L'origine dell'agricoltura nei miti giapponesi
L’origine dell’agricoltura o almeno dei vegetali coltivati a scopo alimentare è un motivo che appare spesso nelle mitologie dei popoli che si trovano come minimo al livello di protoagricoltori. A volte è raccontata in miti complessi, che col tempo si sviluppano in misteri (un esempio per tutti, il mito del ratto di Persefone narrato nell’Inno a Demetra e i misteri eleusini a esso collegati), a volte si ci limita a raccontare la nascita delle piante alla base dell’alimentazione di quella particolare popolazione, ma un qualche tipo di mito delle origini su questo tema lo troviamo quasi ovunque.
Nel caso del Giappone abbiamo due miti sull’origine dei cereali, o almeno due versioni del mito. Ci sono raccontate nel Kojiki, la cui compilazione si è conclusa nell’anno 712, e nel Nihonshoki, completato otto anni più tardi, nel 720. Sono i due testi principali e più antichi in cui è raccolta la storia del Giappone dalle sue origini mitiche fino a un periodo molto vicino alla loro compilazione: li possiamo considerare una specie di Ab urbe condita giapponese, dedicata però al paese intero e non solo alla capitale. Anche la loro funzione era simile a quella dell’opera di Tito Livio: mostrare e spesso giustificare il modo in cui si era stabilita la supremazia di un territorio che aveva sottomesso uno dopo l’altro tutti i competitori e unificato il paese. Se Livio ci raccontava l’ascesa di Roma, sia il Kojiki che il Nihonshoki ci raccontano l’ascesa del clan1 stanziato nella regione di Yamato, da cui verrà il primo imperatore del Giappone.
Entrambi i testi giapponesi dedicano un ampio spazio al periodo mitico e agli eventi accaduti prima della storia, all’inizio dei tempi: il primo libro (su tre) del Kojiki e i primi due libri del Nihonshoki. Per farlo, hanno raccolto storie da varie regioni del paese, con un occhio di riguardo al territorio di Yamato, che era quello che doveva essere glorificato. Ciò che ne è uscito è una cronaca vagamente coerente, in cui diversi miti sono stati rimaneggiati o adattati agli scopi del lavoro, forse anche inventando qualche dettaglio di sana pianta: gli autori erano appunto più interessati a legittimare la supremazia del clan di Yamato che non a conservare intatti i miti più antichi del Giappone. Molto materiale è senza dubbio andato perso nel tempo, figure divine sono state modificate e accorpate e insomma il lavoro di ricostruire come potesse essere un mito prima dei ritocchi politici non è dei più semplici, ma questo è ciò che abbiamo a disposizione e ce lo dobbiamo far bastare. Anche perché, almeno per quanto riguarda l’agricoltura, non ci è andata troppo male.
Come dicevo, abbiamo due miti sull’origine delle principali piante coltivate in Giappone e su altri prodotti alla base della loro cultura: uno è raccontato nel Kojiki, l’altro nel Nihonshoki. Sono simili ma non identici e proprio le loro differenze sono forse la parte più interessante. È possibile che anticamente esistessero numerosi altri miti, forse uno per ogni territorio, in ognuno dei quale apparivano le divinità locali, ma oggi disponiamo soltanto di queste due storie ed è da qui che il nostro discorso dovrà partire. Presentiamo prima di tutto i due miti, così come li troviamo nei testi.
Nel Nihonshoki si racconta che, dopo essere tornato dal suo viaggio a Yomi, il regno dei morti, Izanagi si dovette purificare e dalle sue abluzioni nacquero tre grandi divinità, che sarebbero poi diventate le tre divinità principali del Giappone: la dea del sole Amaterasu, il dio della luna Tsukiyomi2 e il dio delle tempeste (ma può anche essere interpretato come dio dei monsoni e altro ancora) Susanoo. Izanagi, prima di ritirarsi, divise il suo dominio tra i tre figli: ai primi due assegnò il cielo e al terzo il mare.
Insediatasi a Takamagahara3, Amaterasu convocò il fratello Tsukiyomi e gli ordinò di andare per lei a visitare la dea Ukemochi, di cui aveva sentito parlare. L’avrebbe trovata nella grande piana centrale delle canne4, o così si diceva. Tsukiyomi obbedì e scese dal cielo a cercare questa dea, che trovò poco dopo senza difficoltà, proprio come la sorella gli aveva detto.
Per accogliere il visitatore, Ukemochi rigurgitò vari tipi di cibo, che cambiavano a seconda della direzione verso cui lei guardava. Si girò verso la pianura e vomitò riso bollito; si girò verso il mare e vomitò pesci dalle pinne larghe e dalle pinne strette; si girò verso il monte e vomitò animali dal pelo duro e dal pelo soffice. Cucinò il tutto e lo offrì a Tsukiyomi in una specie di buffet, distribuito su cento vassoi, secondo una struttura che ricorda anche le offerte alle divinità nei rituali giapponesi.
Tsukiyomi, che aveva assistito in diretta a tutta la scena, fu disgustato dal modo in cui quel cibo era stato ottenuto. Accusando la dea di avergli offerto roba sporca e impura, rigurgitata dalla bocca, Tsukiyomi sfoderò la spada e la uccise sul posto. Tornò poi in cielo dalla sorella Amaterasu e le raccontò tutto ciò che gli era successo e quale fosse stato il risultato della sua ricerca.
Amaterasu si arrabbiò con lui perché aveva agito con violenza e ucciso la dea Ukemochi: disgustata dal suo comportamento, dichiarò che non lo avrebbe mai più guardato in faccia. Per questo oggi il sole e la luna sono separati e dominano l’uno sul giorno e l’altra sulla notte, e non vivono più assieme nel cielo. In seguito, Amaterasu mandò il suo messaggero Amekumabito5 a vedere se si potesse fare qualcosa per la dea uccisa da Tsukiyomi. Quando Amekumabito raggiunse il posto, scoprì che Ukemochi era davvero morta, ma vide anche che dal suo corpo stavano spuntando vari prodotti: dalla sua calotta cranica il cavallo e il bue, dalla fronte il miglio, dalle sopracciglia il baco da seta, dagli occhi il panico, dal ventre il riso, dai genitali il grano e fagioli grandi e piccoli6. Amekumabito raccolse tutti questi prodotti e li portò ad Amaterasu, che ne fu molto contenta e dichiarò che sarebbero diventati la base per la vita degli esseri umani. Dal riso ricavò semi per le coltivazioni con acqua e dai fagioli e dagli altri cereali ricavò semi per le colture su terreni secchi. Si mise poi in bocca il baco da seta e ne ricavò un filo, fornendo così il primo esempio di come produrre la seta.
