Storie di ciclopi dalla Scozia al Giappone
Una storia che tutti sicuramente conosciamo è quella dell’eroe che resta intrappolato nella caverna di un ciclope antropofago e riesce a salvarsi usando l’astuzia: acceca il ciclope, si nasconde tra i suoi animali e attende l’ora in cui il mostro dovrà farli uscire dalla caverna per portarli al pascolo. Quando arriva finalmente il momento e la porta dalla caverna è aperta, il nostro eroe si finge un animale e riesce così a fuggire. La versione più nota di questa storia è senza dubbio il racconto che troviamo nell’Odissea, dove Odisseo e i suoi compagni affrontano il temibile Polifemo, ma non è certo l’unica. Forse non è neppure la versione più antica.
Racconti che seguono questo schema generale si possono trovare disseminati da un estremo all’altro del continente eurasiatico, nonché in alcune zone dell’Africa. Le varianti locali sono numerose, ci sono elementi in più o in meno, ma la struttura di base rimane identica: quella che ho riassunto nelle prime righe. C’è un mostro gigantesco che è un pastore e vive in una grotta, ha un solo occhio e una passione per divorare gli esseri umani. C’è un eroe che si ritrova imprigionato dal mostro: se vuole sopravvivere, è costretto a superarlo. La battaglia è condotta con l’astuzia, non la forza bruta. L’eroe si mette in salvo fingendosi uno degli animali del mostro. Passaggio fondamentale è l’accecamento del gigante: il suo occhio è trafitto con un qualche tipo di attacco a sorpresa. Grazie alla cecità nel nemico, l’eroe si potrà “tramutare” in animale e fuggirà mescolato al bestiame.
Questi sono gli elementi che troviamo in tutte le storie. Non sono gli unici, ovvio. Se ne possono aggiungere a volontà, in base all’abilità del narratore, al contesto in cui la storia si svolge e anche alla società in cui questa storia è tramandata. Alcuni di questi elementi extra sono ricorrenti, come il tentativo del mostro di truffare a propria volta l’eroe, quando sembra che questi sia ormai al sicuro e pronto ad abbandonare definitivamente la prigione, ma li osserveremo meglio esaminando quattro racconti in dettaglio. Sono presi a titolo di esempio tra i tanti che sono disponibili e sono una scelta limitata e arbitraria, sia chiaro, ma da qualche parte bisogna pure cominciare e dopotutto uno vale l’altro. Offrono comunque un quadro abbastanza indicativo delle varianti di questa storia, sia come struttura che come distribuzione geografica.
Il primo racconto è il più famoso, ossia la storia di Odisseo e Polifemo, che non dovrebbe avere bisogno di altre presentazioni, almeno non per un pubblico occidentale. Il secondo ci arriva dalla Scozia ed è un episodio all’interno di una storia popolare piuttosto ampia, ossia quella di Conall Cra Bhuidhe, che potremmo definire saga. Il terzo arriva dal Caucaso ed è un capitolo delle storie dei Narti1, la quasi epopea nazionale degli osseti, discendenti degli sciti per vie traverse. Il quarto è una modesta fiaba giapponese, raccontata nella parte meridionale dell’arcipelago. Nonostante le indubbie differenze, tutte e quattro queste storie (così come molte altre) ci raccontano la sfida tra un essere umano e un gigante antropofago con un occhio solo: una sfida che sarà risolta con l’astuzia, accecando il nemico e sfruttando i suoi animali per nascondersi e fuggire.
Apriamo le danze con la storia più celebre di tutte, ossia l’avventura di Odisseo sull’isola dei ciclopi nel libro nono dell’Odissea. Come ci racconta Omero o chi per lui, dopo la guerra di Troia Odisseo e i suoi compagni vagarono a lungo nel Mediterraneo. Nel corso delle loro peregrinazioni finirono un giorno nei pressi di un’isola da cui si sentivano arrivare voci di capre e pecore, ma si vedeva anche salire del fumo. Lasciando le altre dodici navi al largo, Odisseo si avvicinò con una nave sola, per esplorare il luogo e scoprire che razza di gente vi abitasse. Il solito, curioso Odisseo.
La prima cosa che notarono, a poca distanza dalla costa, fu una grande grotta a ridosso del mare, con greggi di pecore e capre che pascolavano attorno. C’erano anche chiari segno di attività umana, come recinti in cui alloggiare gli animali, dunque vi abitava qualcuno e Odisseo decise di andarlo a incontrare. Si portò alcuni compagni e scese, mentre lasciò gli altri a occuparsi della nave. Giusto per non patire la sete, si portò anche un’otre di vino buono e molto forte. Una bevuta in compagnia era sempre utile per fare amicizia, no? Se avessero incontrato gente barbara, che non conosceva il vino, fargliene assaggiare un poco sarebbe stata praticamente un’opera di misericordia.
Sia come sia, Odisseo e i suoi compagni raggiunsero la caverna, ma non trovarono nessuno. Tanto per passare il tempo, decisero di entrare lo stesso ed esplorarla un poco. C’erano montagne di formaggio, tutte forme enormi, e recinti pieni di agnelli e capretti, secchi e vasi per la mungitura e la conservazioni del latte, ma nessun padrone di casa. I compagni di Odisseo gli suggerirono di fregarsi tutto quello che non era inchiodato a terra e scappare, ma il loro capo non era d’accordo. Voleva incontrare l’abitante della caverna e fare quattro chiacchiere con lui, magari scambiarsi doni da persone civili, cose così. Pessima idea.
Mentre erano accampati nella caverna a ingozzarsi di formaggio altrui, comodamente seduti attorno al fuoco che avevano acceso, ecco tornare il padrone di casa. Che non pareva però molto civilizzato. Era enorme, era vestito di pelli, sembrava una montagna con le gambe e insomma prometteva male, ma male davvero. Si portava un cumulo di legna per accendere il fuoco e spingeva avanti le sue greggi. Entrato nella caverna, afferrò un macigno colossale e lo usò come porta per bloccare il passaggio, poi munse capre e pecore, mise una parte del latte a cagliare e il resto lo tenne a portata di mano per berlo, accese il fuoco, vide finalmente gli intrusi e si leccò i folti baffi. La cena era servita.
Odisseo cercò di trattare con lui, invocando ospitalità in nome di Zeus. Polifemo rispose che i ciclopi se ne sbattevano altamente di Zeus e di tutti gli altri dèi, ma era interessato a sapere dove fosse la loro nave. Odisseo dichiarò che era affondata ed erano scampati soltanto loro. Polifemo si strinse nelle spalle, afferrò in un attimo due marinai, li ammazzò sbattendoli un poco a terra, li fece a pezzi e si mangiò tutto, ossa incluse. Odisseo e gli altri ci rimasero piuttosto male: in fondo loro si erano solo infilati in casa sua mentre lui non c’era e gli avevano sbafato a tradimento il formaggio.
Sia come sia, Polifemo si addormentò. Odisseo prese in considerazione la possibilità di ammazzarlo nel sonno, ma poi sarebbero rimasti bloccati lì dentro, perché non sarebbero mai riusciti a spostare il macigno che chiudeva la caverna, così aspettò. Il mattino seguente il gigante si svegliò, mangiò altri due marinai per colazione, uscì con le pecore e bloccò di nuovo la caverna col solito macigno. Odisseo poteva solo restare lì a meditare vendetta. E qualcosa pensò.
Coi suoi compagni rimasti prese un grosso tronco di olivo che si trovava in un angolo della caverna e lo tagliò per ricavarne un palo più maneggevole. Lo levigarono, lo appuntirono, lo temprarono col fuoco e alla fine lo nascosero sotto un cumulo di letame, che nella caverna si trovava ovunque. Si doveva essere mangiato pure la colf, Polifemo. Odisseo tirò a sorte altri quattro compagni, che lo avrebbero aiutato nell’impresa che aveva in mente, poi si sedettero ad aspettare.
Quando Polifemo tornò dai pascoli, si prese altri due marinai per cena. Odisseo ne approfittò per fare due chiacchiere con lui, gli offrì il vino che si era portato, dichiarò che era ottimo per digerire la carne cruda di essere umano e alla fine lo convinse a bere. Il resto è storia. Una volta cominciato, un bicchiere tirò l’altro, Polifemo chiese a Odisseo di presentarsi, lui rispose che il suo nome era Nessuno, il ciclope promise che lo avrebbe mangiato per ultimo, come dono ospitale, poi finalmente crollò a terra in coma etilico, vomitando un poco ma non alla Jimi Hendrix. Tempo di mettersi al lavoro.
Odisseo recuperò il palo appuntito, lo arroventò nel fuoco e lo conficcò nell’occhio2 di Polifemo, aiutato dai compagni. Giusto per sicurezza, lo rigirarono più volte, trapanando bene, mentre il fuoco bruciava le ciglia e la faccia del ciclope, l’occhio sibilava e Polifemo alla fine si svegliò urlando di dolore. Si strappò il palo dalla faccia, mentre Odisseo e compagni fuggivano a nascondersi, e lo scagliò lontano, gridando per chiamare in soccorso gli altri ciclopi dell’isola.
I ciclopi arrivarono a frotte e gli chiesero cosa fosse successo. Quando però Polifemo rispose che Nessuno lo aveva ferito, gli altri scrollarono le spalle, dissero che sarà stata la volontà di Zeus se nessuno gli aveva fatto del male, e gli consigliarono al massimo di rivolgere una preghiera al padre Poseidone. Nel frattempo, però, che facesse meno rumore, perché c’era gente che lavorava e di notte voleva dormire. Grazie. Se ne andarono tutti, mentre Odisseo sghignazzava soddisfatto.
Così Polifemo rimase solo e uscì dalla caverna sedendosi sull’ingresso con le braccia ben aperte e allargate, pronto ad afferrare chiunque cercasse di scappare. Odisseo non ne approfittò: era una trappola fin troppo banale per lui. Scelse invece i montoni più grassi che trovò, usò del vimini per legarli assieme a tre a tre, sotto la pancia del montone centrale legò uno dei suoi compagni e così via, fino a che non ebbe sistemato tutti i marinai sopravvissuti. Lui invece scelse di aggrapparsi al ventre di un ariete, perché dopotutto era un re e non poteva accontentarsi di un montone.
Venne l’alba e Polifemo cominciò a fare uscire il suo gregge per mandarlo al pascolo. Passarono per primi i montoni coi compagni di Odisseo e tutto andò bene, passarono le altre pecore e tutto andò bene, passò l’ariete con Odisseo e Polifemo commentò che quel giorno l’animale era più lento del solito e non si era messo alla testa del gregge a guidare gli altri animali. Anche lui era triste per la sventura del padrone? Ah, se solo l’ariete avesse avuto il dono della parola, per dire al suo padrone dove fosse finito Nessuno, quel disgraziato che lo aveva accecato! Con questi e altri commenti, Polifemo spinse fuori anche l’ultima bestia.
Usciti finalmente dalla caverna, Odisseo e compagni si staccarono dagli animali, ne rubarono il maggior numero possibile spingendoli fino alla nave, salirono a bordo e si prepararono a filarsela dall’isola alla velocità della luce. Quando si furono allontanati dalla costa, ma non ancora così tanto da essere fuori portata della voce, Odisseo cominciò a urlare per sbeffeggiare Polifemo. Nonostante i suoi compagni si mettessero le mani nei capelli, Odisseo ebbe anche la pessima idea di urlare il proprio vero nome, per pura vanteria. Molto furbo, come si vedrà in seguito, ma questa è un’altra storia.
