Adriano - racconti e altro

Tre storie da Izumo

I fudoki sono testi redatti nel Giappone del periodo Nara, ossia nell’ottavo secolo, su ordine della corte imperiale. Questi testi dovevano servire a descrivere le singole regioni che componevano l’impero giapponese, per fornire una panoramica generale delle province imperiali: erano inclusi i dati sulla popolazione, sulle risorse di ogni comunità, sulle strade, su templi e santuari e così via. Se a prima vista possono sembrare noiosi e burocratici, e in parte lo sono, in realtà contengono anche informazioni di altro tipo: miti e leggende locali, tradizioni popolari, note di colore legate alla toponomastica della regione. Raramente troviamo storie complete, ma abbondano i frammenti e gli scampoli di storie che, senza i fudoki, sarebbero andate perse per sempre. Qualcosa di simile alle descrizioni della Grecia che ci ha lasciato Pausania, per intenderci.

In molti casi, purtroppo, sono andati persi anche i fudoki, nel corso dei secoli. Oggi ne rimangono soltanto cinque, e di questi cinque uno solo è completo: il fudoki della regione di Izumo, territorio sulla costa occidentale dell’isola principale del Giappone, quasi di fronte alla penisola coreana. Una fortuna nella sfortuna, perché il territorio e le divinità di Izumo hanno avuto un peso notevole nella storia antica del Giappone e hanno occupato un ruolo di primo piano nella mitologia nazionale. Un ruolo da cattivi, spesso. Il ruolo di chi è destinato a perdere, per lasciare spazio ai Buoni, ossia alla corte di Yamato, i fondatori dell’impero giapponese. Proprio questo fatto, però, rende ancora più interessanti le storie che troviamo nello Izumo fudoki: miti e leggende che sono spesso alternative rispetto alla storia ufficiale stabilita dal Kojiki e dal Nihonshoki.

È proprio di alcune di queste storie che si parlerà qui. Storie di divinità diverse ma non separate, storie che sono legate dal filo conduttore del fiume Hino, il principale fiume della regione di Izumo. Fiume Hino o fiume Hi, a seconda di come lo si vuole interpretare: entrambe le letture sono lecite, sulla base del testo. Oggi questo fiume si chiama Hii e continua a scorrere attraverso le terre che furono di Izumo. Non come vi scorreva un tempo, perché la sua forma è cambiata molto durante i secoli. Le sue storie no. Le presenteremo qui, assieme a tre divinità che ne sono protagoniste e che sono imparentate tra loro, da un certo punto di vista: Omizunu, Susanoo e Ajisuki. Tre storie di lotta, anche, a volte contro la natura e a volte contro l’ordinamento sociale.

Procediamo dunque con le loro avventure lungo il corso del fiume Hino, per vedere quali impronte vi abbiano lasciato e cosa ci possono insegnare sulla vita di quei tempi andati.

Il dio che trascinava la terra

Lo Izumo fudoki si apre con una storia piuttosto interessante, di cui non abbiamo altre testimonianze in testi di quel periodo o successivi: è la storia del kunihiki, ossia il trascinamento del paese, con cui un dio avrebbe allargato la regione di Izumo in un tempo passato. Il dio in questione è Yatsukamizu Omizunu1, una divinità acquatica che è spesso collegata al fiume principale di quel territorio, ossia il fiume Hino (chiamato oggi Hii). Non un dio particolarmente famoso, almeno al di fuori di Izumo, ma un dio molto importante per la gente del posto, che doveva sperimentare di continuo la sua forza e le sue azioni, nel bene o nel male.

La storia ci racconta che Yatsukamizu Omizunu, un giorno, si guardò attorno e giudico che, quando gli dei creatori del Giappone avevano fatto il paese di Izumo, lo avevano creato troppo piccolo: era poco più di una strisciolina di terra di fronte al mare. C’era decisamente bisogno di più spazio e qualcuno ci avrebbe dovuto pensare. Quel qualcuno sarebbe stato lui. Era un dio, dopotutto. Avrebbe allargato il paese raccogliendo terra dalle regioni più vicine, che ne avevano chiaramente in abbondanza e potevano anche cederne un poco a lui, per arricchire il suo piccolo territorio. Non c’era niente di male, giusto? Si trattava solo di spostare qualcosa.

Così Omizunu guardò verso il capo di Shiragi2 e notò che c’era terra in grande quantità: di sicuro non si sarebbe lamentato nessuno, se lui ne avesse preso un pezzo. Armato di una grossa vanga fatta come il petto di una fanciulla, ossia piatta e larga, il dio affondò l’attrezzo nel terreno, come se lo stesse conficcando nelle branchie di un grosso pesce, e tirò con forza, staccandone una fetta. La legò con una corda e la trascinò pian piano, come se stesse tirando a riva un pesce. Avvicinandosi alla costa di Izumo, sembrava proprio una grossa chiatta trascinata dalla forza prodigiosa del dio, che gridava «Vieni, terra! Vieni da me!». Aggiunse quel pezzo di terra al capo Kizuki3, fissandolo ben bene al monte Sahime. La corda che il dio usò per trascinarlo è la lunga spiaggia di Sono.

Guardando verso Saki, il dio Omizunu vide che anche da quella parte c’era terra extra che poteva essere tolta senza problemi. Presa di nuovo la sua vanga fatta come il petto di una fanciulla, ossia piatta e larga, il dio l’affondò nel terreno, come se la stesse conficcando nelle branchie di un grosso pesce, e tirò con forza, staccandone un bel pezzo. Lo legò con una corda e lo trascinò pian piano, come se stesse tirando a riva un pesce. Avvicinandosi alla costa di Izumo, sembrava proprio una grossa chiatta trascinata dalla forza prodigiosa del dio, che gridava «Vieni, terra! Vieni da me!». Questo nuovo pezzo di terreno lo attaccò al capo di Taku ed è il territorio di Sada.

Già che era girato verso nord, il dio notò che anche Nunami aveva terra extra. Presa di nuovo la sua vanga fatta come il petto di una fanciulla, ossia piatta e larga, il dio l’affondò nel terreno, la scosse ben bene e tirò con forza, staccandone un bel pezzo. Lo legò con una corda e lo trascinò pian piano, come se stesse tirando a riva un pesce. Avvicinandosi alla costa di Izumo, sembrava proprio una grossa chiatta trascinata dalla forza prodigiosa del dio, che gridava «Vieni, terra! Vieni da me!». Questo nuovo pezzo di paese è il territorio di Kurami, che sporge dal capo Tashimi.

Ultimo bersaglio fu il capo di Tsutsu, nella regione di Koshi4. Presa di nuovo la sua vanga fatta come il petto di una fanciulla, ossia piatta e larga, il dio l’affondò nel terreno, come se la stesse conficcando nelle branchie di un grosso pesce, e tirò con forza, staccandone un bel pezzo. Lo legò con una corda e lo trascinò pian piano, come se stesse tirando a riva un pesce. Avvicinandosi alla costa di Izumo, sembrava proprio una grossa chiatta trascinata dalla forza prodigiosa del dio, che gridava «Vieni, terra! Vieni da me!». Questo territorio divenne il capo di Miho, mentre la corda con cui lo trascinò è l’isola di Yomi.

Dopo avere finito il lavoro, il dio Omizunu appoggiò la vanga nella provincia di Ou ed esalò un profondo sospiro di sollievo, «Oh!», da cui quella provincia prende il nome. Questa è la storia del kunihiki, il trascinamento del paese.

Possiamo considerarlo un mito o una leggenda, a seconda dei punti di vista, ma è soprattutto e prima di tutto la descrizione di un fenomeno naturale, che gli abitanti di quel territorio potevano vedere coi propri occhi nel corso della vita. La regione di Izumo si allargava. Un poco alla volta, nella maggior parte dei casi, ma era innegabile che la terra continuasse ad aumentare. Il fiume Hino trascinava ogni anno una notevole quantità di detriti dalle montagne e li depositava nel basso corso, alterando sia il proprio letto, sia la campagna che lo circondava. È sufficiente un confronto tra le mappe della regione per vedere che sì, la sua forma cambiava di continuo.

Il fiume Hino è stato sia una benedizione che una maledizione per gli abitanti della zona. Se da un lato i suoi depositi hanno regalato sempre nuove terre coltivabili, che erano pure parecchio fertili, dall’altro lato hanno costretto la gente di Izumo a lottare contro le costanti alluvioni e tutti i danni che causavano. Il corso del fiume Hino cambiava di continuo e in una occasione, molto più radicale di tutte le precedenti, il suo tratto finale si è pressoché capovolto: se in principio sfociava lungo la costa occidentale, direttamente nel mare del Giappone, giunti al periodo Tokugawa il suo corso era ruotato di centottanta gradi, portando il fiume a sfociare in quella che, nel frattempo, era diventata una insenatura del mare interno, sulla costa orientale della regione, e che oggi è il lago Shinji. Una bestia intrattabile di sicuro, il nostro Omizunu: nel Kojiki è nominato una volta sola per elencarlo tra i discendenti di Susanoo, altro personaggio dal carattere molto particolare.