Nel Kojiki si racconta invece che Susanoo, dopo essere stato scacciato dal cielo in seguito al suo acceso litigio con la sorella maggiore Amaterasu, vagò in terra7 fino a incontrare la dea Ōgetsuhime. Le chiese da mangiare e lei lo accontentò, offrendogli ospitalità in una maniera che forse non era proprio quella che lui si sarebbe aspettato. Per ottenere il cibo, infatti, la dea si estrasse dal naso, dalla bocca e dall’ano vari prodotti alimentari che poi offrì a Susanoo. Come già il fratello nella versione del mito raccontata nel Nihonshoki, anche Susanoo reagì molto male alla scena: disgustato da quanto aveva visto, accusò la dea di offrirgli sostanze sporche e impure e la uccise.
Dal cadavere di Ōgetsuhime uscirono poi vari prodotti: dalla testa il baco da seta, dagli occhi il riso, dalle orecchie il miglio, dal naso il fagiolino rosso, dai genitali il grano e dal retto la soia. Il dio (o la dea, a seconda delle storie) Kamimusubi li vide e li fece raccogliere, per utilizzarli in seguito come semi, portando così nel mondo degli umani la loro coltura.
Queste sono le due versioni del mito. Come notiamo subito, i dettagli possono anche cambiare, ma la storia di base rimane la stessa in entrambe le narrazioni. Abbiamo una divinità maggiore che incontra la dea del cibo e ne riceve ospitalità. La dea offre al visitatore cibo prodotto dal proprio corpo. Il visitatore rimane disgustato dalla scena e uccide la dea. Qualche tempo dopo, una seconda divinità trova il cadavere e vede che da certe parti del suo corpo sono spuntati diversi tipi di cibo e altro. I prodotti sono raccolti e la seconda divinità li fa diventare il fondamento della civiltà umana.
Perché i protagonisti della storia cambiano tra le due versioni? Alcuni hanno suggerito che la storia originale fosse quella raccontata nel Nihonshoki, dove l’assassino è Tsukiyomi e il suo crimine è alla base della separazione di sole e luna, che da allora in poi non governano più assieme il cielo, ma si alternano perché Amaterasu non vuole più vedere il fratello. Secondo questa interpretazione, la variante del Kojiki avrebbe invece usato Susanoo per sottolineare la natura violenta di quel dio e aggiungere un altro crimine alla sua lista, anche per portare avanti la campagna denigratoria contro le divinità della regione di Izumo, il grande oppositore alle conquiste di Yamato: Susanoo era il dio principale di quel territorio, prima di essere sostituito dal suo discendente Ōkuninushi, quindi la sua malvagità doveva sempre essere evidenziata. Altri sostengono il contrario, e cioè che Susanoo sia il protagonista originale, in quanto maggiormente legato alla vegetazione e all’agricoltura, e che nella versione del Nihonshoki sia stato confuso col dio lunare, che secondo loro presenterebbe molte affinità con lui.
Una spiegazione alternativa potrebbe invece essere che la storia della morte della dea del cibo era un racconto diffuso in diverse regioni del Giappone, ognuna delle quali usava come protagonisti gli dèi principali di quel territorio. Se guardiamo solo alle dee del cibo, per esempio, ne sono menzionate diverse nei due testi di quel periodo che possediamo: nome a parte, sono pressoché identiche come ruoli ed è facile pensare che fossero divinità venerate in regioni differenti ma con uno stesso ruolo da svolgere, ossia produrre il cibo per gli abitanti di quel territorio. Una volta unificato il Giappone sotto il clan Yamato, il sincretismo tipico delle religioni politeistiche porterà queste divinità locali a mischiarsi e fondersi con altre figure, dal nome diverso ma dalle funzioni simili a sufficienza da permettere questa fusione.
Nel Giappone attuale, così, non troviamo più una qualche forma di culto dedicata a Ukemochi o a Ōgetsuhime nello specifico, ma hanno un grande seguito divinità come Inari, dio del riso e della fertilità8. Ukemochi è spesso identificata anche con Uka no Mitama, dea dell’agricoltura, che a propria volta è mescolata spesso a Inari. Toyoume, poi, anche lei dea dell’agricoltura, è la figura in cui tendono a confluire alla fine tutte le altre. Spesso sono attribuiti a lei i ruoli di divinità diverse ma collegate all’agricoltura, alla fertilità e all’abbondanza in generale: Toyoume è oggi una delle poche a ricevere l’appellativo di “grande dea” (Ōmikami) come la stessa Amaterasu, a conferma del ruolo di primo piano che ha raggiunto. Ha anche un altare accanto a quello di Amaterasu nel grande santuario di Ise9, per cui la possiamo considerare la dea dell’agricoltura per eccellenza, nel Giappone attuale.
La versione del mito raccontata nel Kojiki include divinità legate alla regione di Izumo. Susanoo è il principale, ovviamente, che subito dopo la cacciata dal cielo diventerà un dio terreno legato a quella regione: una divinità benevola, eroe culturale fondatore di civiltà, completamente diverso dal dio selvaggio e violento, quasi un trickster, che vediamo nelle storie ambientate a Takamagahara. Una seconda divinità collegata alla regione di Izumo è Kamimusubi10, che si occupa di raccogliere e far diffondere i prodotti nati dal corpo della dea uccisa e che ritroveremo in altre storie ambientate a Izumo, in un ruolo da grande saggio o patriarca. Nello Izumo fudoki, peraltro, Kamimusubi è spesso chiamato “Spirito della Fertilità”. Lo chiamano così perché ha donato agli uomini i prodotti agricoli? Chissà.
