Orizzonti di plastica
Capitolo secondo
L’amministratore delegato Fabrizio Storti si stimava un uomo gioviale. Amava ridere delle battute e amava deridere gli altri; amava soprattutto che gli altri ridessero delle sue battute, anche quando li derideva. Siccome lui era l’amministratore delegato, i dipendenti ridevano sempre e questo gli dava gran soddisfazione. Sapeva di essere il migliore, in azienda.
Aveva circa ottant’anni, anche se la sua età precisa si sarebbe potuta determinare soltanto col C-14, capelli sparuti e biondicci e fondotinta a volontà , a coprire i segni del tempo e dei lifting; col fisico basso e tozzo, non spiccava particolarmente, ma i vestiti erano un faro nella nebbia. Alla lettera. In ufficio, come per strada, era impossibile non notarlo. Che tutti si girassero a guardarlo era un’altra delle cose che gli davano gran soddisfazione. Era un arbiter elegantiarum, come amava definirsi con sobrietà e modestia. Ma i suoi meriti in azienda non si esaurivano qui.
Ai tempi dell’Expo, quando era consigliere, la sua corrente si era assicurata l’egemonia: aveva fatto sparire gli avversari e si era aggiudicata pesanti contributi statali per le attività che aveva promosso nell’area milanese, a sostegno dell’evento. Un autentico prodigio di creatività finanziaria ed eccelso arruffianamento, che lo aveva proiettato ai vertici societari. La carica di amministratore delegato era giunta solo quattro anni dopo, in effetti, ma era un pro forma: l’azienda era lui.
Era in effetti anche molte altre cose, Fabrizio Storti, buona parte delle quali compariva nel vecchio codice penale ed era trattata in diversi articoli, ma al giorno d’oggi nessuno si preoccupava più di dettagli vetusti. Con lui, tutto funzionava; il resto erano malelingue invidiose, fabbriche d’odio.
Era anche il capo di Fedele Innocenti, tra l’altro, ed era il sommo responsabile della sua promozione, sette anni prima. Quel ragazzo gli si era reso utile e l’amministratore ricompensava sempre chi gli si rendeva utile, almeno finché la sua utilità durava. Per questo amava considerare il giovane Fedele come una specie di protetto, o il figlio che non ricordava di aver avuto. Lo considerava anche una nullità molluscosa, incapace di opporsi a un ordine, e questo lo rendeva un servo prezioso: era il suo personale pozzo nero, in cui riversava ogni sorta di liquame della vita. Quell’Innocenti non avrebbe mai avuto né il cervello né le palle, per mordere la mano che lo nutriva.
Quel giovedì dodici giugno, la nullità molluscosa entrò a testa bassa nell’ufficio dell’amministratore, dopo aver atteso per una mezz’ora in anticamera, sotto gli occhi infastiditi della segretaria. Per un po’, aveva temuto che il superiore se ne fosse dimenticato, ma alla fine era giunta la chiamata, che lo aveva precipitato dalla preoccupazione all’angoscia. Ritrovarsi da soli con l’amministratore, per uno qualunque dei dipendenti, era come fare jogging con un flacone di nitroglicerina in mano.
Aprendo la porta dell’ufficio, una cosa lo colpiva sempre, prima di tutto il resto. Non era la folta moquette, non erano le piante ornamentali, non era neppure la scrivania che sembrava trafugata da un obitorio a notte fonda e decorata con qualche pezzo di legno pregiato. Neppure l’amministratore stesso lo colpiva, anche se i suoi vestiti chiassosi erano sempre un bel calcio nello stomaco. Ciò che lo colpiva davvero, e gli strappava un brivido, era la temperatura della stanza.
Sembrava fatta apposta per mettere a proprio agio qualunque creatura provenisse da Plutone.
Fedele si era chiesto, talvolta, se quel freddo glaciale fosse necessario per conservare intatto il corpo mummificato dell’amministratore Storti, e in effetti il vago odore di incenso poteva suggerire anche uno scopo di questo tipo; più probabilmente, però, era solo una delle innumerevoli manie insensate che quell’uomo si divertiva a imporre agli altri. Sospirò, stringendosi nelle spalle.
«Oh, benvenuto Innocenti! Sempre a farti attendere, eh?»
