A denti stretti
Quando spense il televisore e si alzò dalla poltrona ergonomica smart, Daniele Panarotti era ancora più disgustato del solito. Poteva essere un record. Era sempre disgustato, dopo aver trascorso più di due minuti ad assorbire il pattume che, secondo la nuova tv smart, era di suo gradimento e adatto a lui, ma quella sera lo schifo aveva raggiunto un livello sovrumano. Un livello da vomito. Un livello da afferrare quell’affare di plastica e scagliarlo dalla finestra. Bestemmiando, magari.
Non lo avrebbe fatto, ovvio. Sarebbe stato uno spreco di soldi, avrebbe perso punti civiltà, magari il suo conto sarebbe stato bloccato per qualche giorno e soprattutto non gli piaceva bestemmiare, ma la tentazione era forte.
«E forse lo farò lo stesso,» borbottò mentre si avviava verso la porta.
Poteva farlo, se lo avesse voluto davvero. Daniele non credeva davvero a tutte le storie che giravano su conti bloccati, repressioni e palle varie. Le raccontava sempre gente dal nome farlocco ed erano sempre capitate a mio cuggino o a un suo amico, però... meglio non rischiare. E poi i soldi spesi per il televisore li avrebbe sprecati davvero. Meglio fare altro e dimenticarsi dello schifo.
Ma era difficile.
Mangiare insetti? Mangiateveli voi! Daniele Panarotti odiava gli insetti. Lo disgustavano. Se solo ci fosse stato un modo per farlo, avrebbe sterminato volentieri tutti quei mostri pieni di zampe. Era un problema serio, capite. Una volta, da bambino, si era svegliato con un ragno in bocca e ok, è vero, i ragni non sono insetti, sono aracnidi, ma sono pieni di zampe e sembrano insetti e a lui bastava. Era un ricordo che non lo avrebbe mai abbandonato. Tutte quelle zampette che gli facevano solletico sul palato, sulla lingua, su... Ugh! Vomito immediato, appunto.
E adesso volevano farglieli mangiare? A lui? Per salvare il pianeta come se fosse antani? Piuttosto si sarebbe mangiato i vicini di casa, che erano ottantenni e si lavavano solo quando si ricordavano o li passava a trovare un parente. E ascoltavano Jovanotti ad alto volume, che era ancora peggio. No e poi no: di insetti non ne avrebbe mai mangiati. Meglio la morte!
Meglio dimenticarsi quel docuspot abominevole.
Solo che adesso doveva andare in cantina a cercare quel libro che aveva già cercato in tutta la casa e non lo aveva ancora trovato, ma sapeva di averlo, da qualche parte, e la cantina era l’unico posto in cui non avesse cercato, quindi era per forza lì. In cantina. Dove era inevitabile incontrare gli insetti. E i ragni, ok, che non sono insetti ma aracnidi, lo abbiamo capito. Fanno schifo lo stesso.
Pure, quel libro gli serviva. Aveva appena scoperto che nel terzo scaffale della libreria il numero dei libri era dispari. Era un problema grave. L’equilibrio dell’universo era in pericolo, capite. Come mai non se n’era accorto prima? Daniele non lo sapeva, ma era deciso a rimediare. Per forza che tutto si era messo così male nel mondo. Se su uno scaffale hai un numero dispari di libri, non c’è limite ai disastri che puoi attirare. Era davvero una cosa seria, dunque. Il mondo poteva dipendere da lui.
Così Daniele Panarotti si fermò davanti alla porta, respirò a fondo, si fece di acciaio dentro e fuori, uscì, si diresse verso le scale, le scese partendo col piede giusto, contò il numero giusto di scalini e alla fine del viaggio si fermò di nuovo davanti a un’altra porta. Quella della cantina. La sua.
C’era già odore di cantina, anche lì. Era un odore umido, pesante, con sfumature malinconiche, che ti parlava di cose abbandonate, i rifiuti di una esistenza dimenticati al buio, al freddo, ma soprattutto di pareti che isolavano tanto quanto ci vedevano. Era un brutto mondo, la cantina. Pure, l’universo è importante e mantenerlo in salute dipendeva da lui. Stringendo i denti, Daniele entrò.
Era brutto, ma in fondo era una cantina. Anche letteralmente. Era in fondo allo scantinato comune e il suo condominio era in fondo alla via, a due passi dallo scolo maleodorante che faceva le veci, ma soprattutto le feci, di un torrente nel loro paese. Era normale che fosse umido lì sotto. Daniele aveva provato più volte a risolvere il problema, ma aveva concluso che l’unica soluzione efficace sarebbe stato un bombardamento al napalm. Siccome lui non aveva democrazia da esportare, non si poteva neppure procurare il napalm necessario, per cui tutto si era risolto così, con uno stallo: lui avrebbe evitato la cantina e la cantina avrebbe evitato lui.
