adesso noi viviamo in questo modo. Per questo, figli miei, non comportatevi male e se poi le vostre figlie faranno offerte agli antenati per i vostri nonni e le vostre nonne, tutto andrà bene.»
Parlando così, io raccomandavo alle mie figlie e ai miei figli, da vecchio.
Così raccontò un uomo davvero ricco.
Testo originale preso da Nakagawa, Hiroshi; Bugaeva, Anna; Kobayashi, Miki and Yoshimi, Yoshikawa (2016-2024) A Glossed Audio Corpus of Ainu Folklore. NINJAL.
NOTE
1 - Prendiamo come modello quanto scritto nel capitolo XV di The Ainu of Japan (1892), di John Batchelor. In opere successive ha ritoccato qualcosa, aggiungendo dettagli, ma la base rimane grossomodo la stessa.
2 - I piedi dovevano essere rivolti verso la porta, perché era lì che cominciava il viaggio del morto verso l’aldilà.
3 - O peggio: le stesse parole, per indicare cose diverse. Se in alcune zone la parola mici significava “padre”, in altre si usava invece per indicare un padre defunto, che non è proprio la stessa cosa e può causare equivoci spiacevoli.
4 - Un ishigami è una pietra che, per qualche sua particolarità, è considerata la manifestazione di una qualche divinità: una ierofania, insomma. Riceve dunque attenzioni particolari e a volte anche una forma di culto, o almeno offerte di qualche tipo in certi periodi dell’anno. Non è un culto delle pietre, perché le pietre non sono adorate in quanto pietre, ma solo in quanto manifestazione fisica di una realtà superiore: mutatis mutandis, un ishigami non è molto diverso dalle pietre sacre che comparivano anche nel mondo classico, come quella nel tempio di Delfi.
5 - È anche possibile che gli oggetti fossero stati rotti davvero e l’aspirante ladro è stato maledetto per un’azione che non gli avrebbe portato comunque alcun frutto. Nel caso, potrebbe essere una forma di ironia ainu.
6 - Uniwente è formato attaccando all’aggettivo niwen il prefisso u-, che indica reciprocità, e il suffisso causativo -te: il risultato è dunque un “far essere arrabbiati assieme”, ossia un modo per stimolare reciprocamente la propria rabbia. Da notare che in lingua ainu gli aggettivi funzionano anche come verbi, specie in posizione predicativa.
7 - In lingua ainu, una morte accidentale è anche chiamata yupkep, che sarebbe l’aggettivo yupke, ossia “essere forte, selvaggio, severo”, più il suffisso -p, per renderlo un sostantivo. Non lontano dal significato di niwen, insomma.
8 - Il titolo inglese è Our Land Was a Forest. An Ainu Memoir, pubblicato nel 1994. La versione originale in lingua giapponese si intitola Ainu no ishibumi, pubblicata nel 1980. L’autore è sempre Kayano Shigeru, ovviamente.
9 - E ricordiamo che hawe è la voce, tanto per rimanere nello stesso campo semantico. Considerato che etok significa “origine, sorgente”, pawetok potrebbe significare “fonte del discorso” e gli uomini loquaci sarebbero quelli che possiedono in sé la fonte del discorso.
10 - Nella lingua ainu le consonanti sorde e sonore sono intercambiabili: usare l’una o l’altra era soprattutto questione di parlata locale. Niwenhoribi e niwenhoripi sono la stessa cosa, in pratica, e anche la divisione di una parola è arbitraria, perché l’ainu non era lingua scritta e la scelta di come trascriverlo era a discrezione della persona.
11 - Anche i lemures romani erano gli spiriti di chi era morto anzitempo ed erano pacificati nei Lemuria di maggio.
12 - Nello uwepeker si parla di uhorippare, che di fatto è lo uniwente, ma con horippa al posto di niwen, dato che -re è un altro suffisso causativo, proprio come -te. Forse era questo il nome con cui il rituale era conosciuto nella zona di origine della storia: horippa/horipi, che di per sé significa “danzare”, era a volte usato come alternativa a niwen horipi, perché si sottintendeva che la danza eseguita era proprio quella per i morti.
13 - Ricordiamo che anche i più antichi testi scritti giapponesi, ossia il Kojiki (712) e il Nihonshoki (720) indicano gli esseri umani come le “persone visibili”, mentre i kami sono le “persone invisibili”. È almeno possibile ipotizzare che questa idea risalga al periodo Jōmon, ossia la preistoria dell’arcipelago giapponese, e preceda dunque la formazione di giapponesi e ainu come le due etnie distinte che conosciamo in epoca storica.
14 - E all’origine dello zashikiwarashi, personaggio del folklore giapponese reso famoso dalle ricerche di Yanagita Kunio sulla regione in cui era venerato, ossia il nordest, quella del Tōno monogatari, potrebbero esserci proprio gli infanticidi praticati in passato. Il “bambino del salotto” potrebbe essere nato come sublimazione apotropaica dei figli uccisi e sepolti al di sotto del pavimento perché il loro spirito rimanesse vicino, ma è solo un’ipotesi.
15 - Poeta e politico giapponese del periodo Heian (794-1185), dopo la morte in esilio nel 903 sarebbe ritornato come spettro malvagio, danneggiando sia la capitale che i suoi ex rivali. Avrebbe ricevuto numerosi onori post mortem, per placarlo e riportare la pace a Heian. Molto venerato dagli studenti giapponesi che devono superare gli esami di ammissione, in quanto intellettuale lui stesso e protettore degli studi in generale.
16 - Oppure nella parte bassa. In lingua ainu, le parole pa e kes significano rispettivamente “testa” e “piedi” e spesso sono usate per indicare la parte alta e bassa di qualcosa, oppure quella iniziale e finale, ma sono usate anche per indicare le direzioni: la prima corrisponde a est, la seconda a ovest, perché l’est è la direzione più nobile e sacra, da cui comincia il giorno, mentre l’ovest è dove finisce. Dato che entrambi i personaggi sono poveri, ho preferito usare termini neutrali come lo sono appunto quelli delle direzioni, evitando termini che potevano suggerire una differenza qualitativa tra le parti del villaggio in cui abitano. Vivono entrambi ai margini, dopotutto.
17 - È il rituale chiamato uniwente, oppure niwen horipi, di cui ho già parlato nella mia introduzione.
18 - Kamuy o kamui, è la stessa cosa: la prima grafia è quella usata più spesso oggi, la seconda è quella “storica”.
19 - Lo iyomante, cerimonia tradizionale ainu in cui un cucciolo di orso è allevato per due o tre anni da una famiglia, come se fosse uno dei figli, per poi essere “mandato a casa” nel corso di un rituale a cui partecipa l’intero villaggio. Lo avevo già descritto in dettaglio altrove, parlando di Amekumabito.