Fedele sorrise, chinò ancora di più la testa e bofonchiò una scusa qualunque, sorvolando sul fatto che era stato proprio Storti a lasciarlo marinare in anticamera per più di mezz’ora. Lo conosceva da anni e sapeva come comportarsi in questi casi: bastava dargli ragione, sempre.
«Lascia perdere, che non mi interessa» tagliò corto Storti. «Accomodati lì, che dobbiamo parlare!»
Fedele osservò il punto indicato, vide che non c’erano sedie e adattò il corpo a una posizione che si poteva definire un blando riposo, in termini militari. Aspettava che l’amministratore parlasse.
L’amministratore non parlò. Trafficò coi fogli sulla scrivania, lanciò uno sguardo sospettoso allo schermo del computer, aggrottò la fronte, borbottò tra i denti e poi sbuffò. Fedele intanto fletteva un poco le gambe, per prepararsi a una ritirata precipitosa. Tirava una brutta aria lì dentro, e non solo per la temperatura: meglio non farsi sorprendere da un uragano, in alto mare.
L’uragano non arrivò. Con qualche altra ricerca, l’amministratore sembrò ricordare qualcosa e alzò la testa verso il suo sottoposto, che aveva dimenticato durante gli ultimi due o tre minuti.
«Dicevamo» riprese, come se niente fosse. «C’è un problema da queste parti e credo che te sei il più adatto per risolverlo. Se non lo risolverai, puoi cercarti un altro lavoro. Capito?»
«Ah...» rispose Fedele, sentendosi impallidire e sudare nonostante il gelo.
«Scherzavo, scherzavo» disse Storti, aprendosi in un sorriso cadaverico. «Sei sempre così serio, te! Ogni tanto la gente scherza, non lo sai mica?» Il suo accento di maniera peggiorava ogni giorno.
«Già , scusi. È un periodo un po’...»
«Ma sì, ma sì, chissenefrega. Passiamo alle cose serie. C’è un problema e ci penserai te, capito?»
«Ah... sì, d’accordo. Ma che tipo di problema?»
Fedele stava ritornando di un colore vivo, a poco a poco, ma non era sicuro che l’amministratore scherzasse davvero. Non si poteva mai dire, con lui. In ogni caso, era meglio fingere di credergli e dargli ragione: si rischiava di meno.
«Ventiduesimo piano, architetto... Madrigali? No, aspetta...» Storti corrugò la fronte, setacciando di nuovo le cartacce che aveva davanti. «Com’è che si chiama quel pirla, adesso...»
«Manovali?» suggerì Fedele, raccogliendo tutto il suo coraggio con un cucchiaino da caffè. Se tra le mani avesse avuto qualcosa, adesso lo avrebbe già ridotto in poltiglia, a forza di torcerle dietro la schiena. Ma non aveva nulla, così si torceva le dita e basta. Sudavano parecchio.
L’amministratore lo fissò. «Manovali, sì. Architetto Manovali. Che nome da pistola che ha... Non è che me lo conosci, nè? Che poi gli vai a dire qualcosa?»
«No, no, si figuri» rispose subito Innocenti, con tono e mimica da zerbino. Si faceva molto schifo da solo, per questo, ma dopotutto era l’istinto di sopravvivenza a comandare, in quei momenti. «Lo vediamo ogni tanto in sala caffè, lui e i suoi colleghi, ma non gli ho mai parlato di persona. Solo che è in ufficio con l’architetto Graziani, vede, e così non è che lo possiamo...»
«Lo so, lo so com’è» lo interruppe Storti. «Ed è proprio questo il problema, nè. Che se il Graziani senior mi viene a sapere cosa fanno i colleghi del figlio, non va mica bene.»
«Ha fatto qualcosa di... sbagliato, l’architetto Manovali?»
«Questo me lo devi dire te, pistola! Se no, perché ti avrei chiamato qui, eh? Mica per vedere la tua faccia, che non è neanche bella. Ma sono arrivate brutte voci sul Manovali e voglio sapere se sono solo voci, o se c’è anche di peggio. E tu me lo dirai. Al più presto.» Sottolineò la sua affermazione, battendo un pugnetto grassoccio sulla scrivania. I fogli si mossero appena.
«Capisco» rispose Fedele, chinando la testa. «Ma che genere di voci?»
«Voci. Pensaci tu.»