La leggenda del kunihini, il trascinamento del paese, che non ha trovato spazio nelle cronache ufficiali compilate per ordine della casa imperiale di Yamato ed è sopravvissuta soltanto nello Izumo fudoki, testo redatto dagli amministratori della regione per descrivere il territorio alla corte imperiale, è probabilmente il modo in cui la popolazione che viveva lungo il basso corso dello Hino ha cercato di spiegarsi e giustificare quanto avveniva. Tramandata oralmente fin da almeno il sesto secolo, ci descrive in un linguaggio più semplice e immediato ciò che i contadini vedevano accadere attorno a loro: il grande fiume, la più potente manifestazione divina che conoscessero, stava stretto nei suoi confini e voleva più spazio per sé. Per ottenerlo, ha costruito nuova terra prendendola dalle zone dove ce n’era in abbondanza.

La nuova terra proveniva davvero da altre parti del Giappone? Ovviamente no. Non proprio, almeno. Non nel modo in cui lo descrive la leggenda, se non altro. Il terreno proveniva sì da altre parti del paese, ma non si trovavano oltre il mare: erano quelle attraversate dal fiume Hino. La normale erosione toglieva terreno da una parte per depositarlo in un’altra: dalle aree a monte, la terra passava in quelle a valle, accumulandosi verso la foce, fino a cambiare più volte il corso stesso del fiume. Shimane, che cominciò la propria vita come isola al largo delle coste di Izumo, divenne prima una penisola e oggi è parte integrante dell’isola principale di Honshū, col lago Shinji come ultimo ricordo del mare che un tempo la separava dal resto del paese.

Si stima che questa leggenda risalga al sesto secolo, più o meno a quando Yamato perse la colonia di Mimana che aveva stabilito sulla penisola coreana (avvenne nel 562). Fu infatti in questo periodo che i lavori attorno al fiume Hino cominciarono sul serio, nel tentativo di migliorare e rendere più sicuro quel territorio, e il grosso della forza lavoro impiegata era costituita da immigrati coreani, che avevano abbandonato Mimana assieme agli ultimi resti del governo coloniale giapponese. Per questo il dio Omizunu avrebbe guardato prima di tutto verso la Corea, quando cercava nuova terra da aggiungere al suo paese, e il suo trascinamento conserverebbe la memoria di una immigrazione attraverso il mare. O così si ipotizza, quantomeno.

In modo simile, anche la sua scelta di prendere nuova terra dalla regione di Koshi potrebbe avere un valore politico. Izumo e Koshi, pur non essendo regioni confinanti, erano comunque affacciate sul mare del Giappone e collegate da correnti5 che rendevano piuttosto facili e sicuri i viaggi marittimi, per quanto facili e sicuri potessero essere i viaggi marittimi in epoca antica. Che esistessero scambi tra le due regioni è provato, così come è provato che esistesse amicizia tra i loro governi: quando all’inizio del sesto secolo il governatore di Koshi riuscì a imporsi come imperatore Keitai (507-531) usurpando la linea principale degli Yamato, un sensibile aiuto in questa sua impresa gli venne con tutta probabilità da Izumo, a cui era forse legato per matrimonio. Anche per questo, quando salì al potere l’imperatore Kinmei (540-571 circa), restaurando la linea Yamato, Izumo fu considerata una minaccia all’impero e si intensificarono gli sforzi per piegare e sottomettere quel territorio.

I legami particolari tra le due regioni sono poi sottolineati anche dalle leggende riferite nello Izumo fudoki. Ōnamuchi6, divinità principale di Izumo, corteggiò e sposò la principessa Nunakawa, figlia di Hetsukushii e nipote di Okitsukushii7: dalla loro unione nacque il dio Miho Susumi, da cui prese il nome la comunità di Miho8, nel distretto di Shimane. Sappiamo poi di una campagna che Ōnamuchi avrebbe condotto per pacificare Yakuchi di Koshi, qualunque cosa sia Yakuchi, forse un luogo o forse un personaggio, perché la comunità di Hayashi nel distretto di Ou prese il nome da un commento che il dio avrebbe fatto in quella occasione. Infine, nel distretto di Kamuto c’è una comunità chiamata Koshi. Lo Izumo fudoki ci racconta che al tempo di Izanami fu costruito un serbatoio usando le acque del fiume Hibuchi: per lavorare a questo progetto arrivò anche gente da Koshi, che poi rimase a vivere nella zona e la comunità prese il nome da loro. Era anche la sede dell’ufficio del distretto e in questa comunità si trovava una stazione postale chiamata Sayofu, che avrebbe preso il nome da un uomo di Koshi, forse proprio il capo dei lavoratori.

Non ci sono rimaste storie di legami speciali tra Izumo e gli altri due territori da cui il dio Omizunu rubò pezzi di terra, ma non possiamo escludere che siano esistite. Molte sono le storie andate perse nel corso dei secoli, leggendarie o meno che fossero, ed è sufficiente sfogliare un testo come lo Izumo fudoki per capirlo, con tutte le divinità che contiene e di cui oggi esiste solo un nome, a volte anche un piccolo aneddoto per spiegare il nome di un luogo. Quanti altri antichi racconti saranno andati perduti, sia da questa che da altre regioni del Giappone? Decisamente troppi.

Sia come sia, il fiume Hino ha modellato nel tempo il territorio di Izumo, sottraendo terra in alcuni punti e aggiungendone in altri. La leggenda del kunihiki ci spiega a modo suo questo fenomeno naturale, collegandolo alla potenza del dio Omizunu, manifestazione del fiume stesso. Con la sua storia si apre lo Izumo fudoki, per mettere in primo piano quanto sia stato importante per la regione questo evento e quanto abbia colpito l’immaginazione dei suoi abitanti. Ma non è l’unica storia che riguarda il fiume Hino e la vita dei giapponesi lungo il suo corso. Ne vedremo altre due, una famosa a livello nazionale (e internazionale, a modo suo), l’altra soltanto a livello locale. Entrambe però ci parlano di come fosse la vita lungo il fiume nell’antichità e di quale impatto abbia avuto lo Hino sul popolo di Izumo, nel bene o nel male.

Il dio che uccise il drago

Susanoo era il dio delle tempeste, fratello minore di Amaterasu, dea del sole e governatrice della piana celeste di Takamagahara; come lei era nato dal demiurgo Izanagi, che aveva generato tutte le isole giapponesi assieme alla sorella e sposa Izanami. Destinato a governare le distese marine, mentre alla sorella toccava il governo del cielo, Susanoo aveva rifiutato l’incarico che il padre gli aveva assegnato e si era ribellato un po’ contro tutto e tutti. Dopo avere infuriato come un uragano nel paese divino e avere messo in pericolo la struttura stessa del mondo facendo scomparire il sole durante la sua lite con Amaterasu, fu punito dal concilio divino e cacciato dal cielo, dove non avrebbe mai più potuto fare ritorno. Si concludeva così la breve permanenza di Susanoo tra gli amatsugami9.

Disceso sulla terra, Susanoo si posò sulla cima del monte Torikami nella regione di Izumo, proprio dove si trova la sorgente del fiume Hino. Non un posto a caso. Le descrizioni ce lo presentano come un picco avvolto spesso dalle nubi: quale altro luogo avrebbe potuto scegliere un dio delle tempeste per toccare terra? Lungo il corso del fiume incontrò subito due persone anziane che piangevano, un uomo e una donna: tra loro c’era una ragazza, la principessa Kushinada. Susanoo chiese spiegazioni e l’uomo raccontò di essere un dio terrestre che un tempo aveva avuto otto figlie. Ogni anno, però, giungeva da Koshi un enorme serpente a otto teste a divorare una delle sue figlie: ormai gliene rimaneva una sola e a breve anche lei sarebbe stata divorata. Questo mostro era grande come otto valli e otto monti, aveva occhi rossi, otto teste e otto code. Sul suo corpo crescevano muschio, pini e cipressi, e il suo ventre grondava sangue. Ecco come si presenta Yamata no Orochi10, il più famoso drago della mitologia giapponese.

Susanoo non si scompose. Se i due anziani gli avessero dato in sposa la figlia, lui era pronto a sconfiggere il mostro. Dopo un giro di presentazioni, il vecchio accettò la proposta, perché tanto non aveva alcunché da perderci: con un mostro che l’avrebbe divorata a breve, non poteva certo andargli peggio. Soddisfatto, Susanoo trasformò Kushinada11 in un pettine e la mise al sicuro tra i suoi capelli, poi spiegò ai due vecchi quale fosse il suo piano per uccidere il drago. Loro avrebbero preparato molto sake12, il più possibile; avrebbero costruito una palizzata con otto aperture e dietro a ogni apertura avrebbero sistemato mensole cariche di botti di sake. Fatto questo, si sarebbe trattato solo di aspettare.