Spostiamoci adesso in Scozia, tra gli eredi di quei popoli celtici che avevano occupato buona parte dell’Europa prima dell’ascesa di Roma. Anche qui troviamo la storia di un mostro antropofago con un occhio solo, che lavora come pastore tra uno spuntino e l’altro: la troviamo come episodio di una vicenda più ampia, la saga di Conall Cra Bhuidhe o, a seconda delle versioni, di Conall Cròg Buidhe, ossia Conall dalle mani gialle. La cornice generale in cui si inserisce questo episodio è il tentativo di Conall di salvare i suoi tre figli dalla condanna a morte per un omicidio che avevano commesso. Fra le varie prove che Conall dovrà superare, c’è anche quella di raccontare storie di situazioni in cui si era trovato in un pericolo ancora più grave: una di queste storie è proprio il suo incontro con un gigante antropofago.
Conall racconta dunque di quando era un ragazzo ed era andato a caccia nelle terre del padre. Per un motivo o per l’altro si era ritrovato lungo la costa, in un posto ricco di scogliere, caverne marine, insenature e così via, il tutto lavato costantemente dalla bianca spuma delle onde. Sceso sulla spiaggia, Conall notò un filo di fumo che saliva al cielo tra due rocce. Gli sembrò strano e così decise di andare a vedere più da vicino. Sfortuna volle che scivolasse mentre si arrampicava su una roccia e cadesse in un crepaccio: non si ruppe alcun osso, ma rimase bloccato fra due pendii troppo ripidi per potersi arrampicare di nuovo. Come se non bastasse, la marea stava salendo e se non fosse riuscito a trovare un posto più alto, avrebbe rischiato di fare la morte del sorcio.
Non la fece, perché proprio allora sentì un rumore e vide un gigante che guidava un gregge di capre. Quando passò accanto al crepaccio in cui Conall era caduto, il gigante si affacciò per guardare di sotto col suo unico grosso occhio. Apprezzò così tanto la vista del ragazzo, che cominciò subito a fare commenti sul tema di quanta voglia avesse di mangiare tenera carne umana, dopo tanto tempo. Non proprio «Ucci ucci, sento odor di cristianucci», ma vicino a sufficienza da farne comodamente le veci. Dalla padella alla brace, in apparenza.
Conall però non si scompose troppo. A chiacchiere, convinse il mostro che non valeva la pena di mangiarlo, perché la sua carne era troppo stopposa, ma soprattutto perché era capace di curare l’altro occhio del gigante3. La morte di Conall fu così posticipata: se riuscirà a guarire il mostro, sarà salvo e potrà uscire dal crepaccio; se non ci riuscirà, sarà divorato. Il che, da un certo punto di vista, lo avrebbe portato comunque fuori dal crepaccio, ma solo per morire in un altro modo.
La cura suggerita da Conall consisteva nel far bollire acqua, intingervi certe alghe che lui avrebbe passato al gigante e poi strofinare le alghe prima sull’occhio sano, poi su quello cieco: in questo modo la vista sarebbe passata dal primo al secondo. O qualcosa del genere. Il mostro obbedì, ma il risultato non fu quello sperato e si ritrovò così cieco anche nell’occhio sano. Tutto come previsto almeno da Conall, a cui piacevano i piani ben riusciti.
Furibondo, il mostro dichiarò che non avrebbe mai lasciato uscire Conall dal crepaccio, se non per divorarlo: si accampò così davanti alla fenditura in cui il ragazzo era rimasto bloccato, pronto ad aspettare tutto il tempo necessario. Questo non rientrava nei progetti di Conall, che invece aveva sperato di poter fuggire approfittando della cecità del mostro. Trascorsero così la notte con l’uno a fare la guardia e l’altro rintanato in fondo al crepaccio4, il più possibile fuori dalla portata del primo.
All’alba il mostro si addormentò per un poco e Conall ne approfittò per sgusciare fuori dal crepaccio, ma solo per finire nell’ovile dove il mostro teneva le sue capre. Gli animali, innervositi, fecero rumore e svegliarono il gigante prima che il ragazzo avesse il tempo di fuggire anche da lì: era di nuovo bloccato, ma in un posto differente, col mostro sempre a caccia di lui.
Stavolta Conall sfruttò le capre per liberarsi. Uccise e scuoiò un caprone, usando una stramba scusa per giustificare il rumore che stava facendo. Nel frattempo, lasciava uscire le capre una alla volta. Il gigante le tastava con cura, per assicurarsi che fossero solo capre e il ragazzo non fosse nascosto in mezzo a loro, poi le lasciava procedere verso il pascolo. Finite le capre, fu il caprone a uscire, che in realtà adesso era Conall, a quattro zampe e ricoperto dalla pelle appena scuoiata. Il gigante lo tastò, sentì le corna del caprone e lo lasciò passare, scambiandolo per l’animale vero.
Mentre il gigante continuava a chiedersi dove fosse finito il ragazzo, Conall glielo disse subito dopo essere fuggito dall’ovile, vantandosi di essere libero e al sicuro. Il gigante si sedette a terra tutto depresso e ammise la propria sconfitta. Offrì a Conall un anello magico che gli avrebbe portato solo benefici, in segno di resa: il ragazzo lo aveva sconfitto e si meritava quella ricompensa. Conall si fece lanciare l’anello, non volendo avvicinarsi troppo. Il gigante lo lanciò e il ragazzo lo raccolse. Era un anello d’argento, di buona fattura, e Conall lo infilò al mignolo della mano sinistra.
Pessima mossa. Il gigante gridò «Dove sei, anello?» e l’anello gli rispose «Sono qui!». Adesso la cecità non era più un problema: poteva localizzare Conall seguendo la voce dell’anello e lo fece subito, alzandosi in piedi e correndo verso il ragazzo. Non c’era via di scampo con quell’oggetto: ogni volta che il gigante chiamava, l’anello rispondeva.
Conall cercò di sfilarlo, ma non ci riuscì. Fu dunque costretto a ricorrere all’unica soluzione che gli restasse: prese un coltello e si tagliò il mignolo sinistro, poi lo gettò da una scogliera, in mezzo al mare. Il gigante chiamò, l’anello rispose e lui corse verso il punto da cui proveniva la voce, cadendo dalla scogliera e affogando in mare. Finalmente al sicuro, Conall se ne tornò così a casa, portandosi dietro tutte le capre del suo avversario: ormai il gigante non ne aveva più bisogno, dopotutto.
La terza storia ci porta tra gli osseti del Caucaso, una popolazione che discende probabilmente da quelli che gli antichi greci conoscevano come sciti e che, di fatto, erano un gruppo eterogeneo di popolazioni nomadiche e non, di cui gli sciti descritti da Esiodo costituivano solo una parte, quella stanziata nell’area occidentale delle steppe russe, a ridosso delle coste del mar Nero. L’epopea dei Narti è una raccolta di storie più o meno epiche, con alcuni tratti mitologici, condivisa da diverse culture caucasiche, tra cui appunto gli osseti. È proprio dalla loro versione di questa epopea che è presa la storia seguente, dove vediamo un conflitto tra Uryzmag, uno degli eroi principali nonché pseudo-capovillaggio, e un mostruoso gigante con un occhio solo.
L’antefatto di questa storia ci racconta che nel villaggio dei Narti c’era stata una discussione molto accesa tra i più giovani su chi fosse l’eroe più valoroso del villaggio5. L’anziana saggia Karmagon era stata interpellata in proposito e aveva dichiarato che il migliore era senza dubbio Uryzmag, ma il suo parere non era stato apprezzato dai giovani, che l’avevano anche insultata. Venuto a sapere di questo sgradevole incidente, Uryzmag si era arrabbiamo: aveva convocato una riunione di tutti gli abitanti del villaggio e dichiarato che sulla Montagna Nera c’era un gregge di pecore che vagava libero. Se in paese c’erano dei giovani che si consideravano veri uomini, che lo accompagnassero subito a razziare quelle pecore. I giovani accettarono la sfida e il gruppo partì.
Una pesante nevicata rese il viaggio sempre più faticoso. Mentre Uryzmag proseguiva come se niente fosse, i giovani cominciarono a lamentarsi della fatica, rallentarono e alla fine tornarono tutti indietro, con le pive nel sacco e la cresta abbassata. Uryzmag andò avanti da solo, raggiunse la Montagna Nera e si trovò di fronte un grande gregge di pecore, che pascolavano tranquille. Non c’era alcun pastore nei dintorni, ma solo un caprone dalle corna molto grosse. Come se non bastasse, le pecore stesse erano di taglia extra-large: ognuna era grande quasi come un vitello, mentre il caprone aveva quasi le dimensioni di un cammello.
Uryzmag fece un primo tentativo di afferrare con la forza una pecora, per macellarla e arrostirla. Il risultato non fu quello che si era aspettato lui, perché l’animale lo trascinò a terra, lo fece rotolare da una parte e dall’altra e alla fine si liberò. Il nostro eroe decise che forse era meglio ricorrere a una tattica diversa. Rimase ad attendere, finché verso sera il caprone non si mise alla testa del gregge, guidandolo verso le pendici del monte. Uryzmag lo seguì. Raggiunsero una grande caverna e le pecore entrarono una dopo l’altra. Uryzmag le seguì. Non appena anche l’ultima fu entrata, ecco spuntare un gigante con un occhio solo6 che arrivò fischiettando, entrò anche lui nella caverna, sbriciolò un enorme albero sbattendolo contro una parete per ricavarne legna da ardere e salutò l’intruso. Il tutto in modo piuttosto amichevole, per il momento.
Dopo aver bloccato l’ingresso della caverna con una enorme lastra di pietra, il gigante accese il fuoco, macellò una pecora e preparò da mangiare per entrambi. Uryzmag era un ospite, dopotutto, e l’ospitalità era sacra, così mangiarono assieme e tutto procedette per il meglio. Il mattino seguente, il gigante spostò la pietra, si sistemò davanti all’ingresso e fece uscire le sue pecore una alla volta, guidate da Bodzo il caprone. Tutti gli animali passarono tra le gambe divaricate del gigante, che li contò a uno a uno. Completato questo rito, uscì anche lui e richiuse la caverna, con Uryzmag imprigionato al suo interno.
Il prigioniero tentò più volte di spostare la pietra, ma era troppo pesante per le sue forze, così non poté fare altro che rimanere nella caverna ad attendere. Il gigante tornò verso sera, spostò la pietra, lasciò entrare il suo gregge, entrò anche lui e richiuse tutto. Accendendo il fuoco, disse a Uryzmag che il giorno prima lui era stato un ospite e aveva ricevuto un pasto; adesso però avrebbe dovuto ricambiare, offrendo lui un pasto al padrone di casa. Uryzmag obiettò che non aveva niente da cucinare, ma il gigante scrollò le spalle. Non era un problema. Afferrò il suo prigioniero, gli infilò uno spiedo nelle ginocchia e lo appese ad arrostire sopra il fuoco, poi si coricò per farsi una dormita, in attesa che l’umano fosse cotto a puntino.
Non appena il gigante si fu addormentato ed ebbe cominciato a russare profondamente, Uryzmag si diede da fare per liberarsi. Fu faticoso e doloroso, ma puntandosi bene coi piedi contro la roccia e afferrando il bordo rovente del pentolone, il nostro eroe riuscì a sfilarsi lo spiedo dalle ginocchia. Già che c’era e aveva una specie di arma per le mani, Uryzmag scaldò sul fuoco una punta dello spiedo e lo infilò nell’occhio del gigante, trapassandogli la palpebra chiusa.
Il gigante si svegliò urlando e cercò di afferrare Uryzmag, che però non era rimasto in zona ma si era allontanato il più possibile, andandosi a nascondere in mezzo alle pecore. Dopo tante ricerche alla cieca, dopo minacce e preghiere di ogni tipo, il gigante capì che non sarebbe riuscito a trovare il suo avversario, così si sedette tutto depresso e si dichiarò sconfitto dall’astuzia di Uryzmag. Dato che la sua vita non sarebbe durata ancora molto, il gigante offrì all’avversario un anello magico in cui era contenuta tutta la sua forza, ma anche tutta la sua felicità. Indossalo e tutto ciò sarà trasferito a te: davvero! Parola di gigante cannibale.