«Ah.» Mangiò la foglia. Brutto affare che gli aveva rifilato, l’amministratore... e poi non era quello il suo campo di azione. D’accordo, in effetti il primo balzo di carriera lo aveva fatto proprio con una delazione ai danni di un sottoposto, ma la spia non era un lavoro che gli piacesse. Meno ancora, se c’era da fare l’investigatore privato. O l’inventore. Ma non aveva alternative.
«E adesso vai, che è meglio! Se quel Madrigali mi fa il verme in azienda, lo sistemo io. Te pensa a scoprirlo, che poi vedi te che bella fine che mi fa, quello lì.»
Fedele avrebbe preferito non vedere e non sapere, ma questo era un altro paio di maniche. Chinando per l’ennesima volta la testa, salutò con molto rispetto il suo superiore e strisciò fuori dall’ufficio, tornando alle temperature basse ma accettabili del resto del palazzo.
Brutta storia davvero.
Scendendo in ascensore, solo, Fedele Innocenti ripensò al poco che sapeva sul conto di Manovali, la sua vittima designata. Era architetto, si chiamava Ettore Manovali, forse sulla quarantina o giù di lì, abbastanza atletico e spesso abbronzato. Lavorava al ventiduesimo piano assieme ai colleghi. Stop. Neanche sapeva se fosse sposato, avesse parenti o un qualche tipo di famiglia. E lui doveva scoprire in fretta se le voci sul suo conto fossero vere? Proprio lui, Fedele Innocenti? Ma se neppure le aveva sentite, quelle voci! Bel bidone che gli aveva mollato, il capo...
Chiuse gli occhi e gemette sconsolato, con un principio di gastrite in corso. Beh, doveva inventarsi qualcosa, punto. Non avrebbe avuto un colpo di fortuna, come gli era successo con Annibale Rossi, sette anni prima, ma qualcosa se lo sarebbe inventato. Doveva inventarselo. Era una partita dura, ma era anche una partita con molto in palio. Una promozione, magari; un altro passo verso la libertà .
Sì, si sarebbe inventato qualcosa.
Anche per Andrea Sperelli la partita era molto dura. Non si sarebbe giocato promozioni, ricompense, nuove esenzioni fiscali o altro, ma la partita era dura lo stesso. Quel giorno si era svegliato presto e di malavoglia, in una stanza già afosa alle sei; aveva guardato dalla finestra, vedendo solo il muro crepato e sporco del palazzo di fronte, poi si era preparato a un nuovo turno in cantiere.
Sua madre lo aveva salutato, consegnandogli il solito sacchetto coi panini. Da due anni ormai non si faceva più la pausa pranzo, al lavoro, ma lei continuava a prepararli lo stesso. Andrea li mangiava in fretta, quando aveva un momento libero e nessuno lo controllava. Lo avevano beccato già una volta, col panino in mano, e gli era costato un giorno di paga. Avrebbe preferito non fare il bis.
Avremo pur diritto di mangiare, anche noi!, aveva esclamato tra sé, mentre chinava la testa in segno di scuse. Era stato uno dei momenti più umilianti della sua vita; l’unica consolazione era che non lo avrebbe saputo nessuno, a parte i colleghi di sventura. E loro non lo raccontavano di sicuro.
Così, quel giovedì dodici giugno, Andrea Sperelli era arrivato in cantiere poco dopo le sette, aveva salutato gli altri e si era messo al lavoro sul ponteggio che spettava al suo gruppo. Non era proprio un ponteggio rassicurante, né realizzato a regola d’arte: era però a norma di legge e questo bastava. E pazienza se te lo sentivi traballare sotto i piedi, a ogni colpo di vento. Con l’entusiasmo tipico di un moribondo, aveva cominciato a lavorare, assieme ai colleghi, in gran parte stranieri.
Poco dopo le due del pomeriggio, il ponteggio traballò per l’ultima volta.
Andrea aveva appena finito un panino, all’ombra di due muratori collaborazionisti, che lo coprivano come lui copriva loro. In testa gli ronzava ancora la notizia che aveva sentito in treno, la mattina, e che lo aveva colpito molto. Parlavano di un incidente diplomatico tra Stati Uniti e il blocco asiatico, guidato da Cina e India, ma non era chiaro cosa fosse successo. Non era mai chiaro, ai notiziari. Lui però si sentiva preoccupato, perché non gli sembrava una notizia secondaria.
Poi qualcosa cedette e tutto diventò secondario.