Anche Ōgetsuhime era una divinità di Izumo, magari la versione locale della dea del cibo? È una ipotesi, ma non lo possiamo né affermare né negare con certezza, dato che la sua unica apparizione nei miti è in questa scena del Kojiki. Sappiamo che verso l’ottavo secolo il dio Ajisuki, legato alla fertilità e alla coltivazione, aveva numerosi santuari a Izumo, ma era forse una divinità venuta da fuori, imposta da Yamato assieme a un gruppo di immigrati coreani: pare che la popolazione nativa di Izumo abbia impiegato diverso tempo prima di accettare questa nuova figura. Altra divinità di Izumo legata al cibo era Kumano Ōkami (che coinciderebbe con Susanoo stesso, secondo alcuni), presentato nello Izumo fudoki come figlio molto amato di Izanagi e indicato nello Izumo no Kuni no miyatsuko no Kamuyogoto con l’epiteto di kushimikeno (no mikoto), ossia “Signore del cibo”. Ōgetsuhime poteva trovare un posto qui in mezzo?
Non lo sappiamo. Se sì, se anche Ōgetsuhime aveva un santuario a Izumo come divinità del cibo, potrebbe essersi persa nel tempo molto presto, magari assimilata da altre figure che ne ricoprivano lo stesso ruolo, dato che non è citata neppure nello Izumo fudoki dell’ottavo secolo. Il dio (o la dea) Inari è un possibile candidato per averla assorbita, dato che alcune versioni della sua storia lo vogliono ucciso da un Susanoo disgustato dal cibo offerto. In altre, invece, Inari è ucciso da Tsukiyomi al posto di Ukemochi. Qualunque cosa sia accaduta, oggi Ōgetsuhime non esiste più come figura autonoma e questo è quanto.
La presenza di Amaterasu nel mitologema del Nihonshoki induce a pensare che quella storia fosse la variante di Yamato. È anche il solo mito in nostro possesso in cui Tsukiyomi abbia un qualche ruolo, dato che per il resto scompare dalla scena subito dopo la sua creazione. Il fatto che non sia poi un episodio isolato e solo vagamente connesso al resto della narrazione, come è invece quello che troviamo nel Kojiki, fa supporre che lo dovremmo considerare come la variante ufficiale, almeno per il periodo in cui i due libri sono stati prodotti. Si propone anche come ulteriore mito delle origini, dandoci una spiegazione del perché sole e luna si alternino in cielo: perché Amaterasu e Tsukiyomi hanno litigato a causa della dea del cibo e adesso non si guardano più in faccia.
Sia come sia, i due mitologemi sono interessanti anche per la loro struttura. Sono praticamente due storie, con personaggi diversi e tenute assieme dal cadavere della dea del cibo. Nella prima parte c’è la ragione per l’omicidio, mentre nella seconda c’è la scoperta delle sue conseguenze. Ciò che rende davvero interessante questo dettaglio è che per entrambe le parti esistono precedenti nelle mitologie di altre civiltà, ma è più insolito trovarle combinate in una storia sola. Cominciamo a osservare da vicino alcuni di questi precedenti, per farci una idea più chiara.
Partiamo dalla prima parte, dove la dea del cibo offre al suo ospite prodotti alimentari che ha estratto dal proprio corpo in un modo che l’ospite trova ributtante. In diversi miti diffusi tra i popoli coltivatori del mais negli attuali Stati Uniti, come ad esempio i Creek e i Cherokee, si raccontava la storia di una donna “mitica” che donava il mais all’umanità: una sua caratteristica peculiare era la grande ospitalità e generosità, che la portava a prendersi cura di orfani e altri bisognosi. Nello specifico, nutriva gli affamati dando loro i chicchi di mais che si sprigionavano spontaneamente dal suo corpo, quando lei lo strofinava. Alla fine della storia la donna moriva, o perché qualcuno la uccideva, oppure perché si offriva spontaneamente in sacrificio, ma non prima di avere insegnato agli umani come far produrre altro mais dal suo corpo. Aveva insegnato loro l’agricoltura, insomma, da un certo punto di vista.
In Indonesia, presso i Toraja, troviamo un mito delle origini in cui un pescatore lasciava spesso a casa da sola la moglie, quando doveva andare a pescare. Al suo ritorno, però, trovava sempre una grande quantità di riso, sulla cui origine la moglie si rifiutava di fornire spiegazioni. Un giorno l’uomo finse di allontanarsi da casa, per poi tornare indietro e spiare di nascosto la moglie da una fessura nella parete: vide così che la donna si strofinava le mani sopra un recipiente e lo riempiva coi chicchi di riso che cadevano dalla sua pelle. Anche in questo caso il marito si arrabbia e accusa la moglie di produrre il cibo in un modo sporco e disgustoso, ma non uccide la donna, che invece si trasforma in una pianta di riso per motivi non chiari.
Di nuovo, tra i maori della Nuova Zelanda troviamo un mito delle origini che ci racconta la nascita del kumara, ossia la patata dolce. La dea Pani aveva accolto due piccoli nipoti rimasti orfani e li aveva allevati nutrendoli regolarmente con kumara cotto al forno, un cibo che fino a quel momento era sconosciuto. I due orfani non sapevano cosa fosse quell’alimento che la dea preparava sempre per loro, ma era molto buono e lo mangiavano senza problemi, anche se erano un poco infastiditi dal fatto che Pani si rifiutasse di rispondere alle loro domande. Un giorno uno dei fratelli la spiò di nascosto e scoprì che la dea estraeva quel cibo dal suo corpo, dopo essersi immersa in acqua. In una versione alternativa, Pani produceva il kumara strofinandosi le mani sulla pancia. Quando scoprirono la verità, i due fratelli ne furono disgustati, perché avevano mangiato le secrezioni della loro nutrice. Pani si vergognò di essere stata scoperta e fuggì negli inferi, dove in seguito uno dei fratelli la raggiunse e la trovò impegnata a coltivare kumara. Tornato dagli inferi, portò con sé la conoscenza nel mondo dei vivi ed è così che oggi si coltiva la patata dolce.