Uryzmag gli credette, raccolse l’anello che il nemico gli offriva e se lo infilò al dito. Neppure il tempo di vedere come gli stesse e subito l’anello cominciò a urlare «Lui è qui! Lui è qui!» Adesso per il gigante era molto più facile trovare il nemico, seguendo le urla, e più di una volta Uryzmag sfuggì alla cattura per un soffio, mentre correvano qui e là nella caverna. L’anello non si sfilava e continuava a urlare, segnalando la sua posizione. Come mettersi in salvo?
Fortuna volle che Uryzmag, nella sua fuga, capitasse vicino a una mannaia appoggiata in un angolo della caverna. L’uomo l’afferrò, posò la mano su un tagliere di fortuna e con un colpo si mozzò il dito che portava l’anello maledetto. Dito e anello rotolarono via, il gigante li afferrò e li ingoiò, mentre Uryzmag fuggiva da un’altra parte. Si trovarono così in un nuovo stallo: il gigante non era più in grado di localizzare Uryzmag, ma Uryzmag restava sempre imprigionato nella caverna assieme a lui. Era solo questione di attendere. Attesero.
O almeno il gigante attese e dormì. Mentre l’altro russava, Uryzmag lavorò. Uccise e scuoiò con la massima cura il caprone Bodzo, per conservare intatta la sua pelle, corna e zoccoli inclusi. Cucinò e mangiò una parte della carcassa, perché era a digiuno dalla sera precedente, poi aspettò l’alba. Quando il gigante si svegliò e spostò la lastra di pietra per far uscire il gregge di pecore, Uryzmag era pronto. Indossando la pelle di caprone e camminando a quattro zampe, si mise alla testa delle pecore, obbedendo agli ordini del mostro, che come il mattino precedente si era sistemato davanti all’apertura per controllare chi uscisse.
Alla guida del gregge, Uryzmag passò sotto le gambe del gigante, che lo tastò e sentì sotto le dita la pelle di un caprone. Sentì anche le corna dell’animale che gli sfioravano una gamba, per cui era di sicuro il suo fidato Bodzo. Tutto a posto. Uryzmag uscì, seguito dalle altre pecore. Quando anche l’ultima fu all’esterno della caverna, il nostro eroe gettò la pelle di caprone, si raddrizzò e sbeffeggiò il gigante, svelandogli la truffa e aggiungendo che, dopo aver perso il suo caro Bodzo, adesso avrebbe perso anche tutto il resto del gregge. Così imparava!
Il gigante non gradì. Accecato anche dalla furia, balzò fuori dalla caverna e corse in avanti, alla cieca per forza di cose. Purtroppo per lui, vicino alla caverna c’era un profondo burrone e ci volò diritto dentro, precipitando a morte. Soddisfatto, Uryzmag guidò il gregge fino al villaggio dei Narti e convocò un’assemblea generale di tutti gli abitanti, per dividere il bottino coi cacciatori che lo avevano accompagnato all’inizio della spedizione (e poi erano scappati con la coda tra le gambe).
Quando tutti furono arrivati, Uryzmag divise il gregge in tre parti: la prima parte per sé, la seconda per i giovani cacciatori mollaccioni, la terza per la vecchia saggia Karmagon, che lo aveva indicato come il più forte dei Narti e per questo era stata insultata dai giovani. La vecchia apprezzò molto e poté sbattere in faccia ai giovinastri un sonoro «Ve lo avevo detto io!», mentre si portava a casa il ricco bottino. Loro furono costretti a chinare il capo e ammettere che aveva avuto davvero ragione lei e tutti vissero felici e contenti. Grossomodo.
Concludiamo il nostro breve viaggio con una fiaba giapponese: è la storia di Gorō da un occhio solo, così come è raccontata a Kagoshima7. Siamo a bordo di una nave, che una tempesta ha spinto fuori rotta. Approdata alla fine in un posto sconosciuto e ormai priva di acqua potabile, un membro dell’equipaggio fu costretto a scendere e andare in cerca di una sorgente dove potersi rifornire. Non un compito troppo difficile, in apparenza, perché il territorio era collinoso e coperto di foreste: di fonti ce ne dovevano essere in abbondanza. Il marinaio ne trovò presto una, si dissetò e cominciò a riempire la giara che aveva portato con sé. Poi vennero i problemi.
Sentì un rumore alle proprie spalle, si girò e vide un omaccione spaventoso, che lo fissava con un solo occhio: era Gorō da un occhio solo, un oni8 col simpatico vezzo di divorare esseri umani. Il nostro marinaio cercò di fuggire verso la nave, ma Gorō lo afferrò per la nuca con una mano, senza alcuna difficoltà, e se lo portò via verso le montagne; raggiunse una grotta ai piedi di una parete scoscesa e vi gettò dentro la sua preda, soddisfatto di avere trovato qualcosa di buono da mangiare.
Mentre Gorō accendeva il fuoco per arrostire il suo pasto, il marinaio fuggì terrorizzato a rifugiarsi in fondo alla grotta, dove trovò altri esseri viventi: erano cavalli, una decina circa. Questa scoperta gli suggerì una possibile via di fuga. Spingendo davanti a sé i cavalli, il marinaio tornò verso l’ingresso della grotta. Nella confusione generale causata dagli animali, approfittò di un momento di distrazione di Gorō per afferrare un tizzone rovente e conficcarlo nell’occhio dell’oni, accecandolo.
Gorō cominciò a urlare e agitarsi, cercando a tastoni il marinaio, ma tutti quei cavalli erano solo un ostacolo e aiutavano quel maledetto umano a sfuggirgli, così decise di mandarli fuori uno alla volta dalla grotta, per poter catturare più facilmente il suo pasto. Fermo davanti all’uscita, Gorō spinse fuori a turno gli animali, toccandoli per contarli e assicurarsi che fossero proprio cavalli. Il marinaio non si perse d’animo, indossò una pelle di cavallo e si mischiò agli altri animali. Quando fu il suo turno, Gorō toccò la pelle di un cavallo, lo scambiò per un animale vero e lo spinse fuori. Missione compiuta!
Cosa sia poi accaduto a Gorō non lo sappiamo. Il marinaio però riempì di acqua la giara, tornò alla nave e se ne andò col resto dell’equipaggio, sano e salvo. Forse non visse per sempre felice e contento, ma non divenne il pranzo di Gorō e gli fu più che sufficiente, almeno sul breve termine.
Quattro pastori selvaggi, come abbiamo visto. Tutti e quattro hanno un solo occhio funzionante, un certo numero di animali, un appetito per la carne umana. Sono anche giganteschi. Chiamiamoli pure ciclopi, se vogliamo, ma l’unico ciclope vero e proprio è Polifemo, perché lui appartiene a quella categoria specifica di creature. O almeno a una delle categorie: nei miti e nelle leggende dell’antica Grecia, infatti, possiamo trovare tre diversi tipi di ciclopi, non tutti compatibili tra loro. Il tipo a cui appartiene Polifemo è il più anomalo dei tre. Vediamoli in dettaglio.
Il primo gruppo è quello descritto da Esiodo nella sua Teogonia e li potremmo definire come ciclopi primordiali. Sono Sterope, Bronte e Arge, generati direttamente da Gea e Urano all’inizio dei tempi, appartenenti dunque alla stessa stirpe dei Titani: hanno un solo occhio rotondo in mezzo alla fronte ed è proprio da questo che deriva il loro nome, ciclopi9. Sono giganteschi, ma non sono né pastori, né bruti senza cervello: sono abili artigiani, metallurghi, fabbri che saranno poi considerati assistenti di Efesto in epoca molto più tarda, quando saranno associati a vulcani come l’Etna. Sono loro a forgiare il tuono e il fulmine, le armi che aiuteranno Zeus a vincere la guerra contro i Titani e che loro doneranno al dio più giovane come ringraziamento per averli liberati.
Il secondo gruppo di ciclopi è composto da personaggi “bucolici”, per valori molto poco poetici di bucolico, almeno in epoca antica. Sono quelli a cui appartiene Polifemo: vivono isolati e privi di cultura o civiltà, praticano la pastorizia, si dedicano un po’ a caccia e raccolta, apprezzano la carne umana quando capita a tiro, non conoscono né il pane né il vino, che per i greci erano i due simboli che distinguevano i popoli civili dai primitivi. In epoca più tarda si costruirà attorno alla loro figura una vaga atmosfera da elegia pastorale, quando poeti come Callimaco e Ovidio racconteranno ad esempio gli amori di Polifemo e la ninfa Galatea, ma nei secoli precedenti erano mostruosi e basta, figli selvaggi di Poseidone10, da cui era meglio girare alla larga per non diventare protagonisti unici e indiscussi del loro prossimo pasto.
Un terzo gruppo di ciclopi è quello dei costruttori di mura. Sono molto diversi dai feroci pastori del secondo gruppo, perché sono artigiani a modo loro, anche se non allo stesso livello dei tre ciclopi primordiali. Di loro si sa ben poco: erano considerati i responsabili della costruzione delle mura di molte città antiche, come le indistruttibili mura di Tirinto, che sarebbero state erette da sette ciclopi arrivati dall’Asia Minore al servizio di Preto, re della città. Forse sono una versione minore dei tre grandi ciclopi descritti nella Teogonia o forse sono solo un nome scelto perché era associato a esseri giganteschi, dunque proporzionati a mura che, ai tempi, dovevano apparire ben più grandi di quelle che normali esseri umani avrebbero potuto erigere.
Per quello che possiamo ricostruire sul loro conto, dunque, in Grecia i ciclopi appartenevano a un periodo più antico rispetto alle divinità dell’Olimpo: provengono da un’epoca in cui ancora non regnavano l’ordine e la legge stabiliti da Zeus. Come quasi tutte le creature di quell’epoca, sono giganteschi e mostruosi, noti soprattutto per la loro forza. Sono fratelli dei Titani, dopotutto. Se per Esiodo i ciclopi primordiali erano stati rinchiusi in una prigione dal loro stesso padre Urano, per Omero i ciclopi “bucolici” vivevano in una terra che era fuori dal tempo, un paese primitivo dove la sola legge esistente era quella del più forte e dove non era neppure riconosciuta l’autorità degli dèi. Forti e primitivi, o primordiali: ecco come sono caratterizzati tutti e tre i tipi di ciclopi greci. Due di questi tipi sono anche grandi artigiani, mentre il terzo è composto solo da pastori.
Un frammento della teogonia orfica ci presenta i ciclopi (i tre primordiali, presumibilmente) come gli insegnanti di Efesto e Atena: le due divinità più giovani avrebbero imparato proprio da loro le arti di cui sarebbero diventati maestri e numi tutelari. I ciclopi costruttori di mura erano descritti come mortali da alcuni greci, ma coi loro colleghi primordiali condividevano comunque la forza, le dimensioni e l’abilità tecnica: raggrupparli assieme non presenta grosse difficoltà e si integrano, a volte sovrapponendosi, anche con altri personaggi minori della mitologia classica, come i telchini e i dattili. Ad apparire come anomali sono solo i ciclopi di Omero. Sono enormi, certo, e sono fortissimi, ma sono primitivi, così arretrati da dare l’impressione di vivere ancora in una sorta di “età dell’oro”, il mitico tempo di Crono che avrebbe preceduto il sorgere della civiltà.