Il fischio finale venne per lui quando toccò terra, ventisei metri più in basso. Ebbe giusto il tempo di vedere assi e sbarre arrugginite che precipitavano verso di lui, sentire le voci di altre persone, poi la sua partita finì. Era stata molto dura e aveva perso. Succede spesso così.
Morirono altri sette muratori assieme a lui, per il cedimento del ponteggio. Ma le assicurazioni, di lì a poco, avrebbero certificato che era stato solo un malaugurato incidente, una fatalità : non era colpa di nessuno, cose che capitano. E nessuno se ne curò più, in cantiere.
Anche Luca Tarca aveva sentito la notizia dell’incidente diplomatico, che tanto aveva preoccupato il fu Andrea Sperelli. Più precisamente, l’aveva letta sullo schermo del computer e l’aveva letta già la notte precedente. Era in inglese, ma l’inglese non gli dava problemi. Era anche più completa e più chiara di quella sentita da Sperelli, e anche questo era normale. Da molti anni Tarca non seguiva più i notiziari italiani, e non se n’era mai pentito: erano tutti una perdita di tempo, dicevano soltanto ciò che volevi sentirti dire, che l’Italia era il migliore dei mondi possibili e il resto silenzio.
C’erano modi più affidabili per sapere le cose.
Il modo che preferiva lui aveva uno schermo piatto e una tastiera. In effetti, avrebbe anche potuto fare a meno della tastiera, ma ci era affezionato e poi i modelli touchscreen non lo avrebbero mai convinto: era un purista della vecchia scuola e la sola idea di appoggiare un dito sullo schermo gli metteva i brividi. Forse lo avrebbe accettato coi guanti in lattice, ma mai e poi mai una mano nuda, sporca e sudaticcia, premuta su un prezioso schermo di computer. Roba da visigoti informatici, unni dello hardware! Così, per lui tastiera e basta.
La notte tra mercoledì e giovedì, chiuso nella sua cameretta, Luca Tarca aveva fatto le ore piccole a seguire aggiornamenti da ogni dove, sulla crisi in atto tra le due superpotenze economiche. Aveva seguito con preoccupazione rassegnata il silenzio totale che regnava in Italia, dove nessuno sapeva che Stati Uniti e Cina/India avessero qualche problema. Erano brutti tempi, ma erano i suoi tempi.
Col suo inglese scolastico, Tarca aveva chiesto e ricevuto dettagli dai suoi conoscenti sparsi un po’ in tutto il mondo, che non aveva e non avrebbe mai visto, ma che con lui frequentavano gli stessi spazi di discussione in Rete. Erano affidabili, tanto quanto possono esserlo conoscenze virtuali, ed erano stranieri, il che li rendeva comunque diversi livelli più affidabili di qualsiasi fonte italiana. O almeno, così la pensava lui, non a torto.
Aveva seguito distratto i rumori del resto dell’appartamento, che gli descrivevano come procedesse la serata per i genitori, ormai più che settantenni. Notiziario dopo la cena, consumata come sempre alle sette in punto davanti a un gioco a premi, poi un altro gioco a premi con musica e pubblicità a volume alto, quindi una qualche fiction informativa su argomenti ad usum delphini. Le loro pareti interne non erano insonorizzate e così anche Tarca aveva dovuto sentirne i riflessi, purtroppo.
Poi, verso le undici, il silenzio. Erano andati a dormire.
Tarca aveva cercato altri aggiornamenti sull’incidente diplomatico, ma non aveva trovato molto: era presto, forse, doveva aspettare il mattino dopo. Per adesso, sembrava la solita sceneggiata: quindici turisti cinesi erano stati arrestati a Tucson, in Arizona, con l’accusa di spionaggio e contrabbando di merci limitate. Cosa fossero le merci limitate e cosa ci facessero turisti cinesi a Tucson, però, erano punti ancora oscuri della faccenda. Era chiara invece la reazione di Pechino: liberazione immediata. Washington aveva risposto picche e Nuova Delhi aveva appoggiato l’alleato di oltre Himalaya, con tutto il peso della sua diplomazia ed economia. E lì cominciavano i casini.
Tarca non aveva idea di come si sarebbe conclusa, ma non gli piaceva per niente. Poteva solo stare a vedere e aspettare. Così, mercoledì notte se n’era andato a dormire e il giorno dopo, all’alba, era già appiccicato al fedele computer, in cerca di novità . Non ce n’erano. Due piani sotto, più o meno nello stesso momento, Fedele Innocenti scendeva in ascensore con lo spirito di un agnello a Pasqua e il pensiero dell’appuntamento con l’amministratore che lo tormentava.