Ottimo. Peccato che adesso fosse costretto a infrangere il trattato di non belligeranza.
Come era possibile che il libro fosse finto proprio lì? Daniele Panarotti non lo capiva. Era un luogo troppo umido per conservarci un libro. Nessuna persona sana di mente lo avrebbe mai messo lì e lui era sano di mente, quindi non poteva avercelo messo. Pure, non era in casa, non lo aveva buttato via e dunque rimaneva un posto solo dove cercare. La cantina: un antro umido, fetido, festonato nonché infestato di ragnatele. C’era solo immondizia lì sotto, roba che Daniele non voleva più vedere e che non poteva buttare via, perché non si sa mai.
C’era una lampadina triste che penzolava da un filo triste. Era la sola fonte di illuminazione, se non contavi una finestrella in alto, da cui persino una lucertola avrebbe fatto fatica a passare. Daniele la contava e lo disturbava che fosse solo una. Sarebbe stato meglio averne due: era più equilibrato. Era una sola anche la lampadina, e anche questo lo disturbava, ma non c’era modo di inserirne un’altra, così poteva solo stringere i denti e procedere.
Uno scarafaggio grosso e nero gli attraversò la strada, fuggendo dalla luce improvvisa.
Daniele Panarotti si fermò come fucilato, mostrò i denti e calpestò l’essere abominevole. O almeno ci provò, ma lo scarafaggio fu più veloce di lui e si infilò dietro a un sacco che conteneva roba varia e quasi sicuramente rotta, ma che non poteva essere gettata via per un motivo molto preciso, e cioè che Daniele non aveva ancora scoperto il sistema corretto per smaltire due di quegli oggetti. Aveva regole troppo vaghe, il suo comune, e non si decideva a correggerle.
Non importa. Non sei qui per le cianfrusaglie, ma per il libro. Daniele Panarotti soffocò il fastidio di dover sopportare una società così malgovernata e mosse due passi nella cantina, esaurendo lo spazio a sua disposizione per il movimento. Adesso si trattava di frugare, e farlo a testa bassa. C’erano cose che non voleva toccare, là sopra. Ragnatele, e i loro occupanti. Il solo pensiero di sfiorarne una e di sentire prima il contatto del filo contro la pelle, poi magari la sottile carezza del ragno che scivolava sgambettando su di lui... Daniele strinse i denti. Non pensarci. Cerca il libro e non pensarci.
Lo fece, o almeno ci provò. Altre cose piene di zampe sgusciavano via da ogni angolo, fuggendo dal temuto invasore bipede. C’erano altri scarafaggi, grandi e piccoli, c’erano pesci argento che Daniele seguì per un poco, sperando che lo portassero al libro, c’erano cose di cui lui non conosceva il nome e neppure lo voleva conoscere. Un grasso, grosso ragno nero sgambettò pigro e un poco infastidito, quando l’apertura di uno scatolone molliccio lo fece cadere dalla sua tela. Daniele lo maledisse fino alla settima generazione. E tutto per niente. Il libro non c’era.
Dove poteva essere finito? Aveva sprecato quasi mezz’ora lì sotto, in quel mondo ctonio popolato di orrori senza nome, esseri maledetti da dio e dimenticati dagli uomini. C’erano ragnatele, e polvere, e muffa, e su tutto regnava il miasma che solo una cantina umida e abbandonata sa produrre. Giusto una cosa mancava: il libro perduto.
Che fine poteva avere fatto, dunque? Non lo aveva prestato ad amici o conoscenti, perché Daniele non aveva amici e i suoi pochi conoscenti tendevano a ignorarlo ove possibile, disposti a estendere al massimo il margine delle possibilità, fino a dove l’educazione arrivava e un poco oltre. Insomma, non aveva nessuno che gli chiedesse qualcosa in prestito o a cui lui fosse disposto a prestare anche solo un momento di tempo. Quindi il libro doveva esserci ancora.
Era una cosa seria, capite. Ne andava dell’equilibrio dell’universo.
Solo che non sembrava essere in cantina. Possibile? Daniele Panarotti non lo avrebbe creduto, ma la realtà dei fatti, la dura e fredda realtà dei fatti puntava proprio in quella direzione. Terribile! E aveva sprecato tempo e salute per scoprirlo. Aveva visto cose che voi umani non potete immaginare, anche e soprattutto perché probabilmente non le volete immaginare, se anche a voi fanno schifo gli insetti (e gli aracnidi, d’accordo, e gli aracnidi) come fanno schifo a Daniele.