Una ipotesi per spiegare l’anomalia dei ciclopi dell’Odissea è che non sarebbero personaggi del mito, ma del folklore greco, forse importati dall’estero. Questi mostri antropofagi con un occhio solo sarebbero arrivati da fuori e i greci li avrebbero chiamati ciclopi per la loro somiglianza con le figure che già comparivano nei miti più antichi, ossia esseri di forza enorme e dotati di un solo occhio al centro della faccia, che avrebbero forgiato le armi di Zeus e costruito le mura delle antiche città del Peloponneso, come Micene o Tirinto. Nell’arte sumera troviamo la figura di un mostro con un occhio solo, per esempio: un antenato dei ciclopi incontrati da Odisseo? Non lo sappiamo. Non ci sono rimaste testimonianze su cosa fosse quella creatura: sappiamo solo come era fatta, perché è sopravvissuta la sua immagine, ma tutto il resto è avvolto nel mistero. È certo però che il racconto della sfida tra un eroe e un gigante antropofago con un occhio solo è molto diffuso, anche in paesi che in apparenza non disponevano già nel proprio folklore di ciclopi o variazioni sul tema.
Sia come sia, i mostri di queste quattro storie sono giganteschi, almeno rispetto agli esseri umani, hanno un solo occhio e sono cannibali: il nome con cui etichettarli è secondario. Se proprio ci tenete tanto, chiamiamolo pure ciclope. Se ciclope non vi piace, possiamo chiamarlo Tártalo (detto anche Tartaro), come il gigante monocolo che compare spesso nelle storie basche (qui non prese in esame) e ha un ruolo analogo, incluso l’accecamento e l’anello magico. Molto più importante del nome, semmai, è il modo in cui il gigante agisce sulla scena, che è simile ma non identico, proprio come simili ma non identici sono i quattro racconti. Come già dicevo, ne esistono molti altri, ma questi dovrebbero bastare a fornirci una idea generale di cosa ci possiamo aspettare in queste storie, dove un umano incontra un gigante con un solo occhio che se lo vorrebbe mangiare, ma riesce a batterlo con l’astuzia e fugge tra i suoi animali.
La fiaba giapponese presenta la struttura più semplice, ridotta all’essenziale: l’eroe incontra il mostro; l’eroe è imprigionato dal mostro; l’eroe acceca il mostro; l’eroe fugge in mezzo agli animali del mostro. Il racconto scozzese e quello osseta sono quasi gemelli: in entrambi infatti troviamo un’aggiunta alla fine, dove il mostro tenta di ricatturare l’eroe che gli è appena sfuggito usando un oggetto magico come esca. In entrambe le storie questo oggetto magico è un anello parlante, con cui il mostro riesce ad aggirare la cecità; in entrambe le storie, l’eroe sacrificherà un dito per liberarsi dall’anello e alla fine farà precipitare il mostro nel vuoto, uccidendolo. Un modello che ritroviamo nella maggior parte delle storie di questo filone.
Possiamo considerate la storia omerica come la versione primordiale, da cui le altre sarebbero derivate in un modo o nell’altro, aggiungendo o rimuovendo alcune parti? Può essere una facile tentazione, ma è anche un grosso rischio, quasi sicuramente una trappola. Se è vero che l’Odissea è il primo testo scritto in cui si può trovare questo tipo di storia, è altrettanto vero che non abbiamo la minima idea se sia anche il più antico, oppure se sia solo il primo a essere stato messo per iscritto. Come datare la tradizione orale di un popolo? Esistono saghe e lunghi testi sacri che sono stati tramandati a voce per secoli, prima di essere fissati in forma scritta. Per quel che ne sappiamo, storie di giganti con un occhio solo ed eroici avventurieri che li sfidavano in astuzia potrebbero essere state raccontate ben prima che comparissero i poemi omerici così come li conosciamo oggi.
Consideriamo ad esempio le storie dei Narti, da cui proviene il nostro terzo racconto. Sono una epopea diffusa tra le popolazioni del Caucaso, soprattutto nella zona settentrionale. Le loro prime versioni scritte risalgono alla metà dell’Ottocento e sono dovute a ricercatori stranieri11, che in quel periodo di grande revival delle tradizioni popolari si erano messi in testa di raccogliere tutte le fiabe e le altre storie raccontate dai popoli ignoranti, almeno secondo il loro metro di giudizio. Se la metà dell’Ottocento è la data in cui alcuni di questi racconti sono trascritti per la prima volta, il contenuto delle storie ci parla di epoche molto più antiche. Troviamo addirittura tracce di usanze e credenze che erano appartenute agli sciti di cui ci parlava Erodoto nelle sue Storie, circa venticinque secoli fa. Gli stessi osseti, un popolo tra cui la saga dei Narti è diffusa, sono spesso considerati i discendenti alla lontana degli sciti di Erodoto: guardate qualche libro di Dumézil, per esempio. È possibile che alcune di quelle storie siano state tramandate per oltre due millenni e mezzo? Sembrerà incredibile, forse, ma non lo possiamo certo escludere.
Accantoniamo dunque il problema di quale sia la versione primordiale di questa storia, perché non lo possiamo risolvere, e guardiamo invece ai testi che abbiamo oggi. Questi quattro racconti che ho preso qui in esame si possono facilmente dividere in due categorie: le avventure marinare, ossia il racconto greco e quello giapponese, e le avventure di cacciatori, ossia il racconto scozzese e quello osseta. Nel primo caso, l’eroe si imbatte nel mostro perché incidenti di navigazione lo spingono verso un’isola sconosciuta, che dovrà esplorare per varie ragioni; nel secondo caso, l’eroe parte per una battuta di caccia in un territorio abbastanza noto, ma un imprevisto lo porta in una regione poco conosciuta, dove incontra qualcosa di inaspettato. Cambiano le premesse e l’ambientazione, forse anche solo per adeguarsi ai gusti delle popolazioni che raccontavano queste storie, ma la trama di base resta uguale o quasi, almeno come struttura generale.
Guardando a questi quattro racconti, non appare difficile spiegare le differenze nell’ambiente scelto. I giapponesi vivono su un arcipelago e i greci sono celebri navigatori: niente di strano che per loro l’incontro con l’insolito e il mostruoso avvenga durante viaggi in mare. Approdare su un’isola sconosciuta e trovare cose strane è alla base di diversi loro avventure. Allo stesso modo, per due popoli più legati alla terraferma, come la storia ci ha mostrato essere stati i celti e gli sciti, è perfettamente normale che l’incontro con l’insolito e il mostruoso avvenga durante una battuta di caccia. Nei loro due racconti troviamo anche tracce delle storie di raid per rubare il bestiame, un grande classico per gli eroi irlandesi del ciclo di Ulaid e per i Narti osseti. Ogni popolo inserisce dunque la storia del mostro con un solo occhio nell’ambientazione che gli è più congeniale, a quanto pare, ma la trama resta quella.
Se la versione giapponese è la più semplice e lineare, quella greca è la più complessa e diversificata. Anche questo è normale, se consideriamo che non è una storia singola, ma è un episodio inserito in una cronaca molto più grande. Proprio la sua natura di episodio all’interno di una storia molto più ampia le garantisce maggiore spazio per sviluppare sia l’ambiente che l’antagonista, che risultano di conseguenza molto più curati e profondi rispetto a ciò che troviamo nelle altre tre storie. Hanno un retroterra, hanno un pubblico a cui basta un nome per visualizzare il tipo di personaggio. Questo è reso chiaro dalla trattazione di Polifemo e dei suoi colleghi, per esempio.
Al narratore basta infatti usare la parola “ciclopi” e al resto penserà il contesto. Il suo pubblico conosceva i ciclopi, sapeva cosa immaginarsi quando sentiva questo nome. Nell’Odissea manca infatti una descrizione vera e propria del mostro, come invece troviamo nelle storie scozzesi e ossete12: Omero non dice neppure che Polifemo ha un occhio solo, dopotutto. Non lo fa, perché non ne aveva bisogno: è già incluso nel nome della razza, i ciclopi. Sono ciclopi proprio perché hanno un solo occhio al centro della faccia. Tutto ciò che dobbiamo sapere è il tipo di luogo in cui vive, il fatto che Polifemo è più asociale dei suoi colleghi e che suo padre è Poseidone. Questo ci servirà nel corso della storia e il narratore lo specifica. Il resto, invece, era implicito nel nome ciclope.
In una certa misura, questo accade anche nella storia giapponese. I dettagli del mostro non ci sono indicati: sappiamo solo che si chiamava Gorō ed era un oni con un unico occhio. Per gli ascoltatori giapponesi gli oni sono i classici cattivi, un po’ come gli orchi nelle nostre fiabe. Se ne appare uno nella storia, sicuramente sarà il nemico che l’eroe dovrà affrontare. L’unico particolare extra che serve alla narrazione è che questo oni specifico ha un occhio solo, a differenza della maggior parte dei suoi colleghi. Non un dettaglio da poco, dopotutto, ma neppure un dettaglio troppo anomalo.
Se è vero che gli oni con un solo occhio sono rari nelle storie più antiche, è altrettanto vero però che ne incontriamo di tanto in tanto. Nello Izumo fudoki, che risale alla prima metà dell’ottavo secolo, troviamo il breve racconto di un contadino che stava lavorando i campi, quando fu aggredito da un oni con un solo occhio. Mentre il demone lo divorava vivo, la sua unica preoccupazione fu di tenere segreta la presenza degli anziani genitori, che si erano nascosti in mezzo ai bambù a poca distanza da lui. Un altro esempio di mostro con un occhio solo e una passione per la carne umana, insomma, e più antico della fiaba raccolta a Kagoshima. Forse. Mostri di altro tipo con un occhio solo, invece, sono abbondanti nel folklore giapponese, ma questo è un discorso diverso.
Possiamo poi sottolineare anche la differenza nella scelta degli animali. Se nelle altre tre storie troviamo pecore, capre e ovini in generale, cioè le specie con cui è nata la pastorizia nella preistoria, nella fiaba giapponese compaiono i cavalli, che neppure erano animali autoctoni: i primi esemplari furono infatti introdotti in Giappone all’inizio del primo millennio13. Che anche la storia sia arrivata dalla Cina? Possibile, ma è anche possibile che sia solo nata in un periodo in cui i cavalli erano ormai diventati comuni anche in Giappone e nessuno li percepiva più come stranieri. Peraltro, la fiaba non specifica in quale terra viva il mostro con un solo occhio: la nave era stata spinta fuori rotta e potrebbe anche essere approdata sul continente, per quanto ne sappiamo14.
Sia come sia, il racconto greco è l’unico in cui non è stato necessario per il narratore specificare che il mostro aveva un occhio solo, anche perché è il solo a essere parte di un’opera letteraria. Nelle altre tre storie, infatti, il particolare viene evidenziato quasi subito, anche perché sarà fondamentale per lo svolgersi della vicenda. La storia scozzese, invece, è la sola in cui il mostro aveva inizialmente due occhi, ma uno di quei due era già fuori uso ancora prima dell’inizio: lo stratagemma con cui l’eroe accecherà completamente il suo nemico si baserà proprio sulla presenza di entrambi gli occhi e su una falsa cura che dovrebbe trasferire la vista dell’occhio sano a quello ferito, ma che invece farà proprio il contrario, accecando anche l’occhio sano. Invece di due occhi funzionanti, alla fine il mostro si ritroverà con due occhi accecati.
Nelle altre tre storie il mostro è dotato di un solo occhio15, così troviamo lo stesso schema per il suo accecamento: un oggetto appuntito e rovente, che può essere un palo oppure uno spiedo, a seconda di cosa ci sia a portata di mano. Se nel racconto osseta e quello giapponese l’accecamento è eseguito dal solo eroe, nel racconto greco partecipano alcuni suoi compagni di sventura: niente di strano, dato che l’eroe era parte di un gruppo e c’era bisogno di trovare un ruolo anche per i suoi colleghi, uno che non fosse solo essere mangiati. Anche i ciclopi, del resto, sono presenti come comunità, non come singolo. Differenze superficiali, cosmetiche, che non alterano l’essenza della storia.