A metà mattina, Tarca fece una pausa. Nessuna notizia, neanche sui canali riservati o nel sottobosco delle micronotizie in Rete. Ed era una pena navigare attraverso tutti i filtri governativi italiani: una vita per aprire qualsiasi pagina, che non fosse inutile ciarpame. Peggiorava ogni giorno, sembrava di essere tornati quasi ai tempi del modem a 56k.
Uscì a prendere una boccata d’aria condizionata e nell’atrio del condominio, di ritorno dalla spesa, incrociò Eva Bianchi, con due borse di stoffa in mano. Tarca sorrise: la solita maniaca, nemica della plastica in ogni sua forma. Non era cambiata per niente, negli anni. A parte la pettinatura e il taglio dei vestiti, e magari qualche lieve segno dell’età , poteva essere appena uscita dal liceo.
«Buongiorno» le disse. «Com’è andata la caccia al bisonte?»
Eva lo guardò storto, poi sorrise a sua volta. «Poca roba oggi. La selvaggina scarseggia, ormai.» Si fermò davanti alla porta dell’ascensore, la fissò come avrebbe fissato uno scarafaggio di tre chili e posò le borse a terra. «Mi toccherà prendere questa trappola, adesso.» sbuffò.
«Vuoi che ti aiuti io, così facciamo le scale?» le chiese Tarca, con un sorrisetto ironico.
Eva lo squadrò, alzando un sopracciglio. Alto alto e secco secco, era un lampione con maglietta a mezze maniche stropicciata e i pantaloni di una tuta. Oppure una scopa, soprattutto coi capelli che si ritrovava; una scopa vecchia e sfilacciata. Non proprio un uomo di fatica.
«Lascia stare, mi arrangio io» gli rispose sorridendo. «Se no finisce che ti operano all’ernia, se fai troppi sforzi. Sei un po’ fuori forma, se non l’hai notato...»
Tarca allargò le braccia magre. «Ebbene sì, lo ammetto. Dicevo solo per essere gentile.»
Risero. Eva Bianchi infilò l’ascensore, con la faccia di un bambino che deve assumere una medicina, e Luca Tarca rimase a prendere la sua boccata d’aria condizionata nell’atrio. Non aveva mai capito perché avesse sposato proprio un tipo come Innocenti, quella donna, ma evidentemente piaceva a lei. Mah, stranezze del mondo. Si strinse nelle spalle e rimase a fissare il pavimento.
Cancellò con fastidio l’ennesimo sollecito a votare per la nuova legge, che come al solito gli era arrivato sul cellulare. Anche Tarca era tra quelli che continuavano a chiamarlo cellulare, anche se ormai era una specie di coltellino svizzero e le telefonate erano l’ultima delle cose che ci potevi fare. L’abitudine però è una brutta bestia e non te ne liberi mai. Un po’ come non si sarebbe mai liberato dei solleciti al voto, che riceveva a decine per ogni nuova legge.
Li odiava. Piuttosto che votare per quelle porcate che sfornavano a getto continuo, Tarca si sarebbe tagliato volentieri entrambe le mani. Avrebbe votato semmai per abrogarle, ma non certo per la loro approvazione. Una volta era compito del Parlamento proporre, discutere e approvare leggi; adesso invece apparivano come per magia e venivano spedite in testi lunghi e contorti, illeggibili, a tutti i cittadini, perché le approvassero col televoto. Ridicolo! Fra l’altro, Tarca era quasi sicuro che, tra le quindici leggi sulla privacy, ce ne fosse almeno una che vietasse l’uso dei numeri telefonici senza il consenso dei diretti interessati e lui non aveva mai dato il consenso a ricevere messaggi dal governo, regionale o meno. Però li riceveva lo stesso, perché in Italia funzionava così.
Concluse la pausa più infastidito che riposato. Risalì adagio le dieci rampe di scale che lo portavano all’appartamento dei genitori (e anche suo), sbuffò per la stanchezza, infine tornò a dedicarsi al suo passatempo preferito: fermentare davanti al computer, lamentandosi da solo dei mali del mondo.
