Orizzonti di plastica
Prologo
Il treno in ritardo. Giusto per finire in bellezza la giornata.
Fedele Innocenti sbuffò, si mosse un poco sul sedile, poi riprese a fissare il vuoto, con attenzione. I vicini lo guardarono per un attimo, prima di tornare a farsi i fatti propri. La voce meccanica si era spenta nel vagone, dopo l'annuncio di una breve sosta per problemi sulla linea; adesso dominavano di nuovo i suoni vivaci e chiassosi, che riempivano gli schermi televisivi. Pubblicità, brevi notizie varie in falso dialetto locale, canzoni perlopiù in inglese, tutto per allietare il viaggio dei passeggeri clienti, ci scusiamo per il disagio.
Fedele Innocenti non era allietato per niente. Rientrava da una giornata d'ufficio più stressante del solito e aveva solo voglia di affondare in poltrona, aspettando la cena, e poi affondarvi di nuovo per il resto della serata, davanti alla tv. Invece era tappato in un vagone scomodo, con un ciccione che gli piantava un gomito nel bicipite sinistro e che aveva l'aroma di un cassonetto in agosto e chissà quando sarebbe arrivato a casa, se il treno non si dava una mossa.
In azienda, quel mattino, c'era stato il classico clima pesante, che precede l'estate. Gente di fretta, impegnata a concludere alla meglio questo o quel programma, prima delle ferie, e poca voglia pure di scherzare, nelle pause caffè. Anche le solite battute sul segretario Tombini erano state fiacche, un dovere più che un piacere, come i racconti dell'ingegnere Sala: puro rito, per rispettare le abitudini sacre dell'ufficio e niente altro. Mancavano di vita.
Brutta storia! Sperava passasse in fretta, quel periodo, per tornare così ai ritmi abituali e al clima di sempre. Intanto, gli toccava spezzarsi le ossa in un comodo ufficio climatizzato, al ventesimo piano.
Anche per Ambrogio Makhlouf era stato un giorno duro e faticoso. Da quando l'avevano licenziato, una settimana prima, passava tutto il tempo a girare per la città, alla ricerca di un lavoro qualunque. Non trovava nulla. Lavoro non c'era o forse non c'era per lui, che aveva ereditato dal padre la tinta troppo abbronzata per quelle zone: il risultato era lo stesso e i loro risparmi se ne andavano a goccia a goccia, come una tubatura bucata in attesa dell'idraulico.
Così quel martedì mattina aveva indossato l'abito migliore, salutato la moglie con un sorriso e il più rassicurante dei «vedrai che oggi sistemo tutto», aveva dato un bacio all'unico figlio che la legge gli consentiva come immigrato di seconda generazione, per poi percorrere la città in un ultimo, ostinato tentativo. Fallendo. Verso il tardo pomeriggio, distrutto, aveva raggiunto una stazione a caso e si era buttato sotto il treno. Il caso aveva voluto che fosse proprio quello su cui viaggiava Fedele.
Da qui il malaugurato problema sulla linea, con annesso ritardo.
Fedele Innocenti sapeva solo che il treno era fermo, la musica era alta, il vicino era puzzolente e che di lì a poco avrebbe cominciato a scrivere “il mattino ha l'oro in bocca” sulle pareti del vagone. E il resto sarebbe venuto di conseguenza. Fu così un grande sollievo, quando gli operai terminarono la rimozione del corpo e la metropolitana poté ripartire.
La sua fermata arrivò mentre lo schermo davanti a lui parlava di un grave attentato a un'ambasciata in un paese asiatico, il Nonsodovistan o giù di lì, nella pausa tra una canzone e l'altra. Problemi loro. Con sollievo, percorse qualche centinaio di metri di tunnel pedonale, che separava la stazione dal condominio, fra rose celtiche e manifesti pubblicitari sulle pareti, infine uscì a riveder le stelle.
Le stelle non si vedevano ancora, perché erano le sette del pomeriggio ed era giugno, ma il cielo sì, qualche afoso brandello bianco tra palazzi e cupole. Lo salutò con un sorriso stanco, asciugandosi il sudore dalla fronte. Lì all'aperto bastavano due secondi per sudare: che schifo di clima! C'era solo da sperare che facessero in fretta a chiudere i tratti scoperti anche nel suo quartiere, come già nelle altre zone della città. Ci avrebbe guadagnato la salute di tutti.
Nell'atrio trovò il vicino, Luca Tarca, sempre impresentabile in un classico abbigliamento modello straccione. Jeans lisi e sformati, una maglietta a mezze maniche bianca, capelli corti che forse non vedevano un pettine dai tempi della guerra in Afghanistan o giù di lì. Non migliorava l'estetica del condominio, ma ormai erano abituati. L'atrio doveva piacergli molto, con tutto il tempo che ci passava. Fedele salutò con un cenno di mano, chiedendosi senza interesse che tipo di lavoro facesse, quel tizio. Probabilmente nessuno, a occhio e croce. Buon per lui.