Una differenza più marcata la troviamo dopo l’accecamento del mostro. Se nelle storie marinare, ossia nel racconto greco e in quello giapponese, l’eroe può fuggire senza ulteriori ostacoli, usando gli animali a disposizione, nel racconto scozzese e in quello osseta il mostro fa un ulteriore tentativo di catturare l’eroe, ricorrendo a un anello magico. Questo è un elemento che compare anche in altre storie di lotte contro un mostro antropofago con un occhio solo. Ormai cieco e incapace di trovare il suo avversario, il gigante finge di arrendersi e offre all’eroe un anello misterioso, che dovrebbe possedere poteri speciali16. Il che è vero, come scopre l’eroe non appena se lo infila al dito.
Si potrebbero scatenare accesi dibattiti sul perché l’eroe accetti un regalo tanto sospetto, ma in fondo le storie di questo tipo funzionano così: il protagonista infrange regolarmente divieti, fa quello che gli aiutanti magici gli dicono di non fare, si complica la vita in ogni modo possibile. Alla fine ne uscirà sempre vincitore, magari sacrificando qualcosa, ma l’errore è inevitabile ed è parte della storia stessa, per cui è inutile pensarci troppo: meglio prenderla così come viene e guardare invece a come si risolve la situazione dopo l’errore. Di solito, dopo l’errore c’è l’espiazione.
Nelle due storie che abbiamo preso in esame, e in molte altre che avremmo potuto scegliere al loro posto, l’oggetto offerto dal gigante accecato è un anello magico. Non appena l’eroe se lo infila al dito, l’anello comincia a gridare per segnalare la propria posizione. Di fatto, è un sistema per aggirare temporaneamente la cecità del nemico e aggiungere ulteriore tensione alla storia: l’eroe non è ancora in salvo, perché adesso deve risolvere il problema dell’anello magico che annulla il vantaggio guadagnato accecando il mostro. E il problema sarà risolto in modo radicale: se l’anello non si sfila più dal dito, l’eroe taglia il dito e lo getta via, per attirare il mostro in un’altra direzione. Nella storia scozzese questa direzione sarà il burrone in cui il gigante cadrà e morirà. Nel racconto osseta il gigante troverà e mangerà il dito con l’anello, ma alla fine cadrà comunque nel burrone dove morirà, abboccando alle provocazioni urlate dall’eroe.
Nella storia greca manca l’anello magico, ma rimangono le provocazioni urlate dall’eroe una volta al sicuro. Tornato sulla nave, infatti, Odisseo non si lascia sfuggire l’occasione di vantarsi, urlando a Polifemo anche il proprio nome reale: un errore che pagherà caro nel prosieguo della storia, perché Poseidone avrà un motivo in più per essergli nemico e cercare di affogarlo in ogni occasione. Pur nell’assenza dell’oggetto magico, dunque, anche nell’Odissea rimane il motivo dell’eroe che si spara in un piede da solo, commettendo un errore che dovrà poi espiare sulla propria pelle. La fiaba giapponese, invece, è la più semplice di tutte, come dicevamo già: una volta scappato dalla caverna, il protagonista pensa solo a concludere il proprio lavoro e tornarsene alla nave, senza perdere tempo a fare sciocchezze.
Se la storia greca elimina il motivo dell’oggetto magico con cui il gigante accecato tenta l’eroe, come abbiamo appena visto, ricorre però a un altro sistema per accrescere la complessità della sua struttura: all’eroe che acceca il mostro e fugge nascosto tra i suoi animali, l’Odissea aggiunge il motivo dell’eroe che inganna il mostro utilizzando un nome falso. Niente di strano nell’utilizzare uno pseudonimo: in numerose società antiche il proprio nome è una cosa seria ed è pericoloso svelarlo a chi capita. Controllando il nome, puoi controllare la persona che lo porta: se pure questa credenza è ormai tramontata nell’epoca storica in cui queste storie furono raccontate, ancora se ne possono scorgere le tracce. Se ne trovano echi perfino nei poemi cavallereschi del Basso Medioevo e Chrétien de Troyes ci va a nozze, nascondendo il nome dei suoi eroi fino a che non accade un qualche evento fondamentale a svelarlo17. Ma questo è un altro discorso.
Se da un lato il ricorso al nome falso serve a mostrarci la scaltrezza di Odisseo, che usando il nome Nessuno indurrà Polifemo a sembrare pazzo quando si lamenterà coi suoi colleghi ciclopi, dall’altro lato il finale in cui Odisseo grida il proprio vero nome per pura vanteria ci mostra che sì, sarà anche scaltro e astuto, ma a volte lo è molto meno di quanto lui stesso creda. Presentarsi al nemico che hai appena accecato e derubato non è una buona idea, soprattutto quando è il figlio di un dio a cui sei già antipatico per altri motivi e che dispone di mille modi per rendere la tua vita un inferno. Ciò che succederà poi a Odisseo ci farà capire, nel caso avessimo ancora qualche dubbio, che gli dèi gli erano ostili, d’accordo, ma lui faceva proprio di tutto per andarsele a cercare. In fondo, però, questa è una caratteristica di base che ricorre in numerosi eroi e contribuisce a renderli eroi nelle storie.
È interessante poi notare come il motivo del nome falso sia usato proprio in una storia di gruppo, dove sia l’eroe sia il mostro hanno compagni attorno a sé. Il che è logico, perché il nome Nessuno serve anche a mettere l’eroe al sicuro dagli altri ciclopi che abitano l’isola. Ci fossero stati soltanto Odisseo e Polifemo, il trucco avrebbe potuto funzionare lo stesso, ma il suo effetto sarebbe stato molto più debole, almeno sul piano narrativo e scenico. L’oggetto magico, invece, è perfetto per lo scenario in cui eroe e mostro ingaggiano un duello uno contro uno, inganno contro inganno, e infatti lo troviamo nei racconti in cui non compaiono altri personaggi. Odisseo userà a propria volta un oggetto magico18 per sfidare il nemico di turno soltanto quando anche lui sarà da solo, ossia quando dovrà sconfiggere Circe e salvare i suoi uomini, ma questa è un’altra storia. Letteralmente.
Abbiamo dunque preso in esame quattro storie di giganti antropofagi con un solo occhio: possiamo chiamarli ciclopi, se vogliamo, anche se soltanto i personaggi della storia greca lo sono davvero, nel senso più proprio del termine. Abbiamo visto che sono ben distribuite nello spazio: un racconto proviene dalla Scozia celtica, un altro dall’antica Grecia, uno dagli osseti del Caucaso e l’ultimo dal Giappone meridionale. Sono solo un campione limitato delle storie esistenti, che si contano a centinaia, ma le ho scelte perché, a mio parere, sono abbastanza indicative di questo sottogenere. Si va dalla prima storia scritta in cui compaiono i ciclopi, ossia il nono libro dell’Odissea, fino a una fiaba giapponese umile e senza pretese, passando per l’epopea caucasica dei Narti, così cara agli ultimi eredi degli antichi sciti, e per le avventure fantastiche dei discendenti degli antichi celti.
Se per gli antichi greci i ciclopi erano personaggi ben noti, con una storia molto particolare che in certe forme risale ai tempi mitici della cosmogonia, per gli osseti del Caucaso i giganti erano i Waig, erano nemici ricorrenti dei Narti e potevano avere strane caratteristiche fisiche di ogni tipo: un solo occhio, la barba variopinta, molte teste e così via. Giganti concepiti come monocoli, anche se raramente descritti come monocoli, sembrano essere piuttosto comuni in Caucaso, perché li troviamo anche tra i circassi, altra popolazione della zona. Anche loro condividono le storie dei Narti e anche loro li facevano spesso entrare in conflitto con nemici di questo tipo: gli Ayniwzh sono il loro equivalente dei Waig, mostri pensati come monocoli ma descritti in questo modo solo quando è necessario. Si potrebbe dunque affermare che in Caucaso tutti i giganti sono ciclopi, in potenza, ma il loro avere un unico occhio si manifesta solo quando è necessario ai fini della trama.
I celti hanno raccontato storie di vari personaggi con un occhio solo, come il fabbro fatato con un solo occhio al centro della fronte che forgiò la spada di Finmac Coul, anche se i più famosi19 appartengono ai Fomori, i nemici cronici di tutti i popoli che avevano abitato l’Irlanda nei tempi mitici. Alcuni di questi esseri erano nati con un solo occhio, altri avevano perduto il secondo, altri ancora ne possedevano due, ma distribuiti in modo tale da farli sembrare monocoli (un occhio davanti e uno sulla nuca). Nel folklore giapponese troviamo diversi mostri con un occhio solo, ma anche divinità come il fabbro Ame no Mahitotsu: se li vogliamo anche cannibali, allora dobbiamo cercarli tra gli oni, che di solito avevano due occhi ma di tanto in tanto ne appaiono esemplari con uno solo. In tutti e quattro i casi, insomma, troviamo precedenti di mostri monocoli. A essere rilevante è che le quattro storie condividono la stessa trama di base.
Potrebbero essere storie che si sono sviluppate autonomamente in varie parti del mondo e per caso si ritrovano a essere estremamente simili. Potrebbe essere una storia che è nata in un posto specifico e si è poi diffusa nel continente eurasiatico e oltre, portata da nomadi e cantastorie, cambiando un poco strada facendo per adattarsi al pubblico e alla società. Se la seconda ipotesi appare in generale molto più verosimile e probabile della prima, ci pone di fronte al problema di determinare da dove sarebbe partita la storia. Dove e come è nato il racconto del gigante con un solo occhio, beffato e accecato dall’umano che avrebbe voluto divorare?
Abbiamo una sola certezza da cui partire: l’Odissea è il testo scritto più antico in cui compare una variante di questa storia. Una versione scritta risale al sesto secolo a.C., nell’Atene di Pisistrato. Il poema omerico in forma orale, invece, sarebbe nato almeno un paio di secoli prima, probabilmente mettendo assieme storie che circolavano singolarmente da chissà quanto tempo, diffuse dagli aedi lungo le coste del mar Egeo e forse oltre, sulle sponde del mar Nero, dove troviamo insediamenti greci già nel XI secolo a.C., probabilmente, e se ci sono arrivate le persone, ci sono arrivate anche le storie. Storie ricevute e tramandate di generazione in generazione, nei canti, magari con qualche modifica qui e là, variazioni locali. Da dove potrebbe essere partita la storia di Odisseo e Polifemo? La risposta è persa nelle nebbie del tempo, purtroppo, ma è curioso leggere che Strabone ipotizzava che Omero avesse preso i suoi ciclopi da una storia della Scizia, perché Aristeo aveva descritto in modo simile gli arimaspi, un popolo che viveva nell’estremo settentrione20.
Ipotizziamo per un momento che il racconto contenuto nel libro nono dell’Odissea sia davvero la versione originale e tutte le altre siano derivate da questa (ipotesi per assurdo, sia chiaro: la versione omerica è quasi sicuramente adattamento di un racconto diffuso tra il popolo e riarragiato a misura di Odisseo). Sarebbe possibile spiegarne la diffusione nel mondo? Entro certi limiti, sì. Tutte e quattro le storie che ho preso in esame potrebbero davvero essere la stessa storia, che avrebbe viaggiato da un popolo all’altro, dalla Grecia al Caucaso, alla Scozia, al Giappone. Non sarebbe neanche troppo difficile ricostruire un suo tragitto immaginario.