Si potrebbe continuare ancora, ma dovremmo avere chiarito almeno un punto. Abbiamo una divinità femminile, legata a uno o più prodotti agricoli. Questa dea li produce dal proprio corpo e li offre con generosità a chiunque abbia fame. Un giorno qualcuno scopre l’origine di questo cibo e reagisce con disgusto: la dea è offesa e sparisce, ma non prima di avere lasciato dietro di sé il segreto della coltivazione di quel particolare prodotto associato a lei, oppure i semi del prodotto stesso, che poi saranno raccolti e utilizzati da un’altra figura, divina o meno.
Le somiglianze coi miti narrati nel Kojiki e nel Nihonshoki mi sembrano chiare a sufficienza.
Nelle due versioni giapponesi a nostra disposizione, troviamo una figura femminile di natura divina, che è presentata come la dea del cibo. Quando ha un ospite, è generosa e offre cibo in abbondanza. L’ospite vede la provenienza del cibo, ossia il corpo della dea stessa, e ne è disgustato al punto da ucciderla. Dal cadavere della dea nascono piante e altri prodotti agricoli (e non). Come dobbiamo interpretare questo mito? Matsumura11 propone alcune possibili spiegazioni: il mito si basa sull’idea che tutte le cose di valore nella vita provengono da un atto criminale; in passato era tradizione sacrificare una vittima per assicurarsi un buon raccolto; per placare lo spirito del grano ucciso durante il raccolto si svolgevano riti appositi. Tsuda12 aggiunge che questa storia potrebbe avere avuto origine da antiche cerimonie in cui una divinità era distrutta e uccisa.
Prima di aggiungere anche noi qualche ipotesi, potrebbe essere utile raccontare un altro mito a cui la storia giapponese della dea del cibo è spesso accostata, a ragione o a torto. In Mito e realtà, infatti, Mircea Eliade ci presenta anche i risultati delle ricerche condotte dal collega Adolf E. Jensen tra varie popolazioni di paleocoltivatori in Nuova Guinea. Secondo Jensen, i loro miti sembrano incentrarsi su figure che lui stesso indica come divinità dema, utilizzando il termine di una tribù locale. I dema sarebbero personaggi divini o semidivini, che abitavano la terra nei tempi mitici e che si presentavano sia in forma umana, sia in forma animale o vegetale: l’uccisione di una divinità dema da parte di uomini dema sarebbe all’origine della vita come è conosciuta oggi. Il mitologema più famoso è quello che ci parla di Hainuwele.
Secondo questa storia, un uomo di nome Ameta incontra un giorno un cinghiale durante una battuta di caccia. L’animale fugge e cade in un lago dove annega, ma non prima di far trovare al cacciatore una noce di cocco. Quella notte, Ameta sogna la noce di cocco, che gli dice di piantarla nel terreno. Il mattino seguente Ameta obbedisce. Dopo tre giorni spunta una palma da cocco, che dopo altri tre giorni fiorisce. Ameta si arrampica sulla palma per raccogliere i fiori, ma si ferisce un dito e il suo sangue cade su uno dei fiori. Passano altri nove giorni e sul fiore è spuntata una bambina13.
Ameta raccoglie la neonata, l’avvolge in foglie di cocco e la porta a casa. Nel giro di altri tre giorni la bambina cresce fino a diventare una ragazza in età da marito, che il padre adottivo chiama Hainuwele, ossia “ramo di cocco”. Per motivi non specificati, durante una festa locale Hainuwele si sistema al centro della piazza del villaggio, dove tutti le danzavano attorno, e per nove notti distribuisce doni ai danzatori. Il nono giorno, sempre per motivi non precisati in quella sede, avviene la tragedia: gli uomini scavano una fossa al centro della piazza e vi fanno precipitare dentro Hainuwele nel corso della loro danza, per poi coprire la fossa e ballarci sopra come se niente fosse.
Il giorno seguente, vedendo che la figlia adottiva non torna a casa, Ameta teme il peggio e va in paese a cercarla. Trova la fossa, dissotterra il cadavere e lo taglia in pezzi che seppellisce di nuovo in varie zone lì attorno. Trattiene solo le braccia di Hainuwele, per motivi sempre non ben precisati. Dalle parti di corpo seppellite, qualche tempo dopo, nascono piante diverse, sconosciute fino a quel momento: i tuberi sono la più importante di tutte e da allora costituiscono il nutrimento principale per la popolazione del posto. Le braccia, invece, Ameta le consegna a un’altra divinità, una certa Satene.
Questa Satene traccia una spirale a nove giri su un terreno per la danza, si sistema al suo centro, con le braccia di Hainuwele forma una specie di porta, riunisce i danzatori che avevano ucciso la ragazza e annuncia di aver deciso di abbandonare quella terra, per l’omicidio che loro avevano commesso. Prima di andarsene, però, vuole che tutti i danzatori camminino verso di lei, passando sotto la porta formata dalle braccia di Hainuwele. Tutti obbediscono. Alcuni danzatori passano sotto la porta senza problemi e rimangono umani; altri sono invece trasformati in animali o spiriti. Satene dichiara che gli uomini l’avrebbero incontrata di nuovo soltanto dopo la morte e con quelle parole di addio se ne va per sempre.
Questo è il mito di Hainuwele, come è stato raccolto da Jensen e riferito da Eliade nel suo libro già citato. Che presenti somiglianze con la storia giapponese della dea del cibo è indubbio, ma anche le differenze sono indubbie. Prima di tutto, il movente dell’omicidio. Se Tsukiyomi e Susanoo avevano ucciso la dea perché offesi e disgustati dal modo in cui lei aveva prodotto il cibo, nella storia di Hainuwele la ragazza è assassinata (o sacrificata) senza alcun motivo apparente. Così è in questa versione, quantonemo. Altre versioni parlano di un omicidio per invidia, perché Hainuwele era più ricca e faceva doni più pregiati14. Siamo comunque molto lontani da quanto avviene nel mito giapponese, direi.
Abbiamo una figura femminile soprannaturale, uccisa da altre figure soprannaturali. Da varie parti del suo cadavere nasceranno le piante che forniscono il cibo alla base dell’alimentazione per quel popolo. Fin qui, tutto bene. Il resto si fa più problematico. Se Hainuwele è assassinata da un gruppo, in quello che sembra un sacrificio rituale, le divinità giapponesi sono uccise da un singolo che è offeso dai cibi impuri appena ricevuti in dono. Come se non bastasse, il mito di Hainuwele è un momento di svolta nella società che lo racconta: segna la fine del mondo primordiale, nonché l’uscita dal tempo mitico, per certi versi. Con questo gesto, nel mondo arriva la morte, le divinità dema diventano umane e la società ha inizio, nel bene o nel male.