I vecchi prepararono tutto e aspettarono. A breve arrivò il mostruoso Yamata no Orochi, infilò in ogni foro una delle sue teste, attratto dall’odore del sake, e bevve tutto quanto, fino a collassare ubriaco fradicio. A quel punto Susanoo uscì allo scoperto, sfoderò la spada e fece a pezzi il mostro mentre era in coma etilico. Forse non il più epico dei combattimenti, d’accordo, ma senza dubbio efficace e in linea col carattere dell’eroe, per quanto abbiamo potuto già vedere in altre situazioni.

Sminuzzando allegramente il cadavere del mostro, la spada di Susanoo si scalfì mentre cercava di tagliare la coda centrale di Yamata no Orochi. Incuriosito, il dio incise la coda per vedere cosa ci fosse dentro e trovò una spada: è un oggetto che diventerà uno dei più importanti nella tradizione giapponese ed è tuttora considerato uno dei tre tesori imperiali. Susanoo, più avanti, consegnerà la spada alla sorella Amaterasu e da lei passerà al nipote Ninigi, quando sarà il momento di inviarlo sulla terra per “pacificare” il Giappone e portarlo sotto il dominio delle persone “giuste”13.

Sistemato definitivamente il drago, Susanoo sposò la principessa Kushinada e costruì una casa nel territorio di Suga, sempre a Izumo, dove visse con la nuova moglie. Tra i suoi figli diretti compare Uka no Mitama, una dea del cibo14, mentre tra i suoi discendenti compaiono il dio Omizunu, cioè il già citato trascinatore di terre, e soprattutto Ōnamuchi, che più avanti sposerà una figlia di Susanoo e diventerà la divinità principale di Izumo. Ma questa è un’altra storia.

Il mito di Susanoo e Yamata no Orochi, di per sé, si presenta come l’ennesima versione di un grande classico della mitologia mondiale: la lotta contro il drago. Lo troviamo tanto in Europa quanto in Asia e America ed è sopravvissuto a lungo, fino a degenerare un poco alla volta in una delle fiabe preferite dal pubblico, quella del cavaliere che uccide il drago e salva la principessa. In origine era soprattutto la storia di un conflitto tra le più antiche potenze ctonie e le nuove potenze celesti, dove il drago può essere anche un serpente15, ma è sempre gigantesco, mostruoso e incarna le forze elementali primordiali che devono essere sottomesse per dare inizio alla civiltà. Nelle versioni raccontate dai popoli indoeuropei, di solito è il dio delle tempeste a combattere e uccidere il drago. Il Giappone non rientra certo tra i paesi abitati da popoli indoeuropei, ma anche per loro è un dio delle tempeste a uccidere il drago e avviare la civiltà. Grossomodo16.

Che Susanoo sconfigga il drago ricorrendo all’astuzia invece che alla forza bruta, a differenza di colleghi come Zeus, Thor, Indra, Marduk e così via, amanti del combattimento e dal fulmine facile, non è certo un problema. Al contrario, è un elemento di grande interesse, perché il nostro “eroe” si comporta in modo molto simile a Tarhunta, il dio delle tempeste ittita, nonché a Teshub, dio delle tempeste hurrita da cui Tarhunta pare essere derivato. Su queste due divinità dell’Asia Minore si raccontava infatti un mito che, sia nella versione ittita che in quella hurrita17, appare così simile alla storia di Susanoo che vale la pena di parlarne qui, a titolo di confronto. Ne esistono due varianti, diverse per il finale: noi esamineremo solo quella che presenta affinità con la storia di Susanoo18, per ovvie ragioni.

Tarhunta era il dio del tuono e delle tempeste, signore del tempo atmosferico. Per motivi non ben precisati o almeno non conservati, un giorno si ritrova a dovere combattere contro un gigantesco dragone emerso dal mare: è Illuyanka19, che lo sfida per sottrargli il dominio. Il primo scontro non si risolve nel migliore dei modi per Tarhunta: Illuyanka lo sconfigge e il dio è costretto a fuggire per salvarsi la vita. Ma non è finita qui, ovviamente. La sua è solo una ritirata strategica, più o meno.

Sconfitto e umiliato dal suo avversario, Tarhunta decide infatti di vendicarsi a ogni costo. Visto che da solo non sarebbe riuscito a vincere, il dio chiede aiuto alla figlia Inara, una dea collegata agli animali selvaggi20, che suggerisce al padre un possibile piano di azione: avrebbero allestito un grande banchetto per Illuyanka e lo avrebbero fatto ubriacare. Una volta stordito dall’alcool, per Tarhunta sarebbe stato facile sistemare il nemico. Il piano è approvato.

Inara arruola anche un essere umano per farsi aiutare a preparare tutto: un certo Hupashiya, che si dichiara disposto a collaborare, ma solo a patto che la dea diventi poi sua amante. Inara non è molto entusiasta, ma accetta. Cucina cibo in abbondanza e prepara botti di liquore, organizza quella che sembra in tutto e per tutto una festa e raggiunge il suo scopo: Illuyanka arriva, attirato dalle offerte, e mangia e beve fino a collassare e addormentarsi. Mentre Hupashiya lega il dragone, Inara corre a chiamare il padre: Tarhunta arriva e bombarda di folgori il drago ubriaco e privo di conoscenza, uccidendo finalmente il suo nemico. L’ordine nel mondo divino è così ristabilito.

Che esistano somiglianze tra il modo in cui si conclude il mito ittita e quello giapponese è evidente, così come è evidente che ci siano differenze. La storia di Tarhunta prevede una iniziale sconfitta del dio delle tempeste, proprio come accade anche in alcune varianti del combattimento tra Zeus e Tifeo/Tifone: il rettile mostruoso prevale, il dio è indebolito e costretto a chiedere aiuto ai suoi alleati, riesce a recuperare grazie a loro e alla fine trionfa, uccidendo il nemico. Nella storia di Susanoo (almeno così come è stata raccolta nel Kojiki e nel Nihonshoki) non abbiamo una prima parte in cui il dio è in difficoltà, ma solo la sua vittoria. Il modo in cui trionfa, però, è pressoché identico a quello che leggiamo nel mito ittita.

Sappiamo che il mito di Illuyanka era recitato ritualmente durante la celebrazione di una particolare festa religiosa, il cui svolgimento aveva diversi elementi in comune col banchetto offerto da Inara a Illuyanka: la prefazione dell’inno in cui il mito è contenuto ci spiega appunto in quale occasione del calendario rituale ittita era recitato. Il mito di Illuyanka era infatti recitato e rappresentato durante la festa chiamata purulli(ya), che probabilmente si svolgeva a inizio anno e serviva a celebrare il periodico rinnovamento del potere regale e/o delle stagioni. La sconfitta iniziale del dio, seguita dal suo ritorno e dalla vittoria finale, si inserirebbero proprio in questa ottica. Fin qui, tutto bene.

Considerata la parziale somiglianza con la storia di Susanoo e Yamata no Orochi, è lecito ipotizzare che anche in Giappone questo racconto possa avere avuto un significato analogo al mito ittita di Illuyanka? Oppure la storia di Susanoo è sempre stata solo una storia, senza alcun valore rituale? È solo un bel racconto di avventura, oppure è il ricordo di cerimonie più antiche?

Se una cerimonia esisteva, noi non lo sappiamo. Nel racconto giapponese non ci sono rigenerazioni da celebrare, perché Susanoo non è mai sconfitto e non deve recuperare le proprie forze per vincere il suo avversario. Che la storia sia legata ad antichi rituali, però, è una ipotesi che è stata avanzata in più occasioni. Il suo antefatto suggerisce una certa forma di sacrificio rituale, dopotutto. Ogni anno una figlia doveva essere offerta al mostruoso serpente che veniva da lontano21. Da Koshi, peraltro, giusto a sottolineare i legami che Izumo aveva con questa regione: non positivi, stavolta, ma pur sempre legami. Nella storia di Yamata no Orochi si nasconde la cronaca di antichi sacrifici umani, che Susanoo avrebbe interrotto22?

È una possibilità, ma è solo una ipotesi. Anche in Giappone si sono compiuti sacrifici umani, questo lo sappiamo: ce ne parlano alcune cronache cinesi, ma ce ne parlano anche documenti giapponesi, anche se mancano prove scritte di sacrifici umani prima dell’ottavo secolo. Non particolarmente strano, se consideriamo che la scrittura arrivò in Giappone tra il quinto e il sesto secolo e che resta ben poco dei documenti redatti prima del Kojiki, completato nel 712. Una leggenda racconta anche di come un tempo esistesse l’abitudine, più o meno spontanea, di seppellire un certo numero di servitori alla morte di personalità importanti, ma poi sarebbero state usate le statuette haniwa come sostitute degli esseri umani, ponendo così fine all’usanza23. I sacrifici sono esistiti, in tempi remoti.