Eva Bianchi, intanto, aveva scaricato la spesa e si era cambiata. Quel giovedì non era di turno, non aveva altri giri da fare in città , così si era infilata una tuta larga e comoda, aveva legato i capelli in una crocchia che la faceva sembrare un’insegnante di matematica cinquantenne del secolo scorso e si era rintanata nella sua stanza privata.
Mentre faceva spazio e preparava in perfetto ordine maniacale gli strumenti, si concesse due distinti pensieri, uno per Tarca e uno per Fedele.
Suo marito le era parso piuttosto preoccupato, quando era uscito quella mattina. D’accordo, da un certo punto di vista pareva sempre preoccupato, come se tutto il mondo gli si fosse infilato nell’ano, ma stavolta lo era più del solito. Lei aveva anche fatto un tentativo di parlare, a colazione, ma come ogni mattina si era infranto contro il nulla che riceveva in risposta. Non vedo, non sento e non parlo; e tu non chiedere. Questo il messaggio di Fedele. Eva aveva esposto bandiera bianca.
Probabilmente il vecchio porco gli ha rifilato un nuovo incarico schifoso, pensò, mostrando di saper prevedere il futuro. In realtà , l’incarico schifoso lo avrebbe ricevuto solo verso le tre di quel pomeriggio, ma Fedele se lo aspettava già dal giorno prima. Di conseguenza, non ne era felice.
A Eva sarebbe piaciuto che ogni tanto parlasse con lei, anche del lavoro e dei problemi che poteva avere. Lo avrebbe aiutato volentieri. Invece nulla, tutto era coperto dal segreto di stato: di tutto ciò che succedeva nella sua azienda, Fedele non parlava mai, neppure sotto tortura. Che testone! Ma era il testone che aveva scelto lei e se lo teneva così.
Luca Tarca, invece, era un’altra storia. Si conoscevano da tempo ed era stata una sorpresa trovarselo lì, due piani sopra di loro, quando si erano trasferiti in quel condominio, cinque anni prima. Non era stata una sorpresa vedere che aveva proseguito per la sua strada, diventando da adulto un eremita totale, sempre attaccato al suo computer. Lei aveva cercato qualche volta di coinvolgerlo nelle sue attività , portarlo all’aperto e fargli fare qualcosa che non fosse stare seduto e guardare uno schermo, ma era come insegnare il francese a una cavalletta. Pazienza, certe persone sono fatte così.
Ancora non le era chiaro perché certe persone capitassero tutte a lei, ma era meglio non indagare. Forse espiava colpe di una vita passata, o forse era proprio lei ad attirarle. Con un sospiro, sistemò il cavalletto e si sedette sullo sgabello. Tempo di mettersi all’opera, adesso.
Mentre Eva era all’opera, Fedele Innocenti si preparava all’incontro con l’amministratore Storti e in un cantiere un ponteggio cedeva, Luca Tarca sedeva come sempre al computer, cercava notizie e di nascosto, quasi vergognandosi un poco, si dedicava a uno dei suoi passatempi preferiti, il filo che lo teneva ancora legato a un’infanzia trascorsa ormai da venticinque anni. Il retrogaming, ossia giocare con videogiochi del passato: più il passato era remoto e meglio era. Ci perdeva le ore.
Forse sarebbe rimasto sorpreso, scoprendo che quella sua passione era condivisa anche da un uomo insospettabile come il segretario Maurizio Tombini, sessantenne che si riscopriva giovane davanti ai giochi degli anni ottanta, epoca in cui lui consumava la sua adolescenza. O forse no, non ne sarebbe rimasto sorpreso. In ogni caso, Tarca e Tombini non si conoscevano, né conoscevano le rispettive passioni informatiche, e il problema non si poneva. Vivevano benissimo lo stesso.
Verso sera, ancora non c’erano state novità sulla crisi diplomatica in corso. In compenso, quasi per caso si era imbattuto in un francobollo di notizia, nella cronaca locale, che parlava di un incidente in un cantiere edile. Era crollato un ponteggio, causando la morte di alcuni muratori, ma era tutta colpa della loro negligenza, perché non si erano curati di montare a dovere il ponteggio stesso. Insomma, se l’erano cercata. Il costruttore pensava adesso di fare causa alle famiglie dei morti, per i danni che gli avevano provocato quei muratori incompetenti, morendogli in cantiere.
Tarca lesse la notiziola e cambiò pagina, schifato.