Succede qualcosa di simile anche in Giappone? Direi proprio di no. Tanto nel Kojiki quanto nel Nihonshoki la storia continua normalmente, raccontandoci le avventure delle divinità, i loro problemi e le loro lotte per il potere. I primi esseri umani non sono neppure entrati in scena, a questo punto, e dovranno attendere ancora parecchio prima che giunga il loro turno. I due miti stessi sono inseriti nei testi come una piccola nota a pié di pagina, giusto un episodio curioso che ha qualche conseguenza ma nulla di epocale. Ukemochi e Ōgetsuhime muoiono, sì, ma altre divinità del cibo prenderanno il loro posto (una di queste sarà Uka no Mitama, che il Kojiki indica come figlia di Susanoo stesso) e tutto proseguirà senza scossoni.
La storia di Hainuwele assomiglia un poco a quella delle divinità giapponesi del cibo e possiamo ipotizzare che sia esistito un qualche contatto tra il Giappone e le isole del sud, Nuova Guinea e Melanesia, in un passato più o meno remoto. Non così assurdo, perché esistono anche altri elementi nel folklore giapponese che ricordano un poco quello che possiamo trovare in altre zone del Pacifico meridionale. Il mito di Hainuwele potrebbe dunque essere stato introdotto in Giappone e forse, chissà, anticamente aveva anche avuto una qualche rilevanza. Giunti però all’ottavo secolo, quando i miti sono stati messi per iscritto, aveva ormai perso ogni importanza che poteva avere avuto anticamente: era solo un episodio curioso, come la storia del coniglio di Inaba conservata nel Kojiki, che presenta allo stesso modo elementi originari delle isole del Pacifico. Non mi pare dunque il caso di dare troppo peso al mito di Hainuwele, analizzando le storie giapponesi sulla nascita dell’agricoltura.
Continuando lungo questo discorso, mi pare opportuno citare un altro piccolo episodio contenuto nel Nihonshoki, in una delle tante varianti presentate nel mito cosmogonico. Nell’episodio della nascita del dio del fuoco, che causerà danni letali alla madre Izanami, il Nihonshoki ci racconta che subito dopo Kagutsuchi, il dio del fuoco, una Izanami in agonia avrebbe partorito altre due divinità: Haniyamahime, dea della terra, e Mizuhanome, dea dell’acqua15. Kagutsuchi avrebbe subito sposato Haniyamahime e avrebbe avuto da lei una figlia, Wakamusubi16. La particolarità di Wakamusubi è che sulla sua testa crescevano il baco da seta e il gelso, mentre nel suo ombelico crescevano i cinque cereali. Piuttosto familiare, direi. Anche nel suo caso, poi, l’origine da sostanze impure non manca, dato che lo Shintō considera parecchio impure le deiezioni umane. Se aggiungiamo che i suoi genitori sono il fuoco e la terra, abbiamo anche un semplice affresco dell’agricoltura yakihata praticata nel Giappone antico e consistente nel bruciare i campi per ripulirli prima della semina.
Per quanto possiamo girarci attorno, è un dato di fatto che produrre cibo dal proprio corpo è forse la caratteristica principale delle divinità del cibo in Giappone. La presenza ricorrente del baco da seta ci dice che le versioni dei miti in nostro possesso risalgono a dopo l’inizio degli scambi tra la Cina e il Giappone, ossia a un’epoca relativamente recente. Possiamo comunque supporre che i cinque cereali fossero presenti fin dall’inizio e le versioni più recenti della storia abbiano aggiunto ulteriori elementi a mano a mano che diventavano comuni in Giappone, per espandere la portata della dea di pari passo con l’espansione delle risorse alimentari ed economiche del paese. La versione del Nihonshoki, dove il cadavere di Ukemochi produce anche il cavallo e il bue, potrebbe dunque essere la più recente di tutte, ma sono solo congetture.
Sempre parlando di Ukemochi e del mito raccontato nel Nihonshoki, possiamo sottolineare in questa sede come proprio Amaterasu, dea del sole, abbia dato una dimostrazione di come ricavare il filo dal baco da seta. Se consideriamo anche l’attività di tessitrice a cui la dea e le sue ancelle si dedicano in un altro mito, dove peraltro saranno interrotte brutalmente dal sacrilegio di Susanoo, ne ricaviamo una immagine che è tipica delle “figlie del sole” presenti in altre mitologie indoeuropee e uraloaltaiche, dove donne associate al sole tessono i raggi di luce per produrre la veste di colori con cui ogni giorno il mondo è avvolto. Lo segnalo giusto come parentesi e per completezza, ma non approfondirò il discorso in questa sede: ci porterebbe troppo fuori strada.
Tornando alle dee del cibo, tutto ciò che abbiamo visto sembra rafforzare la loro immagine come versione “in miniatura” della Madre Terra, con piante agricole che crescono spontaneamente dal loro corpo sia quando sono ancora vive, come nel caso di Wakamusubi, sia quando sono morte, come nel caso delle due dee assassinate. Tutte possiedono comunque l’abilità di produrre cibo dal proprio corpo, anche se in una forma che può risultare ripugnante a prima vista: questo le avvicina alle figure che abbiamo trovato in altre mitologie, dove la dea di un determinato prodotto agricolo lo sa produrre a volontà, quasi come una secrezione del proprio corpo. Sempre come avviene in altre mitologie, chi si trova ad assistere a questa scena reagisce con rabbia e disgusto vedendo l’origine del cibo che gli è offerto.