La storia di Kushinada potrebbe essere il ricordo di un sacrificio umano a una qualche divinità? Se è vero che in alcune rappresentazioni successive Kushinada è illustrata seduta sopra a una specie di tavolino, come quello usato normalmente per le offerte alle divinità, in modo non così dissimile da Andromeda incatenata allo scoglio per essere divorata dal mostro marino nel mito greco, è anche vero che si tratta appunto di rappresentazioni successive, forse fantasie artistiche. Le mensole su cui Susanoo fa sistemare le botti di sake sono quelle su cui si offrivano doni agli dei, e tutta la scena fa pensare a una cerimonia sacra, per come è allestita, rendendola così simile al mito ittita anche sotto questo aspetto. Se davvero esistessero a Izumo riti locali allestiti in questo modo, però, noi non lo sappiamo: ci mancano fonti attendibili a riguardo.

Tra le ipotesi avanzate c’è anche quella di un sacrificio (simbolico o meno) per pacificare le forze della natura, che in questo caso sarebbero incarnate dal fiume Hino. La connessione tra Yamato no Orochi e il fiume è infatti stata proposta spesso ed è senza dubbio legittima. Come abbiamo già visto raccontando la storia del kunihiki, lo Hino era un fiume riverito e temuto, che portava benefici e danni agli abitanti della regione. Se Omizunu è una sua manifestazione benefica nel complesso, Yamata no Orochi potrebbe essere il suo volto più selvaggio e letale, che reclamava un tributo di sangue con le sue frequenti alluvioni. La stessa descrizione del mostro ci suggerisce il legame: il suo corpo è coperto di alberi, è grande come otto valli e otto montagne, ha il ventre che gronda sangue, almeno secondo la versione del Kojiki. Le versioni del Nihonshoki cambiano poco, sotto questo aspetto.

Se consideriamo che il fiume Hino era famoso per le sue sabbie ferrose, che durante le piene tingevano le acque di un colorito rossastro, e che nelle forme più arcaiche della lingua giapponese la parola hino significa “rosso”, il collegamento col sangue che gronda dal ventre di Yamata no Orochi è abbastanza scontato. Usare otto valli e otto montagne per descrivere la grandezza del mosto ci può suggerire proprio la struttura del fiume, coi suoi tributari. Aggiungiamo poi che nella coda centrale del drago si trova una spada, la leggendaria Ama no Murakumo no Tsurugi, che più avanti diventerà la Kusanagi no Tsurugi usata dall’eroe Yamato Takeru, il legame tra fiume e mostro pare innegabile: era proprio dallo Hino che si ricavava la sabbia ferrosa con cui furono forgiati i primi strumenti di metallo, armi incluse, e quella del ferro avrebbe costituito a lungo l’industria più importante del territorio, oltre a fornire i tributi più richiesti dalla corte imperiale.

Se accettiamo Yamata no Orochi come una manifestazione dell’aspetto tremendum del fiume Hino, il sacrificio della fanciulla diventerebbe un modo per quietarlo, secondo uno schema che ritroviamo dappertutto presso le società più antiche: periodicamente, forse nel periodo delle piene, si offre una ragazza in sacrificio al fiume, pregandolo di risparmiare il resto della popolazione. Sono soltanto ipotesi, ovviamente, ma sono plausibili se si accettano le premesse e si decide di interpretare questo mito come la descrizione di una pratica arcaica. Anche offrire sake al mostro potrebbe rientrare con facilità in questo quadro: anche nell’esempio del mito di Illuyanka vediamo che lo schema usato per sconfiggere il mostro è alla base di una festività ricorrente nel calendario ittita. Tutto questo se si accettano le premesse, ricordiamo. E se non si accettano?

Abbiamo una storia: la storia di un luogo terrorizzato da un mostro, un nuovo arrivato che sconfigge il mostro, riporta la pace e sposa la principessa. Un classico, che acquista però un sapore diverso se consideriamo certi particolari. Prima di tutto, lo Izumo fudoki non parla mai di mostri sconfitti da Susanoo. In tutto il libro non troviamo un solo accenno a Yamata no Orochi. Susanoo compare, così come compaiono i suoi figli: sono spesso legati a un toponimo, storielle di due righe che ci spiegano perché un certo posto si chiami così. Il fiume Hino compare di continuo, ovviamente, con le sue sabbie ferrose e i suoi artigiani che lavorano il ferro. La principessa Kushinada compare solo nella toponomastica della comunità di Kumatani, il cui nome deriverebbe da un commento fatto da Kushiinadami Toyomanurahime24 mentre cercava un buon posto per partorire. Tutto qui. Non una parola sulle avventure di Susanoo a Izumo. Strano, direi.

Il fiume Hino è citato spesso, ovvio, e ci sono storie di avventure curiose lungo le sue sponde, come il racconto dello squalo che si innamorò della principessa Tamahi, una dea che abitava lungo lo Hino, e avrebbe risalito il fiume per incontrarla. Troviamo anche il monte Torikami, ovviamente, e il testo ci spiega in dettaglio la sua posizione, aggiungendo che vi cresce uva selvatica, ma non una parola sul combattimento tra Susanoo e Yamata no Orochi, che si sarebbe svolto proprio lì. Silenzio molto curioso, appunto.

Troviamo però un misterioso riferimento a una campagna condotta da Ōnamuchi, discendente e/o genero di Susanoo, che lo avrebbe portato a Koshi, territorio di origine di Yamata no Orochi nella storia contenuta nel Kojiki. È giusto un breve accenno, presentandoci la comunità di Hayashi nel distretto di Ou, e lo abbiamo già riferito raccontando del kunihiki, ma vale la pena di ripeterlo anche qui. Ecco dunque cosa ci dice lo Izumo fudoki, parlando della comunità di Hayashi. “Il signore del grande paese, Ōnamuchi, raggiunse questo luogo durante la sua campagna per pacificare Yakuchi di Koshi. A quel tempo il boschetto era ricco e verdeggiante. Il dio disse «Questo boschetto rinfranca il mio spirito.» Per questo il luogo fu chiamato Hayashi, che significa sia ‘bosco’, che ‘rinfrancare lo spirito’.”

Un secondo riferimento a questa misteriosa campagna appare in un episodio molto più significativo, cioè la versione locale di una storia che è alla base della propaganda di Yamato, ossia la storia della cessione del paese. Secondo questa storia, nelle versioni raccontate da Kojiki e Nihonshoki, il dio Ōnamuchi avrebbe ceduto spontaneamente (più o meno) il dominio sull’intero Giappone a Ninigi, nipote di Amaterasu, e alle divinità di Takamagahara che lo accompagnavano. Secondo la versione raccontata nello Izumo fudoki, invece, Ōnamuchi fece una eccezione: cedette tutto il paese tranne Izumo, che decise di tenere per sé come territorio in cui vivere per sempre. Lo avrebbe protetto come un gioiello prezioso, tanto gli era cara quel luogo. Da questo episodio deriva il nome della comunità di Mori nel distretto di Ou, in quanto mori significa “proteggere”.

Quando sarebbe avvenuto questo episodio, nello specifico? Lo Izumo fudoki ci dice che Ōnamuchi avrebbe pronunciato queste parole mentre passeggiava lungo il monte Nagae, di ritorno dalla sua campagna per pacificare Yakuchi nella terra di Koshi. Di nuovo questo evento misterioso, di cui non si parla in nessun altro testo dell’epoca. Adesso abbiamo almeno un riferimento cronologico un poco più preciso: la campagna è avvenuta poco prima della cessione del paese agli dei di Yamato, un evento di cui sia il Kojiki che il Nihonshoki parlano in abbondanza. La sola citazione di Koshi, però, è il corteggiamento di una principessa locale da parte di Ōnamuchi, che troviamo nel Kojiki e di cui abbiamo già parlato25. Niente altro. Qualunque mito riguardasse Yakuchi pare andato perso.

Cosa sarebbe questo Yakuchi? L’ipotesi più comune è che si tratti di una qualche località che un tempo esisteva nella regione di Koshi. La stessa regione di Koshi, però, è stata in seguito smontata in regioni più piccole per questioni amministrative. In una fase successiva, il territorio fu indicato come Hokuriku ed è rimasto sotto quel nome fino a epoche recenti, quando di nuovo è stato diviso in parti più piccole e più semplici da amministrare. È vero, il territorio fisico non è cambiato: resta sempre al solito posto sulla costa giapponese rivolta verso il continente, a nordest rispetto a Izumo, ma quale luogo al suo interno poteva essere chiamato Yakuchi, tredici o più secoli fa?

Ōnamuchi si era recato nella regione di Koshi anche per un altro motivo, ossia per corteggiare una principessa di quel posto. Ne abbiamo già parlato nel capitolo precedente ed è un fatto raccontato anche dal Kojiki. Si potrebbe ipotizzare che la principessa abitasse in un posto chiamato Yakuchi, ma un corteggiamento (andato a buon fine, peraltro) non è proprio il genere di attività da descrivere come una campagna per pacificare qualcosa. Se c’era qualcosa da pacificare, semmai, era a Izumo, visto che il Kojiki ci racconta che la moglie principale di Ōnamuchi, Suseri figlia di Susanoo, era una donna molto gelosa e non accettava di buon grado le “esplorazioni” del marito26. Non mi pare che ci si possa riferire a questo episodio, dunque, anche se è interessante vedere come Koshi sia stato sia il luogo in cui Ōnamuchi ha dovuto pacificare qualcosa, sia quello in cui si è procurato una donna, proprio come Susanoo si procurò una moglie uccidendo Yamata no Orochi.