Un breve tragitto in ascensore ed ecco la porta blindata dell'appartamento al terzo piano, col suo bel crocifisso in vista. Si rasserenò. Entrò e l'accolse il profumo dell'arrosto. L'umore migliorò ancora. Quando spuntò Eva, la moglie, ormai si sentiva in pace col mondo e ben disposto verso il prossimo, almeno per l'immediato futuro. Un getto di acqua fredda affogò le ultime scorie di lavoro, prima di abbandonarsi ai piaceri domestici.
Parlottarono del più e del meno, durante la cena. Eva gli spiegava cosa sarebbe servito per la casa, Fedele annuiva e intanto guardava la tv. «Sì» «Certo» «Direi» «Ci penseremo» con l'interesse di chi sta seguendo una lezione di meccanica quantistica, ha appena pranzato con polenta e peperonata e si chiede quando arriverà la modella per il corso di nudo artistico nell'aula accanto.
Dopo la quinta domanda, Eva capì l'antifona e lasciò perdere. Andava sempre così, quando tornava dal lavoro. Guardò svogliata la tv, mentre finiva di mangiare, e intanto pensava ai fatti propri e a ciò che aveva in programma per l'indomani. Troppe cose.
Il notiziario passò in fretta, tra una canzoncina e uno stacchetto (dio, come odiava quei diminutivi!). In Italia tutto procedeva bene, come sempre, all'estero ne succedeva ogni giorno una. Fedele si trasferì in poltrona, scuotendo la testa, e si preparò ad affondare come programmato, consegnandosi allo schermo. Eva intanto sparecchiava, spazzava e riempiva la lavastoviglie. Concluso il solito lavoro da dopocena, si ritirò in camera, per dedicarsi a qualsiasi cosa facesse di solito là dentro.
Fedele Innocenti, intanto, seguiva con volto da pecora la nuova fiction sull'eroe lombardo dei nostri tempi, tra una pubblicità e l'altra. A metà strada tra i quaranta e i cinquanta, conservava ancora una traccia di ciò che era stato in gioventù, ma la dimenticava spesso nell'armadio. Capelli castano e in via di estinzione, lieve pancetta da mezza età, piuttosto alto anche se nessuno lo notava mai, per il vizio di stare curvo e aggobbito. In una stanza, Fedele aveva la presenza di un pesce rosso nella boccia di vetro. Nessuno lo guardava due volte, neppure in azienda. Ma lì, spesso, era un errore.
Di tanto in tanto, controllava lo schermo del cellulare. In realtà non era più un cellulare, con tutte le funzioni che ormai avevano aggiunto a quegli affari, ma lui continuava a chiamarlo cellulare, come vent'anni prima. Nessuna novità. Così, a poco a poco, il cervello si abbandonò alla dolce sirena del sonno, mentre davanti agli occhi gli scorrevano volti e scene dell'eroe dei nostri tempi.
In camera, Eva Bianchi si proteggeva dal volume del televisore, dietro le pareti insonorizzate che la avvolgevano. Leggeva. Una volta leggeva spesso anche Fedele, suo marito, ma una volta era anche una persona molto più attiva. Adesso sembrava una pianta grassa, tutto lavoro e tv. Erano sposati da dieci anni, ma a volte pesavano come cento. Forse suo padre non aveva avuto tutti i torti, ma ormai era andata così e non rimpiangeva nulla. I rimpianti non erano fatti per lei.
Altezza media, peso medio, capelli di lunghezza media, castano con riflessi ramati, bellezza media che rivelava i primi segni dell'età, senza esserne guastata. E voleva ben vedere, dopotutto! Ancora le mancava un poco, prima di toccare i quaranta, e non aveva alcuna fretta di invecchiare. E poi, con tutta l'attività che faceva, si manteneva bene in forma, lei. Non come Fedele.
Si strinse nelle spalle, storcendo le labbra. Lo avrebbe preferito più presente, ma almeno non era un rompiscatole e le lasciava i suoi spazi. Pure troppi, in effetti. Guardandosi allo specchio, si chiese se la sua media assoluta fosse causa o effetto della vita che faceva. Non l'avrebbe mai saputo, per cui era inutile perderci tempo. C'erano cose più importanti.
Con un ultimo sospiro, tornò alla lettura del manuale di botanica.
Nella poltrona del salotto, ormai sformata da otto anni di uso ininterrotto e modellata attorno al suo corpo, Fedele Innocenti salutava l'eroe lombardo e il suo martedì stressante, per smarrirsi felice nelle braccia del sonno, davanti alla tv che parlava e parlava. Il giorno dopo si sarebbe compiuto il suo destino, ma lui non lo sapeva ed era meglio così. Ci sono cose che è meglio non sapere, prima.
In un'altra zona della città, la moglie di Makhlouf aspettava ancora il ritorno del marito, che non sarebbe tornato mai e che adesso riposava in un magazzino della metropolitana, pronto per essere smaltito assieme al resto delle scorie di giornata. E anche questo non l'avrebbe mai saputo.