E adesso lui?
Doveva procurarsi un libro, uno qualunque. Non poteva sopravvivere un altro giorno in una casa in cui ci fosse un numero dispari di libri su uno scaffale dispari della libreria. Significava rovina sicura per lui e per tutto. Una disparità al quadrato era più di quanto l’universo potesse sopportare.
Però, forse...
Daniele Panarotti rifletté. E se avesse preso un libro dal secondo scaffale per metterlo sul terzo? Per quel giorno, sia chiaro, non come soluzione definitiva. Era stanco, era sporco ed era demoralizzato. Non aveva proprio voglia di farsi una doccia e uscire, per comprare un nuovo libro. Forse la libreria era anche chiusa, ormai. Se però avesse tamponato per un poco la falla, giusto fino a domani, con il trucchetto di spostare un libro da uno scaffale all’altro... Sarebbe stato pericoloso ugualmente, ma in forma meno grave, forse. Era almeno un tentativo da fare, no?
Siccome non gli veniva in mente di meglio e siccome non ne poteva più di quella cantina, Daniele strinse i denti e decise che avrebbe fatto il tentativo. Poteva funzionare, dopotutto. Domani avrebbe aggiustato sul serio l’equilibrio dell’universo, ma intanto una piccola toppa poteva bastare.
Per un pochettino. Forse. Con molta fortuna.
Daniele sospirò. Sì, avrebbe fatto così. Cercò di calpestare un altro scarafaggio di passaggio, uscì e spense la luce. Tempo di tornare a un luogo più civilizzato e dimenticarsi di nuovo della cantina. Per il resto della sua vita, se fosse stato fortunato. Che luogo orribile! Era il peggio del peggio, davvero.
Riemerso alla luce iperuranica del suo domicilio, che magari non era il paradiso ma era almeno una fetta di ordine e senso nel mare dell’assurdità, Daniele Panarotti raggiunse il pianerottolo, respirò a fondo soffocando un leggero fiatone da scala, aprì la porta identificandosi, fece un passo in avanti e si bloccò. Qualcosa non andava. Che cosa?
Ma non era la domanda giusta, non adesso. Qualcosa non andava e tanto gli bastava sapere. Il resto si poteva esaminare con calma, una volta superato il trauma iniziale e rimesso in ordine l’universo e così via. Adesso c’era solo il dramma del disordine, dell’imprevisto che infetta anche l’esistenza più sana e precisa. Un disordine di cui Daniele conosceva l’origine. Il libro. Il maledetto libro.
In realtà quasi tutto avvenne nel suo cervello nei pochi istanti necessari a superare la soglia di casa e protendere il braccio verso l’interruttore, ma sappiamo benissimo che il tempo è relativo, e siccome tempo ed esistenza sono due facce della stessa medaglia, ne consegue che pure l’esistenza è relativa e tante altre cose, su cui al momento non è necessario dilungarsi ma che sono vere, davvero, parola di lupetto. Il punto è che c’era qualcosa che non andava e Daniele non aveva ancora acceso la luce. Era entrato, sì, ma al buio. Perché pensare è brutto, ma vedere è peggio.
Non era pronto a vedere quale fosse la causa del disordine, il peggiore crimine contro l’universo. Sì, una causa c’era e sì, si trovava lì con lui, nel suo appartamento, ma vederla? Non era pronto. Non si sentiva pronto. Però sentiva, ed era terribile.
Qualcosa frusciava. Era un suono sottile, di quelli che puoi cogliere soltanto nel silenzio più totale o se proprio hai tutti i sensi tesi al massimo. Daniele li aveva e si trovava anche nel silenzio più totale, a parte un ronzio che veniva dall’appartamento accanto e che sembrava il latrato di un cane con una forma terribile di colite. I vicini e la loro musica, già. Per valori molto scatologici di musica.
Davide mosse un altro passo avanti, ma cauto. Il fruscio si intensificò per un attimo, poi tornò al suo livello iniziale. Brutto. Brutto, brutto, brutto. Chiuse la porta di ingresso con cautela, gli occhi che si puntavano nel buio, in cerca di un segno, un indizio, un qualcosa. Non lo trovavano. Bastava solo il tocco di un dito per accendere la luce e disperdere ogni dubbio, ma... Poi avrebbe dovuto vedere. Al momento non si sentiva pronto a vedere. Meglio credere ancora per un poco.