È anche possibile che per Koshi non si intendesse il territorio lontano, ma qualcosa di molto più a portata di mano. Esiste infatti una comunità chiamata Koshi che si trova proprio nel territorio di Izumo, e lo stesso Izumo fudoki ci racconta che risalirebbe all’epoca di Izanami, come dicevamo già nel capitolo precedente. Sembra però troppo piccola e irrilevante per meritarsi di essere oggetto di una campagna di pacificazione condotta dalla divinità principale della regione. Se invece amiamo speculazioni più azzardate, possiamo lasciare perdere la geografia e le mappe, per lanciarci in una ipotesi molto più bizzarra: e se dietro Yakuchi di Koshi si nascondesse una traccia di Yamata no Orochi di Koshi?

Una possibilità bizzarra e forse indimostrabile, appunto. Resta il fatto che qualcuno ha sconfitto Yamata no Orochi e addomesticato il fiume Hino. Susanoo, certo, ma forse non il Susanoo classico, quello che conosciamo dal Kojiki. Ci sono altre storie curiose da ascoltare, camminando lungo il corso del fiume, e forse è il caso di prestarvi attenzione. Potrebbero dirci qualcosa di interessante.

Il dio che non sapeva parlare

Il basso corso del fiume Hino è indicato nello Izumo fudoki come il distretto di Izumo, un territorio che include buona parte di quello che un tempo era chiamato Kizuki e costituiva il cuore della regione che si era opposta fino all’ultimo al dominio di Yamato, mentre la parte più orientale, attorno al distretto di Ou, si era arresa prima, con le buone o con le cattive. Questa zona includeva terreni molto fertili, ma anche difficili da domare a causa delle continue alluvioni del fiume, che avevano cambiato la geografia della zona fino a dare origine alla storia del kunihiki.

Sempre secondo lo Izumo fudoki, nell’ottavo secolo potevamo trovare 122 santuari nel distretto di Izumo, contando sia quelli registrati che quelli non registrati presso l’Ufficio degli Affari Religiosi del governo di Yamato. Di questi 122 santuari, ben 44 erano dedicati al dio Ajisuki Takahiko27, una divinità che aveva un buon seguito a Izumo, ma che da altre parti era pressoché sconosciuta. Una divinità regionale, si potrebbe dire, e in effetti lo era. Da un certo punto di vista. Da un altro punto di vista, però, la sua storia si complica.

Ajisuki era un dio legato al lavoro dei campi. Il suo nome suggerisce legami con la zappa e l’aratro, e infatti è spesso tradotto come “dio dell’aratro lucente”. Nulla di strano che sia venerato in un’area molto fertile e coltivata. Se aggiungiamo che è presentato come figlio di Ōnamuchi, cioè la divinità principale di Izumo, la sua popolarità appare perfettamente giustificata. Compaiono però alcuni particolari curiosi nella storia di questo dio ed è il caso di esaminarli da vicino, per capire meglio la sua posizione a Izumo e, forse, il suo legame con la corte di Yamato.

Presentandoci la comunità di Misaha, nel distretto di Nita, lo Izumo fudoki ci racconta questa storia. Ajisuki Takahiko, figlio di Ōnamuchi, era nato muto. Incapace di parlare e comunicare con gli altri, il bambino non faceva che piangere e strillare, anche quando era ormai diventato adulto e gli era già cresciuta la barba. Suo padre provò a consolarlo portandolo in barca a fare un giro attorno alle isole, ma non servì a nulla: Ajisuki continuava a piangere e gridare. Non sapendo più cosa fare con questo figlio, Ōnamuchi si appellò in sogno agli dei superiori, chiedendo il loro aiuto. Qualcosa accadde. Quella stessa notte il dio sognò il figlio e nel sogno era capace di parlare.

Al risveglio, Ōnamuchi corse subito da Ajisuki per vedere se fosse cambiato qualcosa anche nella realtà, e qualcosa era cambiato. Suo figlio disse una parola: “misaha”. Una parola priva di senso, in apparenza, ma pur sempre una parola. Ōnamuchi gli chiese a che luogo si riferisse con quella parola e il figlio gli rispose guidandolo a quel posto: attraversò un fiume di ciottoli, salì sulla cima di una collina, si fermò e disse «Questo è il posto, mio signore». In quel luogo c’era una sorgente e Ajisuki usò le sue acque per lavarsi e purificarsi. Si dice che da allora la sorgente non si sia mai esaurita e il villaggio lì accanto ha preso il nome di Misaha. Sempre per questo episodio, una donna incinta non deve mangiare riso cresciuto a Misaha, altrimenti anche suo figlio nascerà muto come Ajisuki. Così afferma lo Izumo fudoki.

Esiste un’altra storia legata ad Ajisuki e al suo problema, sempre nello Izumo fudoki. Nel distretto di Kamuto c’era una comunità di nome Takagishi. Poiché Ajisuki Takahiko non faceva altro che piangere forte, giorno e notte, suo padre Ōnamuchi gli costruì un edificio molto alto in cui poteva vivere. All’esterno dell’edificio Ōnamuchi attaccò una lunga scala, per permettere al figlio di salire e scendere quando voleva. Questo avrebbe consolato un poco Ajisuki, anche se non mi è chiaro in che modo lo avrebbe dovuto consolare. Irrilevante. Siccome l’edificio sembrava un’alta sponda, il posto fu chiamato Takagishi, che significa appunto “alta sponda”.

Come vediamo, dunque, a Izumo il dio Ajisuki era noto per i suoi problemi di comunicazione. Non riusciva a parlare e questo lo portava a piangere di continuo, col padre che cercava di inventarsi ogni cosa possibile per calmarlo. Col tempo i suoi problemi si sono risolti e un’altra storia ce lo presenta già sposato e prossimo a diventare padre lui stesso, ma questa sua caratteristica di mutismo durante l’infanzia e la giovinezza è curiosa per due motivi. Il primo è che la troviamo soltanto nello Izumo fudoki: nel Kojiki e nel Nihonshoki si parla di Ajisuki soltanto in un breve episodio legato alla cessione del paese alle divinità di Yamato, ma non ci sono accenni a difficoltà di parola. Il secondo motivo è che entrambe le cronache ufficiali ci racconta sì la storia di un bambino che aveva grandi difficoltà a parlare, ma il protagonista di quella storia non è un dio: è il figlio di un imperatore. La storia è comunque connessa a Izumo e al dio Ōnamuchi, come vedremo.

Nel Kojiki si racconta infatti che il principe Homuchiwake, figlio dell’imperatore Suinin, avesse un problema che gli impediva di parlare. Il padre provò ogni tipo di terapia per curare il disturbo del figlio, incluso trasportarlo su una barca per cullarlo dolcemente, ma niente da fare: il principe divenne adulto senza essere ancora riuscito a pronunciare una sola parola. A quel punto, però, forse per caso o forse per intervento divino, Homuchiwake vide un cigno attraversare in volo il cielo ed emise per la prima volta un suono. L’imperatore ordinò che gli fosse portato quel cigno, sperando che avrebbe potuto curare il figlio. Un suo servitore dovette attraversare mezzo Giappone prima di catturare l’animale nella regione di Koshi. Tutto invano. Anche col cigno davanti, il principe non si decideva a parlare.

Il padre si addormentò e quella notte fece un sogno. La voce di un dio gli ordinava di costruire per lui un santuario simile al palazzo imperiale: se lo avesse fatto, il figlio sarebbe sicuramente stato curato. Così il mattino dopo Suinin consultò vari oracoli e sacerdoti e scoprì che il dio che gli aveva parlato in sogno era Ōkuninushi, arrabbiato perché il suo santuario era stato distrutto28. Il principe sarà così mandato in pellegrinaggio a Izumo assieme a una scorta, troverà un alloggio temporaneo in un edificio costruito su un’isola del fiume Hino e sarà pure sedotto da una certa principessa Hinaga, che si rivelerà poi essere un serpente trasformato in donna, forse anche una manifestazione del dio del fiume.

Alla fine di questo viaggio strano e avventuroso, il principe recupererà la parola, dopo avere visto il posto giusto in cui erigere il nuovo santuario, e l’imperatore accontenterà Ōnamuchi avviando (alla buon’ora) la costruzione di quello che diventerà lo Izumo Taisha, un grande santuario tuttora esistente anche se in una versione ridotta rispetto all’originale. Forse perché, date le sue dimensioni e il materiale scelto, il legno, il santuario più antico aveva la pessima abitudine di crollare spesso sotto il proprio peso, il che può causare un certo fastidio, a lungo andare. Le dimensioni ridotte (dimezzate, pare) lo hanno reso oggi più stabile.