Nel corso del primo millennio a.C. il mar Nero fu un punto di incontro di grandi popolazioni, luogo di scambi commerciali e culturali. I greci vi avevano stabilito varie colonie, gli sciti ne occupavano le sponde settentrionali, i traci occupavano le aree che oggi sono Bulgaria e Romania, la penisola anatolica era divisa in vari regni, poi conquistati dall’impero persiano, e il Caucaso era la solita babele di popoli che è rimasta anche oggi. Verso la metà del millennio erano arrivati anche i celti a buttarsi nella mischia, spodestando diverse tribù tracie e poi infiltrandosi in Asia Minore, dove divennero i galati di cui i greci parlavano spesso male. Se da un lato queste popolazioni litigavano tra loro, dall’altro commerciavano pure, si scambiavano idee, si confrontavano. Lo scita Anacarsi nel VI secolo a.C. era diventato piuttosto noto nelle città greche come filosofo itinerante, giusto per fare un esempio, mentre schiavi sciti erano utilizzati ad Atene per il servizio di polizia urbana e derisi come alcolisti cronici nelle commedie teatrali.
La Teogonia di Esiodo, la stessa opera che ci presenta i ciclopi primordiali, ci racconta anche la storia di Prometeo e di come finì incatenato sul monti del Caucaso. Proprio in Caucaso, però, troviamo anche la storia di Pkharmat, che rubò il fuoco ai suoi dèi e fu da loro punito in modo simile al collega greco, oppure il georgiano Amirani, punito come Prometeo ma per ragioni differenti. Altri ladri di fuoco, incatenati o meno alle montagne, compaiono nelle storie dei circassi e almeno uno di questi ladri apparteneva ai Narti. Pura coincidenza? Oppure uno scambio culturale, che potrebbe essere andato dal Caucaso alla Grecia o viceversa? Sempre nel Caucaso vivono gli osseti, che raccontano una delle quattro storie prese in esame qui, e gli osseti sono (forse) discendenti degli antichi sciti, passando per gli alani. La storia del gigante con un solo occhio, accecato dal suo “pasto” non consenziente, potrebbe benissimo aver navigato da una sponda all’altra del mar Nero, in compagnia di tante altre storie.
Sempre nello stesso periodo, però, anche i celti si erano affacciati sul mar Nero. Che abbiano avuto contatti e scambi con gli sciti sembra essere dimostrato anche dalle somiglianze che troviamo tra le storie di questi due popoli, o almeno dei loro discendenti21, oltre che dai ritrovamenti archeologici. L’epopea osseta dei Narti racconta le imprese di un gruppo che potrebbe benissimo essere fratello degli eroi irlandesi, come li troviamo nel ciclo dell’Ulaid o di Finn: gente dai poteri sovrumani, sempre impegnata a razziare bestiame, fare baldoria, sfidarsi per il titolo di più forte del gruppo e così via, mentre figure soprannaturali di tanto in tanto appaiono a complicare le cose e innescare nuove avventure. Che i celti abbiano raccolto anche la storia del gigante monocolo per poi diffonderla nei propri territori non apparirebbe così improbabile: sono stati ipotizzati influssi caucasici perfino nel ciclo arturiano, dopotutto.
Se il primo millennio non ci piace, possiamo andare ancora più indietro. Nel corso delle migrazioni che sembrano avere avuto luogo nel secondo millennio a.C., per esempio, è probabile che si siano verificati contatti tra i popoli delle steppe centroasiatiche, che in futuro sarebbero arrivati anche in Caucaso, e quei popoli che, muovendosi verso ovest, sarebbero entrati nella storia come celti: le forti somiglianze tra le loro storie di razzie di bestiame sembrano parlare di un passato comune, in tempi lontani in cui la pastorizia contava molto più dell’agricoltura o del commercio, e il bestiame era la vera moneta di scambio. Questo potrebbe anche spiegare la maggiore vicinanza tra la versione scozzese e quella osseta della storia del gigante con un occhio solo.
Consideriamo anche quanto scriveva nel 1971 Vasilij Abaev nel suo breve articolo Su alcuni aspetti linguistici della questione scito-sarmatica. In seguito a studi che localizzavano isoglosse che collegavano la lingua ossetica e il latino, di fronte all’impossibilità che i contatti fossero avvenuti dopo l’arrivo dei popoli latini nella penisola italica (non esistono testimonianze di osseti o di sciti in Italia), Abaev ipotizzava che gli scambi linguistici fossero avvenuti prima. Quando? Entro la fine del secondo millennio a.C., quando i futuri popoli greci, ittiti e armeni si erano già separati dalla ipotetica grande comunità dei popoli indoeuropei, ma altri gruppi come i latini, i celti, gli slavi e i germani vivevano ancora nell’Europa centrale e orientale. I loro vicini di casa, un poco più a est, sarebbero stati propri gli sciti, coi quali avrebbero avuto scambi linguistici e forse anche culturali. Tra gli esempi di somiglianze linguistiche tra latino e ossetico, Abaev ci indica la parola “donnola”, mustela in latino e mustælæg in ossetico, ma anche i nomi Volcanus e Wærgon, sempre in latino e in ossetico. Altre somiglianze si avrebbero poi tra ossetico e celtico, e così via.
Se ancora non siamo convinti del collegamento tra i celti e le popolazioni affacciate sul mar Nero, possiamo ricordare come nella cronaca delle cinque invasioni22, che compone la parte più mitica delle saghe irlandesi, i greci appaiono di continuo come antenati dei popoli irlandesi. La prima invasione sarebbe partita proprio da una zona della Grecia, raggiungendo l’Irlanda sotto la guida di un certo Partholon. La seconda invasione è attribuita a un popolo guidato da Nemed e indicato come “greci di Scizia”. La terza invasione è quella dei Fir Bolg, discendenti alla lontana di Nemed fuggiti dalla Grecia. La quarta invasione è quella dei Tuatha dé Danann, che vissero a lungo tra ateniesi e filistei, come alleati dei primi contro i secondi. La quinta e ultima invasione è quella dei figli di Mil23, che prima di arrivare in Irlanda erano emigrati dalla Scizia in Grecia, per poi spostarsi in Egitto. Sempre gli stessi luoghi e popoli che spuntano, dunque. Può bastare?
Di passaggio, possiamo citare anche lo Ynglinga saga, testo scandinavo dove si racconta, a metà tra il mito e la leggenda, come le divinità del pantheon nordico, qui umanizzate in tutto e per tutto, in un primo tempo avrebbero vissuto sulle sponde del Tanais24, dove avevano costruito un grande regno, per poi emigrare verso nord guidate dal loro re Odino. Dopo una prima tappa in Germania e una seconda in Danimarca, sarebbero infine giunte in Svezia, dove si sarebbero insediate stabilmente. Adesso potremmo agganciare alla nostra “teoria” sulle origini del racconto del mostro con un solo occhio anche tutte le sue varianti trovate nei paesi germanici, che non abbiamo esaminato ma che esistono: anche loro proverrebbero dal grande calderone del mar Nero, dove nel primo millennio a.C. popoli diversi si incontrarono e scontrarono, scambiandosi merci, storie e idee, tra cui le avventure di un eroe che seppe ingannare il gigante che lo voleva divorare.
Senza spostarci da quella zona, possiamo anche anticipare tutto di un millennio, come già dicevo. I presunti popoli indoeuropei, infatti, avevano già cominciato le proprie migrazioni che li avrebbero portati in giro per Europa e Asia, ma molto di loro erano ancora stanziati nelle steppe vicino al mar Nero, almeno all’inizio del secondo millennio. I futuri popoli celti e germanici si sarebbero staccati entro la metà del secondo millennio a.C., ma fino ad allora erano rimasti assieme ai popoli della Russia occidentale e possiamo fantasticare che le storie di migrazioni verso Irlanda e Scandinavia conservino una traccia di movimenti reali, anche se avvolti ormai nel mito. Mar Nero ed Egeo, greci e sciti, ritornano di continuo in quelle storie, e tutti questi popoli si sono tramandati anche racconti di ciclopi mangiatori di uomini, accecati e beffati dalla loro preda. Interessante, direi.
Resta da incastrare il Giappone, che sicuramente non aveva propri rappresentanti lungo le coste del mar Nero nel primo millennio a.C., a differenza degli altri tre popoli. Se è vero che i giapponesi non sono mai andati a mescolarsi alle popolazioni europee, è vero però il contrario: furono proprio le popolazioni europee a presentarsi a casa loro, a un certo punto. Alla metà del XVI secolo, infatti, in Giappone giunsero i primi missionari cristiani, sulla scia delle esplorazioni e delle conquiste che la Spagna e il Portogallo avevano compiuto nel sudest asiatico e dintorni. La loro base di azione fu proprio l’isola di Kyūshū, la stessa da cui proviene la fiaba che abbiamo preso in esame. Nel breve periodo in cui i missionari furono tollerati in Giappone, essi allestirono una stamperia nella loro missione, pubblicando alcuni testi occidentali. Testi di propaganda religiosa, ovvio, ma non solo.
Un libro che i missionari cristiani pubblicarono in Giappone fu una raccolta di favole di Esopo, che comparve in lingua giapponese col titolo di Isoho monogatari. Fu un successo inaspettato. Piacque così tanto che, anche dopo la cacciata dei missionari nel XVII secolo e l’inizio della politica del sakoku, che prevedeva una chiusura totale del Giappone al mondo esterno, le favole di Esopo furono uno dei pochissimi libri occidentali che continuarono a circolare liberamente. Erano soltanto simpatiche storielle di animali, dopotutto; erano educative, si concludevano con una morale spesso ben vista dal governo o quantomeno tollerabile. Che problemi potevano dare?
Non ne diedero, in effetti. Proprio come non ha dato problemi lo Isoho monogatari, la raccolta delle favole di Esopo, potrebbe non avere dato problemi l’introduzione dell’Odissea, sempre nello stesso periodo e sempre dagli stessi missionari. Non esistono prove a riguardo, a differenza delle copie che furono stampate dello Isoho monogatari e che tuttora ci restano, ma diversi intellettuali giapponesi, nel corso dell’ultimo secolo abbondante, hanno sostenuto questa teoria, soprattutto commentando una particolare storia giapponese che presenta indiscutibili somiglianze (ma anche differenze, sia chiaro) con le disavventure del nostro amato Odisseo.
La storia in questione è quella del ministro Yuri[kusa]waka25, un personaggio leggendario che gli dèi avrebbero scelto per combattere contro i mongoli quando questi avevano tentato di invadere il Giappone. Yuriwaka condivideva alcune caratteristiche con Odisseo, specie nella seconda parte della sua storia: rimaneva lontano da casa per anni, esiliato su un’isoletta remota, ritornava a fatica grazie a un intervento divino, era irriconoscibile o quasi e usava il suo possente arco per dimostrare la propria identità e sconfiggere il traditore che aveva usurpato il governo della sua provincia e che insidiava pure sua moglie, che però era rimasta fedele al marito disperso e non aveva mai ceduto, proprio come la “collega” Penelope.
Sulla base di questi e altri elementi, diversi intellettuali e letterati giapponesi, a partire da Tsubouchi Shōyo nei primi del Novecento, hanno considerato la leggenda di Yuriwaka come una trasposizione giapponese dell’Odissea o almeno della figura di Odisseo, eliminando il grosso degli elementi avventurosi e fiabeschi che troviamo nel poema omerico. Secondo loro, l’Odissea sarebbe stata introdotta in Giappone dai missionari cristiani nel XVI secolo e rapidamente adattata, per ricavarne questa storia. I tempi sono molto stretti, perché intercorre un anno scarso tra l’arrivo dei missionari e la prima rappresentazione teatrale della storia di Yuriwaka, ma l’ipotesi era stata accettata, per un poco. Poi si è scoperto che un riferimento a Yurikusa-waka esisteva già nel 1514, molto prima che i missionari mettessero piede in Giappone (nel 1550), e tutto si è complicato parecchio26.