La porta era chiusa, il buio totale, rotto solo da qualche spia rossa, puntini dispersi nel grande vuoto dell’appartamento silenzioso, che però non era silenzioso. Frusciava appena. Come se...
Daniele strozzò il pensiero. Grazie di essere passato a trovarmi, ma non sei il benvenuto. Sarà per la prossima volta, magari tra seimila anni. Perché Daniele non voleva pensarci. Era difficile, ma non ci voleva pensare. Perché a volte pensare è creare. Se pensi troppo a una cosa, poi diventa vera, quindi era meglio non pensarci e farla rimanere falsa.
Stava delirando. Ne era consapevole, ma non lo poteva impedire. Tutta colpa di quel libro. Numero dispari su numero dispari: poteva esserci qualcosa di peggio? Sicuramente sì, ma era un’altra cosa a cui non voleva pensare, non adesso. Perché c’è sempre qualcosa di peggio, se ci pensi bene, ma non ti aiuta ad affrontare il peggio che hai davanti. Pure, affrontare lo doveva, prima o poi. E dunque?
Altri fruscii in altri punti della casa. Sembravano ovunque, sembrava una sorta di risacca notturna, il tocco del mare sulla spiaggia, quello schhh, schhh che è un po’ lavatrice e un po’ sussurro, ma in fin dei conti è solo se stesso, il respiro di un enorme animale, il mare. O qualcosa del genere.
Stava delirando. Daniele Panarotti sospirò. Dieu vomit les tièdes, aveva detto qualcuno. Lui non era così sicuro che Dieu li vomit davvero, ma sapeva di dover fare qualcosa, qualcosa di diverso da star lì come un fesso a fissare il nulla. Poteva essere solo immaginazione, dopotutto. Poteva essere solo paranoia. Poteva. E dunque. Strinse i denti e agì.
Daniele Panarotti tese il braccio verso sinistra e premette l’interruttore. Qualcosa fece un crack lieve e umidiccio. Cosa aveva schiacciato? Ma era una domanda inutile, perché gli rispose la luce. Quello che gli mostrò e che, in apparenza, copriva ogni superficie della stanza, almeno fin dove lo sguardo poteva arrivare. Non fu un bel momento.
Tutto era nero, luccicante e in movimento. Fremeva, pulsava, come un effetto speciale di bassissima qualità. Ma non era un effetto speciale. Era la stanza ricoperta di scarafaggi, una inondazione, la più nera delle maree nere, che aveva sommerso il suo appartamento.
Sul pavimento, sulle pareti, sui mobili, sul tappeto, sugli elettrodomestici. Scarafaggi ovunque, sotto i suoi piedi, attorno ai suoi piedi, che correvano sopra i suoi piedi. Scarafaggi che correvano sopra il led del lampadario, in una fantasmagoria di ombre cinesi stroboscopiche proiettate ovunque. Come avevano fatto ad arrivare tutti lì? Da dove erano arrivati? Perché? Ma non era importante, non era il genere di domanda che ha senso porsi quando la tua casa è stata occupata da milioni di scarafaggi.
Daniele aprì la bocca per urlare, poi la richiuse. Abbassò lo sguardo. Scarafaggi si arrampicavano da pavimento a scarpa, da scarpa a pantalone, da pantalone a...
A. Non c’era bisogno di aggiungere altro. Salivano. Come la più orrenda delle maree, salivano. E lo avrebbero sommerso, se restava lì. Il fruscio era una ouverture wagneriana, che riempiva di sé l’aria e sembrava trapanarti le orecchie, per raggiungere il tuo cervello e...
E. Non c’era bisogno di aggiungere altro. Daniele Panarotti li vide salire lungo i pantaloni, superare la cintura, avventurarsi sulla sua camicia. Non riusciva a distogliere lo sguardo. Erano ipnotici nella loro bruttezza, nel puro orrore che suggerivano. E c’era qualcosa che luccicava nelle loro zampette anteriori. Qualcosa come...
Quando il primo scarafaggio gli sfiorò il collo, Daniele ritrovò la voce e urlò. Una volta sola. Poi la marea gli entrò in bocca e gli tolse la voce. Prima che anche la sua coscienza svanisse, ebbe ancora il tempo di vedere meglio cosa luccicava sulle loro zampe. Sembravano piccole posate.
Ebbe pure il tempo di pensare che forse avrebbe fatto meglio a continuare a stringere i denti, invece di aprire la bocca per urlare. Troppo tardi, ormai. Erano arrivati e lo avevano invaso.
Poi fu solo il buio e a modo suo fu una benedizione.