Nella versione del Nihonshoki il principe si chiama Homutsuwake29 e arriva all’età di trent’anni senza avere mai pronunciato una parola, piangendo e basta. Parla per la prima volta dopo aver visto un cigno che volava nel cielo; l’imperatore ordina così a un suo servitore di catturare quell’animale e portarglielo, perché è convinto che curerà il figlio. Il servitore insegue l’animale fino a Izumo30, dove riesce finalmente a catturarlo. Giocando con quel cigno, il principe imparerà a parlare e il suo problema sarà risolto.

Nelle cronache ufficiali redatte per ordine della corte imperiale, dunque, è il figlio di un imperatore a soffrire di mutismo. Nella storia raccontata a Izumo, invece, è un dio locale ad avere lo stesso problema. Simili sono anche alcuni degli eventi: il viaggio in barca usato per consolare il figlio, ma anche il sogno che offre una possibile soluzione. Ōnamuchi appare una volta come padre preoccupato per il figlio e una volta come dio che causa le sofferenze del figlio di un altro padre. Izumo appare in tutte le storie, anche solo come luogo in cui è catturato il cigno che risolverà il problema. Sembra che si accumulino un po’ troppi elementi comuni per considerarla solo una banale coincidenza.

Accantoniamo per adesso certi particolari curiosi, come la comparsa di Koshi nella versione del Kojiki, dove è più forte il legame con Izumo e il dio Ōnamuchi, oppure la misteriosa principessa serpente, che è forse un’altra manifestazione del fiume Hino. Concentriamoci invece sulla figura di Ajisuki Takahiko, il dio muto. Soltanto a Izumo troviamo storie sul suo mutismo: nelle cronache ufficiali, invece, è presentato come una divinità normale. È descritto solo come grande amico di Ame no Wakahiko, una divinità celeste mandata da Takamimusubi per sottomettere le divinità terrestri, ma che prese una strada un poco diversa. Secondo il Kojiki, infatti, finì per sposare una figlia di Ōnamuchi e si unì alle divinità locali, per poi morire in un modo piuttosto bizzarro ma che non ha rilevanza al momento. C’è di mezzo anche un fagiano, a ogni modo.

Due particolari curiosi sul conto di Ajisuki nelle cronache ufficiali sono che non è mai indicato esplicitamente come figlio di Ōnamuchi, mentre al suo nome è aggiunto il suffisso -ne, che invece caratterizza alcune divinità celesti: il nostro dio diventa dunque Ajisuki Takahikone, grande amico di un dio celeste inviato a sottomettere Izumo, ma diventato poi nativo dopo aver sposato una figlia di Ōnamuchi. Se a Izumo non è noto come Ajisuki Takahikone, è però vero che il suo santuario principale nella regione di Izumo è quello di Kamo, a Katsuragi, le cui tasse andavano direttamente al governo centrale e non a quello regionale: se non nel nome, il legme con Yamato restava. Questa sua duplice connessione alle divinità celesti e al governo centrale hanno dato origine a una ipotesi particolare su Ajisuki: che sia una divinità esterna, imposta a Izumo da Yamato.

Il basso corso del fiume Hino ha necessitato di ingenti lavori per domare le sue alluvioni e coltivare i campi lungo le sue sponde. Dalla seconda metà del sesto secolo, se non da prima, a condurre questi lavori furono soprattutto immigrati di origine coreana, inviati direttamente da Yamato. Questa scelta era dovuta sia a ragioni pratiche, come le superiori capacità tecniche di cui disponevano i coreani rispetto ai giapponesi del periodo, sia alla volontà di piegare la regione ribelle, infiltrando persone leali al governo centrale per spezzare il controllo della nobiltà locale sui territori agricoli della zona. Molte di queste nuove famiglie avevano un cognome che terminava in -be31, suffisso che contraddistingueva le persone sotto il diretto controllo della corte imperiale di Yamato nel primo periodo, spesso ex servitori della famiglia imperiale. Alcune di queste famiglie potevano anche essere di origine coreana32.

Furono proprio questi immigrati a portare con sé a Izumo il dio Ajisuki? Sappiamo che i santuari del dio si concentravano nelle zone dove maggiore era stata l’introduzione di forza lavoro venuta da Yamato. Sappiamo che Ajisuki, come molti di questi nuovi arrivati, aveva nel proprio nome un suffisso che lo caratterizzava come appartenente agli dei del cielo o ai loro discendenti umani, come l’imperatore di Yamato. Sappiamo soprattutto che Ajisuki era incapace di parlare, almeno secondo le storie che si raccontavano su di lui a Izumo. Era incapace di parlare perché muto, oppure perché parlava una lingua diversa, come gli immigrati coreani appena arrivati a Izumo? Era anche un dio dell’aratro, legato al lavoro dei campi, cioè proprio a quel lavoro che doveva essere una specialità degli immigrati. Sono solo ipotesi, certo, ma interessanti.

Possiamo fare un altro balzo, già che ci siamo. Il Nihonshoki ci racconta storie alternative sulla discesa di Susanoo dal cielo, dopo essere stato scacciato dalle divinità celesti. In un paio di queste versioni alternative, Susanoo non si stabilisce subito a Izumo, ma se ne va in Corea. È strano, non ne discuto, ma così si racconta. Una di queste versioni ci dice che la sua prima tappa fu il paese di Silla, un regno sulla costa orientale della penisola coreana. Dopo esservi rimasto un poco, decise che non vi si trovava bene: costruì una barca di argilla (così è) e navigò fino al Giappone, dove in un qualche modo non precisato arrivò sulla vetta del monte Torikami, trovò un enorme serpente che divorava le persone e tutto prosegue come nel racconto che già conosciamo.

Come mai questa prima tappa in Corea? Unita alla storia del kunihiki, dove il primo pezzo di terra aggiunto alla regione di Izumo veniva proprio dalla Corea, e proprio dal regno di Silla, contribuisce a suggerire un contatto più stretto tra Izumo e la penisola coreana. Perché erano immigrati coreani a occuparsi dei lavori lungo il corso del fiume Hino? Immigrati che forse avevano portato con sé dalla corte di Yamato il dio Ajisuki, che all’inizio non sapeva parlare ma che in seguito si sarebbe integrato a sufficienza da diventare figlio di Ōnamuchi, il dio principale di Izumo? Sempre ipotesi, già, ma è interessante vedere che esistono storie secondo cui Susanoo sarebbe arrivato a Izumo dalla Corea, storie in cui parte del territorio di Izumo sarebbe stato preso dalla Corea, storie secondo cui un dio con un suffisso “celeste” nel proprio nome fosse venerato lungo il corso del fiume Hino, dove si erano stanziati molti immigrati con un suffisso imperiale nel proprio nome. Che anche gli immigrati avessero avuto inizialmente difficoltà a comunicare, proprio come il dio Ajisuki?

Nella bassa valle del fiume si erano già stabiliti alcuni gruppi provenienti da Koshi, come abbiamo visto. Si erano stabiliti lì ai tempi di Izanami, secondo lo Izumo fudoki. Considerati i problemi che l’alleanza tra Izumo e Koshi aveva causato a Yamato, è possibile che gli immigrati coreani spediti dalla corte imperiale servissero anche a spezzare questo legame. I primi immigrati, infatti, sarebbero arrivati nella seconda metà del sesto secolo, dopo la caduta della colonia giapponese in Corea e dopo la restaurazione della linea imperiale di Yamato, usurpata proprio da un imperatore di Koshi aiutato da Izumo. Arrivano così i coreani, col loro nuovo dio agricolo Ajisuki, a lavorare la terra del basso corso di Hino. Dopo le incomprensioni iniziali (Ajisuki che non sa parlare), un poco alla volta sono accettati e si integrano con la popolazione locale (Ajisuki è figlio di Ōnamuchi ed è una delle divinità con più santuari in zona).

Plausibile? Sì. Corrispondente al reale svolgimento dei fatti? Non lo sappiamo. Ma anche Susanoo era arrivato dalla Corea, secondo una variante del mito, e proprio lui sconfisse Yamata no Orochi, la manifestazione del lato più tremendum del fiume Hino. Lavoratori giunti dalla Corea potrebbero davvero aver domato il fiume, nei limiti in cui era possibile coi mezzi di quel periodo, e avviato lo sviluppo agricolo di quel territorio. Sviluppo collegato ad Ajisuki, il dio dell’aratro lucente. Se la prima fase dei lavori era legata alla regione di Koshi, da dove ogni anno arrivava Yamata no Orochi e dove Ōnamuchi aveva condotto una misteriosa campagna per pacificare il misterioso Yakuchi, la fase successiva era stata condotta all’insegna della Corea, da cui era venuta sia una parte della terra di Izumo (grazie al kunihiki), sia l’arato lucente che avrebbe reso fertile quella zona.