Una notevole differenza, sotto questo aspetto, è che negli altri miti le donne che generano cibo lo fanno di nascosto e sono scoperte soltanto quando la persona che dovrà ricevere il cibo le spia a loro insaputa. Ukemochi e Ōgetsuhime, di contro, non cercano di nascondere quello che fanno, ma agiscono in piena vista, come se fosse del tutto naturale. E forse per loro due lo era davvero, ma gli ospiti non si sono dimostrati dello stesso parere. Avessero agito di nascosto, allora si sarebbe potuto pensare che il mito raccontasse di un qualche tabù violato e delle sue conseguenze. Non sembra però essere questo il caso nelle storie giapponesi, a meno che non si voglia sostenere che il tabù sia stato violato inconsapevolmente proprio da Tsukiyomi e Susanoo, in quanto uomini che hanno assistito a un’attività prettamente femminile come la coltura del cibo (cioè la sua “estrazione” dalla terra) e la successiva preparazione. Così come la tessitura, anche la coltivazione dei campi era attività collegata soprattutto alle donne, almeno in epoca arcaica: l’agricoltura stessa è una scoperta quasi sicuramente dovuta alle donne del neolitico. Esisteva qualche tabù specifico, ai tempi e in Giappone?
Esistevano tabù legati alla tessitura, probabilmente, o almeno questo è quanto sostiene Edwina Palmer nel suo articolo A Striking Tale of Weaving Taboos and Divine Retribution (Asian Folklore Studies, Volume 66, 2007: pp. 223-232), e in entrambe le storie è prevista la morte per la donna che li ha violati. Se desideriamo, possiamo ipotizzare che nei due miti sulla dea del cibo sia stata la dea stessa a violare un tabù, mostrando in pubblico il modo in cui produce il cibo, invece di nascondersi come hanno la decenza di fare le protagoniste nelle storie di altre popolazioni. Susanoo e Tsukiyomi, uomini, vedono il modo in cui il cibo nasce, ne sono scandalizzati e reagiscono uccidendo la donna che ha agito pubblicamente, anziché nel segreto della cucina. Una interpretazione come un’altra, che ha un suo senso; se sia anche corretta, però, è un discorso diverso.
È forte la tentazione di considerare gli omicidi commessi dalle divinità maschili come un’allegoria della coltivazione stessa: bisogna lacerare il corpo della Madre Terra per farle produrre i suoi frutti. Per quanto abbia un senso, sarebbe anche un insulto nei confronti dei miti in questione. Una uccisione è di sicuro alla base di numerosi miti collegati alla scoperta dell’agricoltura o di prodotti particolari: Osiride è probabilmente il più famoso tra gli esempi che si possono fare, il dio egizio che insegna agli uomini l’agricoltura ed è poi assassinato e fatto a pezzi, ma anche Dioniso è fatto a pezzi e mangiato, mentre il contadino Caino uccide il pastore Abele. Una grossa differenza è che in Giappone non sono le dee del cibo a insegnare agli uomini l’agricoltura, ma è la divinità che trova il loro cadavere e raccoglie i prodotti nati dalla carne della dea: nel Nihonshoki è Amaterasu a portare di fatto l’agricoltura nel mondo (tramite il nipote Ninigi, in alcune versioni), mentre nel Kojiki è Kamimusubi17. Le dee del cibo producono cibo, ma non insegnano a nessuno il segreto della coltivazione: la diffusione delle colture è deputata a divinità più “istituzionali”.
Un altro fattore che dobbiamo prendere in considerazione è la particolare natura dello Shintō, cioè la (più o meno) religione al cui interno si collocano questi miti. Nella visione del mondo proposta dallo Shintō la realtà è viva e in mutamento più o meno a ogni livello. Le cose divengono, nascono, crescono, vivono, e la distinzione tra oggetti animati e inanimati è incerta e interpretabile. Come abbiamo visto, nuove divinità possono nascere anche dagli scarti organici, ma anche da vestiti gettati via, dal modo in cui una divinità si lava18, da tutto. Che il cadavere di una dea possa produrre piante e altri elementi è del tutto naturale in un contesto simile e non ha bisogno di ulteriori spiegazioni: è solo una cosa che capita, un fenomeno forse non quotidiano ma quasi. L’interesse sta nella novità degli elementi nati dal cadavere: per questo le divinità che li trovano li conservano e li usano.
Qui possiamo vedere un’altra differenza rispetto al mito di Hainuwele. Il cadavere della fanciulla ha prodotto i tuberi e altre piante alimentari solo dopo essere stato fatto a pezzi e sepolto dal padre adottivo. I cadaveri delle divinità giapponesi hanno prodotto le piante senza bisogno che qualcuno interagisse con loro. In questo senso sono più simili a Pangu, il macrantropo primordiale che appare in un mito cosmogonico cinese e il cui cadavere si dissolve spontaneamente per dare origine alle varie parti che comporranno il mondo (sole, luna, vento, montagne, suolo e così via). Sono anche simili a quanto accade in un racconto del Bundahishn mazdaico, dove il Bue primigenio muore avvelenato da Angra Mainyu/Ahriman (capitolo 4), per poi generare svariati animali da allevamento, più svariati tipi di grano e di piante medicinali, quando il suo cadavere si dissolve spontaneamente (capitolo 10 e parte iniziale del capitolo 14). In una versione pre-mazdaica era forse Mithra a uccidere il bue, come tornerà a fare nelle raffigurazioni di epoca romana, ma questo è un discorso che ci porterebbe davvero troppo lontano.
In una posizione intermedia troviamo un mito raccontato dalla tribù dei Seneca, che un tempo risiedeva nella parte settentrionale dello stato di New York. Lo troviamo nella raccolta Seneca myths and folk tales, realizzata da Arthur C. Parker, dove ci è raccontata anche la creazione del mondo secondo quel popolo. Poco dopo la formazione del primo pezzo di terra, grazie a un pescatore primordiale, la prima donna caduta dal cielo genera una figlia, in apparenza per partenogenesi. Questa figlia sarà poi inseminata da uno spirito misterioso, un certo Gä´ha‘, e partorirà due gemelli: uno buono e uno cattivo, come da tradizione. Il figlio buono nasce nel modo normale, mentre quello cattivo preferisce uscire da un fianco della madre, sventrandola a morte. La madre scenderà così nel regno dei morti, tracciando il percorso che poi dovremo percorrere tutti, mentre il gemello buono seppellisce il cadavere e lo sorveglia per un poco.