La discussione sull’origine della storia di Yuriwaka non è però rilevante, al momento. Tutto ciò che ci interessa è che i missionari cristiani si erano stabiliti sull’isola di Kyūshū, il territorio governato da Yuriwaka si trovava nell’isola di Kyūshū, le leggende sul suo conto sono diffuse nell’intero Giappone ma concentrate soprattutto a Kyūshū. Infine, la fiaba dell’oni con un solo occhio che qui abbiamo preso in esame è raccontata proprio a Kyūshū. Sappiamo che i missionari avevano stampato e diffuso alcuni testi classici occidentali, come le favole di Esopo, e possediamo pure alcuni esemplari di quel testo. È possibile che abbiano diffuso anche l’Odissea, forse per intero o forse solo in parte, magari gli episodi più interessanti che potevano anche funzionare da soli, tipo l’avventura di Odisseo nella caverna di Polifemo? Possibile, certo. Se sia avvenuto davvero, però, non lo sappiamo: è soltanto una ipotesi. Tsubouchi Shōyo e colleghi credevano che fosse accaduto realmente qualcosa del genere, in apparenza. Altro non sappiamo.
Il seme da cui è germogliata la fiaba del gigante Gorō potrebbe davvero essere giunto in Giappone attraverso i missionari cristiani del XVI secolo. Questo spiegherebbe anche le somiglianze notevoli tra le due storie, a partire dalla comune ambientazione marinara: dopo avere ascoltato una qualche versione del racconto di Polifemo, i giapponesi dell’epoca potrebbero averlo rielaborato per farlo rientrare meglio nel loro ambiente tradizionale, col ciclope che diventa un oni e così via. In questo modo, avremmo collegato tra loro tutte e quattro le storie, fornendo una possibile spiegazione di come si siano diffuse in regioni così distanti tra loro.
Tutto ciò risponde davvero alla domanda sull’origine delle storie del gigante con un solo occhio e lo scaltro avventuriero che lo beffa, sfuggendo poi in mezzo al suo bestiame? No. Tutto questo mostra solo che, selezionando con cura i dati da esaminare ed escludendo tutti gli altri, è possibile costruire teorie plausibili per spiegare un qualsiasi avvenimento. Perché le storie di “ciclopi” non sono solo le quattro che abbiamo preso in esame qui: ne esistono a decine, sparse in almeno tre continenti. Se è possibile legare assieme alcune di loro, ricostruendo un ipotetico percorso di diffusione con alcuni balzi di fede, riuscire a legare assieme tutte le storie esistenti e il loro itinerario di viaggio è un altro discorso.
L’ipotesi più realistica, al momento, è che sia esistita da qualche parte una storia “primordiale”, in tempi molto remoti: da questa discenderebbero tutte le altre, inclusa quella contenuta nell’Odissea. Questa storia non sarebbe ovviamente rimasta immutata nel tempo, ma sarebbe cambiata di volta in volta in base ai gusti dei popoli che la raccontavano. Troviamo così un filone che, nato magari in Caucaso o in un qualche altro punto dell’Eurasia, avrebbe inserito nella storia il motivo dell’oggetto magico con cui il gigante accecato tenta il suo avversario. O forse questo motivo era già presente nella storia primordiale e alcuni popoli lo hanno eliminato, perché non era in sintonia coi loro gusti: nell’Odissea non c’è, ma troviamo invece il motivo del nome falso con cui ingannare il nemico, che rende pressoché obbligatorio introdurre la comunità di ciclopi per dare un senso al trucco. Possiamo cercare di ricostruire il percorso di diffusione della storia osservando la presenza o l’assenza dei vari motivi extra, questo sì. Determinare dove sia nata e come si presentasse in origine, però, è un lavoro molto più complicato e, forse, ormai impossibile.
Una versione povera di questa storia compare anche nelle Mille e una notte, tanto per dire. Nella sua terza avventura, Sindbad e i suoi marinai naufragano sull’isola di un gigante che vive in un palazzo diroccato e ha una grande passione per la carne umana. La sua tana non è bloccata, ma è l’isola stessa a fungere da carcere, dato che i naufraghi non hanno una imbarcazione per fuggire. Il gigante si mangia i marinai di Sindbad uno alla volta, in ordine di grassezza, fino a che il nostro eroe non guida i superstiti al contrattacco: con due spiedi di ferro arroventati accecheranno il mostro (che ha due occhi funzionanti), per poi fuggire su una zattera messa assieme alla meglio. Niente animali, niente anelli, niente unico occhio: resta il gigante orrendo e antropofago, accecato dalle sue vittime e incapace di ricatturarle. Nonostante tutti gli elementi che mancano, la storia di base è riconoscibile a prima vista.
Altrettanto riconoscibile come parente alla lontana di Polifemo è anche il mostruoso Tepegöz, gigante antropofago con un solo occhio al centro della fronte, protagonista in negativo di una storia contenuta nel Libro di Dede Korkut, una raccolta di racconti epici proveniente dall'Asia Centrale. La sua avventura, di per sé, si presenta come una mescolanza non molto ben amalgamata di motivi diversi, sulla cui origine non mi sento di azzardare alcun tipo di ipotesi27: il mostro è però un gigante, ha un occhio solo al centro della faccia, mangia esseri umani, è accecato con un palo rovente e il suo avversario fugge indossando la pelle di un ovino. Questo è più che sufficiente per inserire la storia nella nostra lista. Un anello compare anche qui, ma la sua funzione è diversa ed è pure parecchio confusa.
Se è difficile trovarne l’origine, altrettanto difficile potrebbe essere determinare il significato di questa storia, ammesso che avesse un significato preciso. Potrebbe essere un semplice racconto, qualcosa per intrattenersi e passare il tempo, come molte fiabe ancora oggi: la storia di come l’eroe usa la propria astuzia per salvarsi dal mostro spaventoso. Potrebbe però anche essere stato qualcosa di più, all’inizio. Una interpretazione proposta per questa storia, almeno nella sua versione omerica, è che descriva in una forma alquanto romanzata un’antica prova di iniziazione, come potevano essere diffuse tra popolazioni a uno stadio molto arcaico. Nella storia di Polifemo, per esempio, nel suo Odysseus versus the Cyclops28 Bremmer sostiene che si possono individuare diversi motivi tipici di una cerimonia di iniziazione: un gruppo di guerrieri rinchiusi in una caverna lontana e isolata, la minaccia di essere divorati, la necessità di indossare pelli di animale, la fuga conclusiva con ritorno alla normalità.
Se questo può coincidere col racconto presente nell’Odissea, perché è l’unico dei quattro in cui troviamo un gruppo di persone, è altrettanto vero che non è difficile estendere il modello anche alle altre storie, considerandole iniziazioni individuali anziché collettive. Se così vogliamo, ovvio. Come cerimonia di passaggio, abbiamo di fronte un nemico contraddistinto da una chiara anomalia fisica: un occhio solo. Questo nemico ci vuole divorare. Per superare la prova, dobbiamo trovare la debolezza del nemico e accecarlo. Non solo: per tornare alla luce del sole, o forse rinascere, dobbiamo indossare pelli di animale, o in altri termini trasformarci in animali29, per un poco. Il premio è il superamento della prova, con il bottino di animali rubati come dimostrazione concreta del nostro successo e del livello superiore di maturità che abbiamo acquisito.
Plausibile? In linea di massima, se vogliamo: Vladimir Propp era di questa opinione. La storia rappresenterebbe sia una descrizione della cerimonia, sia una indicazione su come debba essere affrontata e superata la prova: mito e rito come due facce dello stesso atto, secondo uno schema molto comune. Che la storia sia nata davvero così è un altro discorso, ma possiamo aggiungere anche questa ipotesi alla lista, se lo desideriamo, magari assieme a quella che vede nel ciclope una figura solare. Questa interpretazione si spiegherebbe col suo aspetto fisico, prima di tutto: ha un solo occhio al centro del volto e quell’occhio è rotondo, come una ruota30, immagine spesso usata per simboleggiare il sole. Come se non bastasse, il ciclope esce ogni mattina all’alba dalla sua caverna, per condurre al pascolo il bestiame, e al tramonto torna a rinchiudersi. L’ariete è un animale associato spesso al sole, peraltro, ed è proprio un ariete a guidare il gregge del ciclope. E così via. Il principio generale è sempre lo stesso: se scegli una certa interpretazione, potrai sempre trovare indizi a sufficienza per sostenere che è corretta.
La simbologia solare non ci piace? Nessun problema, il vasto patrimonio di miti indoeuropei ci permette benissimo di accostare la figura del ciclope alla notte, all’oscurità e al regno dei morti, magari scambiando il sole con la luna. Nella mitologia lituana, infatti, troviamo Velinas (detto anche Velnias), che tra le altre attività figura anche come dio dei morti, il dio nero che aveva collaborato col dio bianco Dievas per creare il mondo. Tra i campi che ricadevano sotto il suo dominio troviamo i contratti, le acque, le pietre, la prosperità e il bestiame, ma è soprattutto il suo aspetto che ci permette di accostarlo al ciclope. Velinas era infatti rappresentato spesso e volentieri come un gigante, oppure come un uomo dotato di forza colossale, capace di sollevare enormi macigni senza problemi. Aveva inoltre un solo occhio, grande e rotondo, posto al centro della faccia: un occhio magico, che gli garantiva il dono della profezia e una conoscenza smisurata. Questo non lo rendeva però più simpatico, perché nelle storie compariva spesso come figura rabbiosa e implacabile, che percorreva la notte in cerca di vittime: una sorta di incrocio tra la greca Ecate e il Tezcatlipoca azteco, insomma, con una spruzzata di Odino a insaporire il tutto.
Sulla base di questo, si potrebbe dunque fantasticare sull’esistenza di una qualche figura nella mitologia protoindoeuropea, dotata di un solo occhio e collegata ai morti, che avrebbe generato nuovi personaggi nelle varie popolazioni: verso nord divinità con un occhio solo e collegate ai morti, come Velinas e Odino, mentre verso sud i vari tipi di ciclopi, non proprio divini e non proprio saggi, ma collegati a doti pratiche più umane, come la metallurgia, l’architettura e la pastorizia. Non sarebbe neppure una speculazione troppo surreale, alla fine, paragonata a molte altre che si possono leggere qui e là su argomenti di ogni tipo. Non è comunque una ipotesi da prendere sul serio, sia chiaro: è solo un modo per mostrare la frequenza con cui misteriose figure monocole compaiono nei miti indoeuropei, a volte intrecciandosi e a volte mischiandosi.
Se poi vogliamo, possiamo combinare queste interpretazioni più o meno fantastiche e dire che la storia del ciclope era una cerimonia di iniziazione in cui il candidato era dapprima rinchiuso in una caverna che simulava al tempo stesso il sepolcro e l’utero: bloccata da una pietra enorme come certe sepolture già diffuse nel periodo megalitico, la caverna era un luogo chiuso, buio, nelle viscere della terra. Il nemico da superare era un dio della morte, ma anche un creatore, a modo suo, e il candidato doveva affrontare la paura della morte, la minaccia di essere divorato (la scarnificazione dei morti, forse). Accecava il nemico, chiudendo il suo occhio magico, e si trasformava poi in animale, indossando simbolicamente ma non troppo la sua pelle (aggiungiamo alla macedonia anche gli animali totemici, crepi l’avarizia). Era infine il nemico stesso a condurlo alla rinascita o rigenerazione, spostando la pietra e spingendolo fuori dalla caverna, come una levatrice sui generis. O qualcosa del genere: io non sono esperto di antichi riti iniziatici e non saprei inventarne uno che sia realistico e convincente.