Questo legame tra Koshi e Izumo ritorna anche nella storia dell’imperatore Suinin, così come ce la racconta il Kojiki. Per risolvere il problema del mutismo del figlio, l’imperatore si rivolge prima a Koshi (dove il suo servitore cattura il cigno), ma la soluzione la troverà a Izumo, da dove viene la maledizione e dove si trova il dio da placare con la costruzione del grande santuario che era stata promesso, ma in apparenza non ancora realizzato. Durante il pellegrinaggio a Izumo, peraltro, oltre a ritrovare la parola, il principe Homuchiwake avrà anche un incontro fin troppo ravvicinato con la principessa Hinaga, un serpente trasformato in donna che lo sottoporrà a una sorta di iniziazione. È di nuovo il fiume Hino che si manifesta come serpente, in apparenza, seguendo un modello che è molto cinese, dove fiume, serpente e drago sono aspetti sovrapponibili di una stessa figura. Nel caso della Cina è più spesso benevola; in Giappone sembra esserlo di meno, ma affrontare questo tipo di creatura porta comunque alla risoluzione di un problema, in un modo o nell’altro.

Riassumendo, abbiamo così tre storie di figli che non sanno parlare: due sono riferite a un principe imperiale, la terza a una divinità locale33. Una storia si risolve grazie a un cigno proveniente da Izumo e serve forse a spiegare i due cigni che Izumo doveva inviare alla corte imperiale assieme ai tributi normali. Le altre due storie si risolvono grazie a un sogno e a un rituale connesso al sogno: se Ajisuki ottiene la parola dopo aver trovato una sorgente sacra, le cui acque saranno poi usate anche per i riti di purificazione a cui si dovrà sottoporre il governatore di Izumo prima di recarsi alla corte in occasione del kamuyogoto34, il principe Homuchiwake dovrà andare in pellegrinaggio a Izumo e trovare alloggio su un’isola nel fiume Hino, per scegliere poi il luogo su cui sarà costruito il santuario dedicato a Ōnamuchi. Tutte e tre le storie ci mostrano un legame tra Izumo, Yamato e l’incapacità di parlare, un legame che sarà sciolto solo da una interazione sacra tra le due regioni, anche per intermediari.

Anche dopo la sottomissione completa, Izumo sembra essere rimasta fonte di preoccupazioni per l’autorità di Yamato. Verso la metà del sesto secolo fu restaurata la linea principale di Yamato sul trono imperiale, dopo l’usurpatore proveniente da Koshi. Di lì a poco, la colonia di Mimana fu perduta e con essa l’avamposto che il Giappone aveva nella penisola coreana. Dopo questa coppia di eventi, la presenza di Yamato nella regione di Izumo si intensificò, forse per rappresaglia, di certo per spezzare il legame tra le autorità locali e la popolazione. Fu avviato un vasto programma di sviluppo della valle del fiume Hino, in cui molto probabilmente furono coinvolti parecchi coreani che erano arrivati in Giappone dopo la caduta di Mimana. Con loro arrivò il dio Ajisuki, divinità legata al lavoro che avrebbero dovuto svolgere.

Nello stesso periodo, si fanno sempre più numerosi i governatori locali, piccoli e grandi, che sono legati alla corte di Yamato. Lo Izumo fudoki ci mostra chiaramente quante siano nell’ottavo secolo le persone in posizione di autorità con un cognome terminante per -be: famiglie che il governo centrale ha introdotto un poco alla volta, per soppiantare i nativi e ridurre la loro pericolosità. Nel settimo secolo fu usata anche la minaccia coreana per aumentare la presenza della corte nelle regioni di periferia: dichiarando che i regni coreani si preparavano ad attaccare il Giappone, furono spostate truppe nelle terre occidentali, tra cui Izumo, e con esse accrebbe il controllo diretto della corte imperiale di Yamato.

Se da un lato aumentava il controllo di Yamato su Izumo, dall’altro erano preservate parecchie caratteristiche uniche in quella regione, che la distinguevano dal resto dell’impero. Il governatore di Izumo manteneva anche un titolo religioso, mentre tutti gli altri governatori erano stati ormai ridotti a semplici lavori amministrativi. A Izumo, nel decimo mese, si svolgeva un’assemblea di tutte le divinità giapponesi, che abbandonavano i rispettivi territori per radunarsi lì e discutere di cosa era accaduto in Giappone. La mitologia di Izumo è di fatto la sola a essersi conservata, accanto a quella di Yamato. Anche l’ingresso al regno dei morti, lo Yomi, si trova a Izumo. In una spiaggia a nord della comunità di Uka, nel distretto di Izumo, c’è infatti un pendio chiamato Nazuki. Sul lato ovest di questo pendio si apre una grotta, al cui interno si trova un’altra grotta: il pendio è chiamato Yomi no saka, la discesa di Yomi, mentre la grotta è Yomi no ana, l’entrata di Yomi.

Tutto questo ci para della importanza che Izumo ha avuto nell’antico Giappone. Vecchio nemico di Yamato, vinto ma non spezzato, è stato infine inglobato dall’impero, ma mantenendo una posizione privilegiata, unica sotto diversi aspetti, e la troviamo riflessa nelle leggende. Se la storia di Ajisuki e Ōnamuchi raccontata a Izumo ci mostra la difficile integrazione dei nuovi arrivati nella valle del fiume Hino, le storie narrate dal Kojiki e dal Nihonshoki suggeriscono che Izumo preoccupava ancora la corte imperiale, ma anche che il peggio stava passando: bisognava forse cedere qualcosa ai rivali, come il grande santuario da costruire per Ōnamuchi, ma alla fine tutto si sarebbe risolto per il meglio e la maledizione di Izumo sarebbe stata sciolta. Lo raccontano usando la stessa immagine del figlio incapace di parlare, forse perché attingevano allo stesso tipo di materiale preesistente, o forse perché è una storia sola, presentata in due varianti.

Sia come sia, con la storia del dio che non sapeva parlare si conclude di fatto il pericolo che Izumo aveva rappresentato per la corte di Yamato. Resterà ancora un osservato speciale e conserverà uno status particolare, diverso rispetto alle altre regioni, ma il peggio è passato e anche quel territorio ribelle sarà domato, proprio come il fiume Hino sarà placato e la sua valle si aprirà alle coltivazioni intensive, per volontà dell’imperatore di Yamato. È stata una lunga lotta, ma i kunitsugami, le divinità della terra, si sono piegati agli amatsugami, le divinità del cielo. È stato necessario cedere qualcosa, ma il risultato è quello che conta. Tutto è bene quel che finisce bene. Per Yamato, almeno.