Che succede adesso? Succede che la terra sopra la tomba della donna si ricopre prima di erba, poi di strani germogli che il figlio non riconosce. Nel punto dove si trovano i piedi della madre stanno crescendo le patate, da dove si trovano le dita stanno crescendo i fagioli, dal suo addome le zucche e dalla testa la pianta del tabacco. Suona familiare? Direi proprio di sì. Qui il cadavere della donna soprannaturale è stato sepolto, ma per il resto succede la stessa cosa che abbiamo visto in Giappone con la locale dea del cibo, incluso l’omicidio commesso da una persona, mentre la scoperta delle piante è dovuta a un altro individuo legato all’assassino: in un caso è il messaggero di Amaterasu, sorella di Tsukiyomi, mentre nell’altro è Kamimusubi, connesso a Izumo come Susanoo.
Tornando a parlare del mito del macrantropo primordiale, possiamo vedere anche che in altre mitologie questo essere gigante è fatto a pezzo da qualcuno, per poter poi costruire il mondo usando le varie parti del suo corpo: Marduk uccide Tiamat e costruisce il mondo usando il suo cadavere, Odino e i suoi fratelli uccidono Ymir e costruiscono il mondo usando il suo cadavere, i deva sacrificano Puruṣa e costruiscono il mondo usando i pezzi del suo cadavere, e così via. In Cina, invece, il macrantropo muore di morte naturale e il suo corpo si dissolve spontaneamente per formare il mondo. Le dee del cibo giapponesi non muoiono proprio di morte naturale, perché una divinità le uccide, ma il loro corpo genera spontaneamente i prodotti agricoli, senza bisogno che un altro personaggio lo faccia a pezzi e lo seppellisca.
Non è poi un caso, direi, l’identità delle divinità maschili che commettono l’omicidio. Tsukiyomi è il dio della luna e la luna è tipicamente connessa al ciclo della natura e della fertilità, al passaggio delle stagioni e all’acqua che feconda, alla morte e alla rinascita. Allo stesso modo, Susanoo è un dio tempestoso, monsonico, forse una delle ierofanie in cui meglio si combinano l’aspetto tremendum e l’aspetto fascinans: le tempeste possono portare danni e distruzione, soprattutto in un paese monsonico come il Giappone, soggetto a frequenti tifoni, ma portano anche la pioggia che feconda i campi e nutre le messi, grazie a cui la vita umana è possibile. È il dio delle tempeste a fecondare la terra e consentire la vita in numerose mitologie: che Susanoo porti assieme la morte della dea e la nascita delle sementi è perfettamente in linea col suo ruolo di uragano divino, che dapprima causa disastri nel regno celeste e poi diventa un dio benevolo quando si stabilisce sulla terra e si sposa, trasformandosi quasi un eroe civilizzatore.
Le divinità del cibo, in Giappone, sembrano dunque voler incarnare la natura fondamentalmente neutrale della terra, la sua inesauribile forza vitale e generatrice, che produce cibo per tutti, senza sosta e in qualunque modo sia trattata, senza curarsi di chi sia ad avere bisogno di nutrimento, senza giudicare e senza condannare. Le divinità del cielo possono incaricarsi di giudicare e condannare, di stabilire e far applicare le leggi. Amaterasu, dea del sole e signora di Takamagahara, può anche tagliare i legami col fratello Tsukiyomi per il crimine che ha commesso e rifiutarsi di dividere ancora con lui il cielo, se così decide, proprio come tutte le divinità celesti possono riunirsi in concilio e condannare Susanoo, esiliandolo dal cielo per i reati commessi contro l’ordine celeste e contro la sorella maggiore Amaterasu; la dea del cibo, però, li riceverà ugualmente come ospiti e offrirà loro da mangiare, senza domande. Anche da morta, continuerà a produrre cibo, senza biasimare o condannare chi l’ha uccisa, anche perché la sua morte non è definitiva. Tutto ciò che perde morendo è la personalità: la sua natura di dispensatrice di vita rimane invariata.
La dea del cibo porta cibo: lo porta da viva e da morta, in qualunque sua forma. Come Wakamusubi, produrrà senza sosta i cinque cereali dal proprio corpo; come sua figlia Toyouke, nelle cerimonie ancora officiate a Ise porterà ogni giorno ad Amaterasu tutto il cibo di cui la grande dea ha bisogno; come Inari, ogni anno scende dai monti a riempire di riso i campi dei giapponesi. E così via. Il suo volto è una manifestazione del sacro connessa all’agricoltura, alla capacità della terra di produrre senza sosta il cibo di cui i giapponesi hanno bisogno. Nonostante i maltrattamenti causati dalle attività agricole, la terra è generosa e continua a nutrire tutti, senza interrogarsi sul loro status, senza domande sulla loro purezza o impurità. La terra nutre e la dea del cibo, sua immagine, produce cibo. Questo è il suo compito, questa è la sua natura.
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NOTE
2 - Lo troviamo anche scritto Tsukuyomi, oppure Tsukiyumi, ma è sempre la stessa persona.
3 - Chiamata anche Takamanohara, è l’alta pianura del cielo, ossia il paese dove vivono gli dei celesti secondo la mitologia giapponese (una specie di Olimpo, insomma). È collegato al Giappone dallo Ame no Ukihashi, il ponte fluttuante del cielo.
4 - Ashihara no Kuni, oppure Ashihara no Nakatsukuni, è il nome con cui è indicato abitualmente il Giappone nei suoi miti.
5 - Probabilmente una nuvola, almeno secondo alcune interpretazioni, come quella di W. Aston, storico traduttore del Nihonshoki. Amekumabito significa letteralmente “uomo orso celeste”, ma kuma (orso) potrebbe anche essere una deformazione di kumo (nuvola), portando così al nome “uomo nuvola celeste”, che suona più normale per un messaggero inviato sulla terra dalla dea del sole. Potrebbe però trattarsi di un influsso della cultura ainu, popolo di etnia diversa che viveva nel Giappone settentrionale. Per gli ainu, gli orsi erano l’abito che gli spiriti divini più importanti indossavano per scendere nel mondo umano e interagire con gli ainu: queste discese si concludevano di solito con gli umani che si tenevano il corpo dell’orso e lo spirito divino che tornava nel suo mondo carico di doni. In questa prospettiva, un messaggero divino di nome Amekumabito, inteso come “uomo orso celeste”, avrebbe un suo senso. Considerato però che gli ainu o i loro antenati compaiono nel Nihonshoki sotto il nome collettivo di emishi nel ruolo dei barbari selvaggi che devono essere civilizzati da Yamato, sembrerebbe strano il ricorso a un loro concetto religioso all’interno di un mito ufficiale diffuso dalla corte imperiale, ma è comunque una ipotesi da esaminare.