Sia come sia, questa storia è diffusa in lungo e in largo tra le popolazioni eurasiatiche e la possiamo trovare anche in alcune zone dell’Africa. Quale sia la sua origine e quale il suo significato sono punti ancora dibattuti e forse lo resteranno per sempre, ma è un dato di fatto che questa storia sembra spuntare un poco ovunque, come notava già Jakob Grimm mentre raccoglieva fiabe da inserire nella sua ben nota antologia. Qui ne abbiamo presentate alcune a titolo di esempio31, per mostrarne in concreto la diffusione e per proporre anche qualche spiegazione. Sono ipotesi, sia chiaro, e come ipotesi vanno prese, non certo come verità. Un giorno forse sapremo di più su questa storia, ma purtroppo quel giorno non è oggi.
Nel frattempo, però, sappiamo almeno come cavarcela se un pastore gigantesco con un solo occhio dovesse cercare di divorarci, che sia un ciclope greco, un waig osseta, un tartaro basco o altro ancora: millenni di storie non possono avere sbagliato, no?
NOTE
2 - Nell’Odissea non è mai specificato che Polifemo avesse un solo occhio, ma doveva per forza essere così, altrimenti il trucco non avrebbe funzionato. Probabilmente non è specificato perché tutti i greci dell’epoca sapevano che i ciclopi avevano un occhio solo, proprio come non è mai specificato l’aspetto delle sirene perché tutti sapevano che erano uccelli con la testa di donna, come sono peraltro raffigurate in numerose pitture vascolari dell’antica Grecia. I ciclopi, invece, erano dipinti a volte con un occhio solo e a volte con tre occhi, modello Shiva. Così è la vita, o almeno l’arte greco-romana.
3 - A quanto pare questo mostro aveva due occhi, ma soltanto uno funzionava. Alla sua prima apparizione, in ogni caso, è nominato un occhio solo, forse perché l’occhio invalido era coperto in un qualche modo.
4 - La minaccia iniziale della marea non è più menzionata. Forse il narratore se l’è dimenticata, ma così è la storia.
5 - Discussioni di questo tipo sono l’antefatto di parecchie loro avventure. I Narti sono quel genere di popolo.
6 - I giganti nelle storie ossete dei Narti sono chiamati Waig e hanno spesso strane caratteristiche fisiche. Questo ha un solo occhio, ma non è specificato se sia così dalla nascita, oppure se un tempo avesse avuto due occhi pure lui. Nelle storie di altri due eroi Narti, ossia Soslan e Batraz, appaiono altri Waig con un occhio solo, ma in entrambi i casi è specificato che loro ne avevano perso uno in combattimento. Qui non si dice alcunché. L’aggettivo usato in russo, kribòi, mi fa pensare a una mutilazione e lo troviamo anche nella descrizione del Waig guercio sconfitto da Batraz, per esempio.
7 - Città all’estremità sudoccidentale dell’isola di Kyūshū.
8 - Gli oni sono i classici cattivi delle fiabe giapponesi: è una specie di incrocio tra un orco e un demone, che a seconda della storia può assomigliare più all’uno o all’altro. A volte si possono incontrare oni che non sono malvagi, ma non è il caso in questo racconto.
9 - Da kyklos, “cerchio”, e ops, “occhio”, secondo l’etimologia più famosa e diffusa. Sono state proposte anche etimologie alternative, ma non è il caso di prenderle in esame qui.
10 - Polifemo era sicuramente figlio di Poseidone. L’origine degli altri ciclopi che vivevano vicino a lui è meno chiara.
11 - Nonché russi, ma provenienti da altre zone. Tolstoj nel 1852 trascrisse due canti ceceni e commentò quanto fossero belle quelle storie dei Narti, sentite probabilmente durante un suo viaggio in Caucaso.
12 - Come già detto, nelle storie dei Narti esistono i Waig, giganti che compaiono spesso come nemici degli eroi, ma non hanno una fisionomia unica e definita. Sono giganti, d’accordo, ma il resto varia a seconda del racconto, come può variare anche la loro abitazione: a volte vivono in grotte, a volte in torri a sette piani, a volte in castelli. Questo rende necessario specificare di volta in volta come sia fatto quel particolare esemplare di Waig, perché non ne esiste un prototipo fisso, almeno non nella tradizione osseta.
13 - Una cronaca cinese del II, III secolo d.C. ci segnala con tono sorpreso che in Giappone non ci sono cavalli.
14 - Forse proprio in Corea, chissà, dove i mostri con un solo occhio sono figure ricorrenti nel folklore locale.
15 - Con qualche dubbio per la storia osseta: il gigante che vi compare potrebbe infatti essere orbo, come già dicevo.
16 - Nelle storie dei Narti questo motivo appare anche in altre occasioni, quando l’eroe ha sconfitto il gigante di turno. A Soslan, figlio adottivo di Uryzmag, capita più volte nel corso di una stessa avventura, per esempio, ma ogni volta ne esce indenne perché lui è un eroe più scaltro e intelligente rispetto alla media dei Narti, che invece tendono a utilizzare la testa soltanto come clava.
17 - Il Conte du Graal ne è un caso estremo: lo stesso Parsifal, il protagonista, non conosce il proprio nome e dovrà attendere che a dirglielo sia un altro personaggio, una misteriosa cugina che passava di lì, prima di poterlo usare per presentarsi. È forse però una tradizione di famiglia, dato che storie tedesche gli attribuiscono Lohengrin come figlio, un altro eroe la cui identità doveva essere tenuta segreta anche alla sua stessa moglie.
18 - Una pianta magica, d’accordo, e consegnata da Hermes, ma il principio è lo stesso.
19 - Il più famoso di tutti è probabilmente Balor, gigante con un solo occhio (davanti) il cui sguardo uccideva ogni nemico o lo privava di tutte le forze: una specie di incrocio tra un ciclope e la gorgone Medusa, insomma, oppure una forma molto potente di malocchio, se preferite.
20 - Erodoto, che è piuttosto dubbioso su di loro, ci riferisce che il nome arimaspi deriverebbe dalla lingua scita, dove “àrima” significherebbe “uno” , mentre “spu” significherebbe “occhio”. Secondo gli sciti, gli arimaspi vivevano più a nord di loro. O così qualcuno aveva raccontato a Erodoto, quantomeno.
21 - Ricordiamo anche i celtosciti di cui parla Strabone, accostandoli ai celtiberi. I secondi sono esistiti davvero, sui primi ci sono parecchi dubbi, ma già il fatto che si potesse immaginare una popolazione mista di celti e sciti ci suggerisce che tra i due gruppi ci furono contatti di un qualche tipo, con possibili scambi culturali.
22 - Ho deliberatamente rimosso ogni riferimento a Noè, perché ci sono limiti anche nelle storie inventate. Le versioni degli antichi racconti irlandesi che possediamo oggi sono tutte state scritte da monaci medievali, che spesso non si ponevano troppi scrupoli ad aggiungere ingredienti cristiani e/o biblici. Infilare la famiglia di Noè in quella che dovrebbe essere la più antica cronaca mitologica dell’Irlanda celtica, però, va ben oltre ogni forma di sospensione dell’incredulità che io sia disposto a infliggermi. Posso accettare gli sciti, perché la Scizia è molto più esotica della Scozia e la differenza è di una sola lettera, ma Noè no, davvero. Va comunque ricordato che nel Medioevo andava di moda inventarsi origini troiane o greche per il proprio popolo preferito, come l'ipotetico Brutus discendente di Enea che avrebbe dato il nome alla Britannia. Virgilio era molto famoso tra i pochi che sapevano leggere e scrivere, capite.
23 - Quelli che poi sarebbero diventati i celti che noi conosciamo.
24 - L’attuale fiume Don.
25 - Il nome ufficiale del personaggio è Yuriwaka, ma ci si può imbattere anche nella forma Yurikusawaka, soprattutto quando a parlare è un paladino della origine “omerica” di questa storia. Yurikusa assomiglia abbastanza al modo in cui il latino Ulysses potrebbe essere traslitterato in giapponese e Yurikusa-waka è il nome che troviamo nella più antica annotazione scritta riguardo a questo personaggio, risalente al 1514.
26 - Per aggirare questo problema è stato proposto lo Alpamysh come anello di congiunzione tra l’Odissea e la storia di Yuriwaka, ad esempio. Lo Alpamysh è un poema epico diffuso nell’Asia Centrale durante il Basso Medioevo e in effetti presenta somiglianze notevoli sia con l’Odissea, sia con la storia di Yuriwaka. Come avrebbe fatto ad arrivare in Giappone entro l’inizio del 1500, però, e in una lingua che non fosse il dialetto turco in cui l’originale era redatto, è un altro paio di maniche ed è un discorso troppo lungo da affrontare qui.
27 - Chiunque fosse interessato a un’analisi della storia, però, può consultare C. S. Mundy, “Polyphemus and Tepegoz”, in Bulletin of the School of Oriental and African Studies, XVIII (1956), pp. 279–302.
28 - Nonostante il titolo, giuro che non è un peplum anni ‘60. Davvero!
29 - Trasformarsi in un animale indossandone la pelle è un motivo che ritorna nelle storie e nelle tradizioni di quasi tutto il mondo, dall’America all’Eurasia, dall’Africa all’Oceania. Se indossi la pelle di un animale, tu ti trasformi in tutto e per tutto in quell’animale, pur conservando a volte alcuni tratti umani, come la capacità di parlare; se un animale si toglie la pelle, di contro, spesso diventa un essere umano. Gli esempi sono troppo numerosi per elencarli qui ed è un motivo sopravvissuto fino a epoche recenti in Europa attraverso le storie del sabba e delle streghe. Aprite una qualunque raccolta di fiabe e troverete almeno un esempio o dieci, tra persone trasformate in animale che tornano umane togliendosi la pelle di bestia, fino alle classiche fanciulle-cigno e variazioni sul tema. Avvolgersi in una pelle di animale può anche servire per entrare nel regno dei morti o per uscirne, in certe storie e tradizioni, forse perché ci si collega agli animali psicopompi (per entrare), nonché a una forma particolare di utero da cui rinascere (per uscire).
30 - Per i sostenitori di questa interpretazione, il kyklos nel sostantivo “ciclope” sarebbe da tradurre come “ruota”, che è da intendersi ovviamente come “ruota solare”, nello specifico. Ruote infuocate compaiono nelle cerimonie dedicate al sole presso diverse popolazioni, per esempio, e spesso erano fatte rotolare lungo i fianchi delle colline durante quella che oggi è per noi la notte di san Giovanni.
31 - E si potrebbe continuare. Nelle Fiabe italiane raccolte da Italo Calvino, ad esempio, troviamo una storia toscana che presenta più di una somiglianza con l’avventura scozzese di Conall. È intitolata Il fiorentino, il gigante è strabico e non monocolo, ma il protagonista ricorre allo stesso trucco di Conall per accecarlo e salvarsi; l’anello magico non parla, ma funziona come una zavorra che impedisce all’eroe di fuggire, costringendolo a mozzarsi il dito in cui lo ha infilato. Nel complesso, non si può negare che appartenga alla stessa famiglia di storie che abbiamo esaminato qui. Sempre nella raccolta di Calvino, la fiaba abruzzese Occhio-in-fronte ci racconta di un frate alle prese con un gigante che ha un solo occhio al centro della faccia: abbiamo la grotta, il gregge di cento pecore per mimetizzarsi, lo spiedo arroventato con cui accecarlo, il montone scuoiato e anche l’anello magico, che stavolta serve come calamita per attirare il fuggiasco verso il mostro. Finisce col dito mozzato e il frate che scappa. Familiare, vero?