Non meno schifato era Fedele Innocenti, rientrando dal lavoro. Persino la Morte Rossa di Poe, a suo confronto, sarebbe sembrata sana e vivace. Eva lo osservò con una certa preoccupazione, mentre si toglieva le scarpe e stramazzava in poltrona, come un bisonte assassinato da Buffalo Bill.
«Dimmi che va tutto bene anche oggi, e per cena ti mangi una sedia» gli disse, fermandosi davanti a lui con le braccia puntate sui fianchi. «E non è detto che passerà dalla bocca.»
Fedele la guardò nei pressi del lobo sinistro. «Mah, non so. Deve essere stato qualcosa a pranzo» le rispose e in effetti non era del tutto falso. La sosta nel gelo dell’ufficio dell’amministratore, assieme all’incarico ricevuto, gli aveva bloccato sul serio la digestione, per metà pomeriggio.
«Sì, il pranzo... prima o dopo che ti rapissero gli alieni, per portarti su Viltvodle VI?»
«Eh?!» Stavolta Fedele la guardò in faccia, perplesso.
«Ti hanno rifilato di nuovo uno di quei lavori ripugnanti, vero? Stavolta cosa devi fare, strangolare una vecchietta che non paga? O rapire qualche bambina per quello schifo del tuo capo?»
Il volto di Fedele si mimetizzava a poco a poco con la poltrona. «Ma no, niente di tutto questo, te lo assicuro» mentì. «Ma c’è stato... beh, sì... un problema con Sala, l’ingegnere, sai?, e così in questi giorni mi toccherà anche fare una parte del suo lavoro. Ha avuto un lutto in famiglia, capisci.»
Negli ultimi anni, Fedele era diventato esperto in una forma particolare di scrittura creativa, cioè la pratica di inventare su due piedi storielle che suonassero convincenti. Quel giovedì sera ne fece un largo uso. Peccato che Eva fosse troppo sveglia per bersela così, ma lui confidava di avere tempo a sufficienza per lavorarci attorno e renderla più credibile. Bastava superare quel primo momento.
Eva non gli credette. Non gli credette per niente. La storia del lutto in famiglia era troppo banale e l’aveva già usata altre volte; che gli avessero rifilato lavori extra, però, era molto probabile. Bastava capire che tipo di lavoro fosse: se non gliene voleva parlare, era sicuramente qualcosa di sporco.
Qualcosa che veniva dal supremo avatar della Sporcizia Terrena: il suo amministratore delegato. Lo aveva visto una volta sola, Eva, e non desiderava rivederlo ancora. Un vecchiaccio dalla faccia di plastica, costosi abiti di vero pessimo gusto e una mano come una borsa dell’acqua calda. Si era presentato a casa Bianchi, assieme ad altri amici del padre, quando ancora era solo consigliere e già faceva schifo per dieci. Ma era peggio il modo in cui l’aveva guardata e dove l’aveva guardata.
Scommetto che non ha neanche visto la mia faccia, aveva pensato a fine serata, quando finalmente gli ospiti sgraditi se n’erano andati. Poco dopo, c’era stato il famoso episodio del viaggio assieme di suo padre, l’avvocato Giulio Bianchi, e il suo fidanzato, Fedele Innocenti. Al ritorno, Fedele aveva un lavoro stabile e regolare, ma Eva non aveva gioito, scoprendo che avrebbe lavorato proprio per quel vecchio vestito da buffone. Sentiva che non ne sarebbe venuto niente di buono.
Adesso ne aveva una conferma. Non era la prima volta che Fedele tornava a casa con quella faccia, né sarebbe stata l’ultima. E sempre, alla fine, veniva a galla la verità : c’era di mezzo un incarico del capo, l’amabile Fabrizio Storti. Possibile che tutti i lavori peggiori li sbolognasse a suo marito?
«Già , dovrai fare una parte del suo lavoro, capisco» gli rispose, annuendo stanca. «Come al solito, insomma. Significa che tornerai a casa più tardi, prossimamente?»
Fedele si strinse nelle spalle. «Mah, è probabile. Ma ancora non lo so, devo vedere... In ogni caso, ti avvertirò, non ti preoccupare.»
«No no, non mi preoccupo. Mi dici sempre tutto, tu...» Nella voce aveva il calore dell’inverno in Siberia e lo guardava con un’espressione che era in parte compatimento e in parte insofferenza.