6 - Esistono ipotesi, a cui fa riferimento Tsugita Uruu, di una origine coreana per la lista di elementi nati dal corpo di Ukemochi, perché la relazione tra la parte del corpo e il prodotto generato sarebbe basata su giochi di parole che hanno senso in coreano, ma non in giapponese.
7 - Il testo non lo specifica, ma possiamo ipotizzare che sia sempre Ashihara no (Nakatsu)kuni, ossia il Giappone, dato che era stato esiliato da Takamagahara e l’episodio successivo della sua storia si svolgerà proprio in Giappone.
8 - Inari è un dio, ma a volte è una dea. Usa le volpi come messaggeri, ma a volte è una volpe lui stesso (o lei stessa). Ogni anno scende dalle montagne e riempie i campi di riso. A volte si racconta che sia stato lui (o lei) a essere ucciso da Tsukiyomi, oppure da Susanoo, perché disgustati dalla sua ospitalità. I cereali potrebbero essere spuntati dal suo cadavere, oppure da quello di un’altra dea. I confini non sono molto chiari quando si parla delle divinità che soprintendono all’agricoltura e ai cereali, come potreste avere già capito.
9 - Secondo la tradizione, Amaterasu in persona sarebbe apparsa in sogno a un imperatore suo discendente, per chiedergli di erigere un altare a Toyoume proprio accanto al suo, così da poter ricevere quotidianamente tutto il cibo di cui aveva bisogno. In pratica avrebbe chiesto all’imperatore di allestirle un servizio di catering divino. Per i dettagli rimando al Nihonshoki, dove si possono trovare diverse storie di divinità che appaiono in sogno per commissionare qualcosa. Per quanto riguarda i rapporti di Amaterasu con Ise e le origini del suo grande santuario, potreste essere interessati a “The Origins of the Grand Shrine of Ise and the Cult of the Sun Goddess Amaterasu Ōmikami” di Akima Toshio, pubblicato in Japan Review, n. 4 (1993), pagg. 141-198.
10 - Assieme ad Ame no Minakanushi no Mikoto e a Takamimumubi, Kamimusubi era una delle prime tre divinità ad apparire all’inizio del tempo. Nessuna di loro ha avuto un qualche ruolo nella cosmogonia, ma i due “musubi” ogni tanto appaiono nei miti successivi, spesso nel ruolo di grandi saggi: Takamimusubi è collegato ad Amaterasu e al territorio di Yamato, mentre Kamimusubi è legato al territorio di Izumo e alle sue divinità. A volte Kamimusubi è considerato di sesso femminile e sposata con Takamimusubi.
11 - Mi riferisco a Matsumura Takeo e alla sua opera Nihon shinwa no kenkyū (Studi sulla mitologia giapponese), nello specifico al terzo volume.
12 - Il riferimento è a Tsuda Sōkichi e alla sua opera, Nihon koten no kenkyū (Studi sulle antichità classiche giapponesi).
13 - Quello del bambino magico nato da una pianta o da un frutto è un mito comune a svariate culture, inclusa quella giapponese, dove troviamo per esempio le figure di Kaguyahime, nata da una canna di bambù, e Momotarō, nato da una grossa pesca, giusto per citare i due personaggi più famosi, ma ce ne sarebbero molti altri in fiabe di vario tipo.
14 - Questo lo troviamo nella versione raccontata nel Dizionario dei miti e in altri testi che hanno ripreso questo mito, accostandolo anche al sacrificio del maiale in onore di Demetra e Persefone.
15 - Un’altra variante specifica che Haniyamahime sarebbe nata dagli escrementi di Izanami moribonda, mentre Mizuhanome dalla sua urina. Tanto per restare in tema di cose sporche e impure, insomma. Il norito recitato nel corso dello Hishizume no matsuri, la cerimonia per la pacificazione del fuoco, ci racconta invece che queste due divinità sarebbero state partorite da Izanami per controllare e sottomettere il fuoco, nel caso avesse causato problemi.
16 - Secondo altre versioni si chiama invece Wakumusubi, è maschio ed è nato direttamente dall’urina versata da una Izanami moribonda. Sua figlia è Toyouke, la già citata dea dell’agricoltura tuttora venerata nel grande santuario di Ise, figura in cui finiscono per confluire più o meno tutte le altre divinità collegate al cibo che abbiamo visto finora. Una vale l’altra, a un certo punto.
17 - Sorvolando sul fatto che in un episodio precedente ci viene esplicitamente detto che Amaterasu possedeva già risaie e il loro danneggiamento è proprio uno dei grandi crimini commessi da Susanoo nella sua “guerra” contro la sorella maggiore. Nella versione del Kojiki, dunque, il riso era già presente in scena prima che spuntasse (in teoria per la prima volta) dal cadavere di Ōgetsuhime. Possiamo considerarla una normale incongruenza, un incidente di percorso che si verifica facilmente quando si cerca di cucire assieme storie di origine diversa per ricavarne una narrazione unica e coerente. Nel Nihonshoki, di contro, Amaterasu affiderà i semi al nipote Ninigi, prima di inviarlo sulla terra: sarà così il capostipite della famiglia imperiale a diffondere materialmente l’agricoltura in Giappone, almeno secondo una delle varianti della storia, come una sorta di Trittolemo nipponico.
18 - Le abluzioni purificatrici di Izanagi di ritorno dal regno dei morti hanno prodotto Amaterasu, Tsukiyomi e Susanoo, per esempio, mentre altre divinità sono nate dai vestiti che ha gettato via perché sporchi e impuri, altre ancora sono nate dai suoi sputi e insomma il povero Izanagi non poteva muoversi senza generare una qualche divinità, pur essendo appena rimasto vedovo. La dura vita di un demiurgo.