NOTE

1 - A volte lo potete trovare scritto come Omitsuno, ma è sempre lo stesso dio.
2 - Shiragi è il nome giapponese con cui si indicava il regno di Silla, uno dei tre regni in cui la penisola coreana era divisa all’inizio del primo millennio, periodo in cui anche il regno giapponese di Yamato era intervenuto nella lotta per procurarsi una piccola colonia sul continente, chiamata Mimana. Yamato riuscì a mantenere questo territorio oltremare dal quarto al sesto secolo circa, poi fu scacciato definitivamente dalla Corea.
3 - Dove oggi si trova lo Izumo Taisha, uno dei principali santuari giapponesi.
4 - Si trova a nordest, risalendo lungo la costa dell’isola principale del Giappone. È una regione piuttosto lontana da Izumo, ma le correnti del mare del Giappone rendono abbastanza facile navigare tra le due zone ed è probabile che siano state in contatto fin da epoche remote. Le storie ce lo suggeriscono, quantomeno.
5 - La corrente di Tsushima in particolare, che segue le coste occidentali del Giappone da sudovest a nordest.
6 - Noto anche come Ōkuninushi, Utsushikunitama, Ashiharashiko e Yachihoko. È il vero protagonista delle storie del cosiddetto “ciclo di Izumo”, che si svolgono dopo la discesa sulla terra di Susanoo e si concludono con la venuta di Ninigi, nipote di Amaterasu, a cui gli dei terrestri guidati da Ōnamuchi cederanno il dominio sul Giappone, atto che segnerà la supremazia degli dei celesti di Takamagahara, fondatori dell’impero.
7 - Di questi personaggi non sappiamo alcunché. Il Kojiki ci racconta di questo episodio, ma non riferisce i nomi dei genitori della principessa, preferendo invece dedicarsi alle poesie che Ōkuninushi e Nunakawa si scambiarono. Si può ipotizzare però che Hetsukushii e Okitsukushii fossero divinità marine, perché i loro nomi si riferiscono al presiedere il mare e la costa.
8 - Dal porto di questa comunità partirono per l’esilio l’imperatore Gotoba (nel 1221) e l’imperatore Godaigo (nel 1332), entrambi diretti all’isola di Oki. Le divinità di Izumo avranno forse apprezzato.
9 - Forma arcaica di ame no kami, che significa letteralmente dio (kami) del cielo (ame). Sono le divinità che abitano nel regno di Takamagahara, la pianura celeste, in contrapposizione ai kunitsugami, le divinità terrestri che abitano ovviamente sulla terra, cioè sul territorio giapponese.
10 - Il nome significa “grande serpente (orochi) dalle otto diramazioni”.
11 - Kushi, in giapponese, significa “pettine”.
12 - Bevanda alcoolica ricavata dalla fermentazione del riso. In Giappone occupa più o meno lo stesso posto che ha il vino presso altre culture. In questa storia, però, il termine potrebbe anche indicare un liquore più forte: Susanoo dà ai due vecchi istruzioni molto specifiche su come prepararlo. I due anziani dovevano infatti masticare il riso con cui preparare il sake, un dettaglio molto interessante in quanto il ricorso allo sputo per portare alla fermentazione una bevanda preparata spremendo vegetali è comune in molte civiltà antiche e non. Che anche questo sake da offrire a Yamata no Orochi debba rientare nella categoria?
13 - Queste storie sono raccontate dal clan Yamato per giustificare il loro dominio sul Giappone, ricordiamo.
14 - Curiosamente, il Kojiki ci racconta che in precedenza Susanoo aveva ucciso un’altra dea del cibo, chiamata Ōgetsuhime. Forse questa sua figlia serve a rimpiazzarla, oppure è quello che succede quando si mischiano miti diversi, cercando di ricavarne una storia più o meno coerente.
15 - Il termine “drago” deriva dal greco drakon, che significava “serpente”, ma era usato soprattutto per indicare quei mostri che comparivano in miti e leggende: di norma erano giganteschi e spesso avevano pezzi extra, come zampe, ali o alito mortale. Nella maggior parte delle lingue europee la parola è passata poi a indicare quello che oggi conosciamo come drago, ossia una specie di lucertola alata gigante che sputa fuoco. Chiamatelo pure come volete, l’importante è ricordarsi che è un rettile enorme e può strisciare o volare, a seconda delle storie.
16 - Susanoo è stato appena cacciato da Takamagahara, l’Olimpo giapponese, ma sulla terra non manifesta alcuna delle sue caratteristiche selvagge e violente che lo avevano contraddistinto in cielo. Si presenta invece come classico eroe civilizzatore, che sconfigge il mostro e porta l’ordine nel paese, per diventare più avanti una divinità del sottosuolo, con tanto di casa a Ne no Kuni, la versione giapponese dell’aldilà. Possiamo ancora considerarlo dio delle tempeste, a questo punto? La discussione è aperta.
17 - Tarhunta e Teshub sono ancora più intercambiabili di quanto lo siano Giove e Zeus nell’immaginario popolare. Scegliete pure il nome che preferite e il mito funzionerà allo stesso modo, davvero.
18 - La seconda versione, invece, assomiglia molto ad alcune varianti del mito di Zeus e Tifeo/Tifone, un altro caso di dio delle tempeste che lotta contro un drago mostruoso e primordiale.
19 - Il nome indica semplicemente un qualche tipo di essere strisciante: come spesso accade in questi miti, possiamo interpretarlo sia come serpente, sia come drago. Era un rettile gigantesco e mostruoso, in ogni caso, anche perché la linea di demarcazione tra serpente e drago è sempre molto incerta in mitologia.
20 - Non esattamente una potnia theròn come la greca Artemide, ma siamo da quelle parti. Altri la interpretano come una dea collegata a vegetazione e/o fertilità, ma rimaniamo sempre in una sfera legata alla terra e alla natura.
21 - Impossibile non pensare ai sette ragazzi e alle sette ragazze che Atene doveva periodicamente inviare a Creta come offerte sacrificali al Minotauro, nella mitologia greca. Avremmo così un Susanoo nei panni di Teseo, che interrompe la tradizione nel modo più radicale possibile, uccidendo il mostro, ma i paralleli mitici sono fin troppo numerosi per citarli tutto. Come si diceva, la storia è un classico in tutto il mondo.
22 - Tsuda Sōkichi era un appassionato di questa teoria, per esempio, come attesta il suo Nihon jōdaishi no kenkyū, e cercò a lungo una qualche prova di sacrifici umani. Non mi risulta abbia mai trovato qualcosa di definitivo.
23 - Il Nihonshoki ci racconta che fu l’imperatore Suinin a voler interrompere l’usanza di mandare i servitori più fedeli ad accompagnare il loro signore nell’aldilà, perché lo considerava uno spreco di risorse umane. Non sapeva però con cosa rimpiazzarli, perché qualcuno doveva pure accompagnare gli aristocratici nel loro ultimo viaggio. Fu un gruppo di artigiani di Izumo a risolvere il problema, modellando le prime statuette haniwa e offrendole a Suinin, che le approvò e decise che da allora sarebbero state seppellite al posto dei servitori umani. La storia è inventata quasi di sicuro, ma le prime statuette haniwa furono trovate nelle regioni di Izumo e Kibi, per cui c’è almeno una parte di verità in questa leggenda.
24 - Considerato che hime significa “principessa”, questo personaggio dovrebbe corrispondere a Kushinada, anche se il testo le attribuisce solo il titolo di “dea guardiana delle risaie”, senza accennare al suo rapporto con Susanoo. Dato che era incinta, però, possiamo supporre che da qualche parte ci fosse anche un marito o variazioni sul tema.
25 - Non compare invece nel Nihonshoki, ma questo libro dedica pochissimo spazio ai miti del ciclo di Izumo, di cui ci parla in dettaglio soltanto il Kojiki. A questo proposito è stata anche avanzata l’ipotesi che Ō no Yasumaro, compilatore del Kojiki, fosse legato agli Ō no Omi, una potente famiglia di Izumo, e che proprio da loro avrebbe ricevuto il grosso dei miti e delle leggende che si raccontavano nella regione di Izumo. Possibilità interessante, anche se tutta da dimostrare.
26 - Ōnamuchi era un po’ uno Zeus, sotto questo aspetto, e Suseri tendeva a reagire come Era ai tradimenti del marito.
27 - Nello Izumo fudoki sono indicati in realtà come santuari dedicati ad Azuki per una modifica fonetica nel nome, ma il dio resta sempre quello.
28 - Forse proprio dalle truppe di Yamato, visto che il principale dio di Izumo se la prende con l’imperatore, o forse solo perché la costruzione di un nuovo palazzo per Ōnamuchi faceva parte degli accordi per la cessione del paese e il clan Yamato non aveva ancora mantenuto la parola, nonostante secondo le cronologie fantastoriche del Kojiki e del Nihonshoki fossero ormai trascorsi diversi secoli.
29 - Non un cambiamento molto significativo. Da Homuchiwake a Homutsuwake la differenza è solo nella lettura di un carattere, qualcosa che accade di frequente nei testi di quel periodo. Abbiamo anche Ajisuki che diventa Ajishiki nel Kojiki, per esempio.
30 - Nei tributi che il santuario di Izumo doveva presentare alla corte imperiale di Yamato erano inclusi anche due cigni, oltre a una spada, uno specchio, un cavallo bianco e altre cose. Coincidenza curiosa, vero?
31 - Un Be in generale era una via di mezzo tra una casta e una gilda, nell’antico Giappone. Esistevano Be per vari tipi di attività, includevano famiglie che si tramandavano l’attività di generazione in generazione, ma l’aspetto più importante è che tutti i Be erano di nomina imperiale. Era la corte a istituire un Be, spesso sistemando come suo capo un funzionario della corte stessa o un servitore fedele. Un modo come un altro per assicurarsi che l’imperatore avesse il controllo, diretto o indiretto, su certi lavori e su chi li potesse svolgere.
32 - Nel distretto di Ōhara, per esempio, lo Izumo fudoki ci indica che le posizioni di governatore e di assistente governatore erano occupate dalle famiglie Suguribe e Nukatabe, la prima delle quali è di origine coreana: secondo lo Shinsen Sōjiroku i Suguribe erano infatti discendenti di immigrati da Paekche, antico regno della Corea.
33 - Locale, ma in apparenza proveniente dalla corte imperiale, se guardiamo il suo nome come è usato nelle cronache ufficiali: Ajisuki Takahikone, non Ajisuki Takahiko come invece è noto a Izumo.
34 - Il kamuyogoto era una cerimonia sacra che consisteva, di fatto, in un atto di sottomissione alla corte imperiale, eseguito dai capi delle varie regioni del Giappone. I kuni no miyatsuko, cioè i governatori regionali, si piegavano davanti al nuovo imperatore e offrivano tributi, sotto forma di doni, mentre l’imperatore ricambiava con la formale investitura a governatori e offriva loro altri doni. Il tutto era avvolto in una liturgia religiosa, perché l’imperatore era un dio, dopotutto, mentre i kuni no miyatsuko ricoprivano anche un incarico di capi religiosi nelle rispettive regioni, almeno in epoca antica. Nell’ottavo secolo soltanto il kuni no miyatsuko di Izumo aveva ancora un ruolo aggiuntivo di sacerdote, oltre a quello di governatore civile, giusto a sottolineare l’unicità della posizione di quella regione nel panorama giapponese dei tempi.