«Si tratta solo di lavoro, te lo assicuro!»
«Non lo metto in dubbio. Ma sappiamo bene che lavori ti rifila il tuo capo. Spero solo che stavolta non ci sia di mezzo qualche poveraccio, come quando hai fatto fuori il tuo impiegato.»
«Non l’ho fatto fuori!» Fedele sobbalzò sulla poltrona, colpito e quasi affondato. «Ho denunciato un comportamento irregolare in ufficio, tutto qui. Ho applicato la legge. È una cosa che aveva fatto lui spontaneamente, io ho solo registrato...»
«Certo, certo. La legge.» Eva sospirò. Era stanca di quella discussione, tanto non sarebbe arrivata da nessuna parte. E non era certa di voler sapere cosa gli avesse ordinato quello Storti. Poteva essere di tutto, a parte qualcosa di cui vantarsi in famiglia.
«Non lo faccio perché mi piace, dovresti saperlo anche tu.» Nella voce di Fedele c’era un’asprezza insolita per lui. Suonava sincero, come raramente capitava quando parlava di lavoro.
«E allora perché lo fai? Per una promozione?»
Fedele spalancò gli occhi, poi si morse le labbra, sigillandole. «Non puoi capire» le rispose infine.
Eccolo, era arrivato di nuovo. Non puoi capire: il jolly classico delle conversazioni. Evocare il muro invisibile di incomunicabilità , che divide da sempre e per sempre le persone. Tu sei tu e io sono io e non ci possiamo capire. Era quella la linea che separava la discussione dal litigio, per loro.
Eva non la attraversò. «Va bene» disse stanca. «Cerca almeno di non farti male tu. Adesso ceniamo, prima che si raffreddi.» E abbandonò il campo di battaglia, alzando le mani in segno di resa.
A tavola non ci fu una parola, se non quelle che venivano dal televisore. Sullo schermo a massima definizione, una specie di marionetta calva e obesa conduceva l’ennesimo gioco a premi, tra falsi applausi registrati, e distribuiva assegni generosi ad avvocati e ingegneri. Eva e Fedele lo seguirono nel rumore delle posate e della masticazione, intervallati dal tintinnio di un bicchiere. Non fu certo una cena piacevole, ma fu breve. Nessuno dei due aveva molto appetito.
Più tardi, Fedele si travasò nella sua affezionata poltrona, con lo sguardo di qualcosa appeso a un gancio in una macelleria. Eva lo osservò per un attimo, poi si morse le labbra, sparecchiò e riempì la lavastoviglie. Non aveva senso continuare così, ma non aveva la forza di andare fino in fondo e farlo confessare. Sapeva di potercela fare, ma sapeva anche che sarebbe stato brutto.
Vedremo domani, si disse, voltando le spalle alla sala. La tv presentava un nuovo reality quiz, che da almeno due mesi riempiva le pubblicità in ogni luogo. Disaster Master, o qualcosa del genere: si trattava di indovinare quale sarebbe stato il prossimo disastro in Italia o nel mondo, dove e quando si sarebbe verificato e una stima approssimativa delle vittime. Fedele lo aveva definito originale, per Eva era disgustoso. Così, mentre una musichetta spensierata sottolineava il dimenarsi di ballerine approssimative, approssimativamente vestite, Eva si rinchiuse nella sua stanza privata.
Ne aveva bisogno, in quel momento; aveva il bisogno di quattro pareti insonorizzate tra sé e il resto del mondo. Seduta sullo sgabello, fissò il vuoto fino a che non si sentì di poter riattivare il cervello, senza avere una crisi di pianto. Funzionò. Sgonfiandosi in un sospiro, prese il pennello e si mise al lavoro. Poi ci fu solo la pittura; il pianeta Terra se n’era andato altrove. Ed era un bene.
Due piani più in alto, Luca Tarca fissava uno schermo e scriveva, aspettando di ricevere notizie sul mondo al di fuori dei confini nazionali. C’era qualcosa di grosso all’opera, lo sentiva, e non voleva farselo scappare, a costo di spendere dieci minuti per aprire ogni pagina, mentre strisciava sotto i filtri del suo caro governo. Era uno sporco lavoro, ma qualcuno doveva farlo.
Luca Tarca, alias Qualcuno, continuava a cercare, mentre fuori la notte di giugno si infittiva.