Sull'altro lato della barriera
A Piero Scarsi bastò uscire di casa, per capire che non ce l’avrebbe mai fatta. Era un giorno di metà primavera, così schifosamente perfetto da fare male al cervello. Il cielo era di un azzurro irreale, l’aria tiepida e accogliente, quasi dolce, mentre il vento leggero portava l’odore degli alberi in fiore, gli uccellini cinguettavano felici e persino il traffico nelle strade era calmo e umano. Una scena da pubblicità, insomma, così irreale da raggiungere la realtà sul lato opposto.
Tutto, attorno a lui, sussurrava speranza e voglia di vivere. A parte lui, ovviamente, e qui stava il problema. Era uscito di casa con una idea, un progetto molto preciso, ma un semplice sguardo fuori dalla porta aveva già fracassato tutto. Ci voleva tanto, troppo coraggio a crepare in un giorno simile e Piero non l’aveva. Non lo aveva mai avuto, il coraggio, proprio come non aveva mai avuto molte altre cose, che adesso però erano ininfluenti. Così si incamminò a testa bassa verso le colline fuori città. Per pensare, per prendere tempo, per fare qualcosa, visto che tanto ormai era uscito.
Erano il suo rifugio, nei momenti difficili, e quello lo era. Un momento difficile, si intende. A piedi ci avrebbe messo una oretta circa, per raggiungerle, ma ne valeva la pena. Ne sarebbe valsa la pena comunque, pur di prendersi una pausa dalla sua vita, o da quel che ne era rimasto. Perché chiamare vita ciò che stava vivendo, beh, era già di per sé un atto di coraggio. Aveva passato i quaranta senza un lavoro fisso, senza gas da un mese, senza telefono da un secolo: c’era altro? Sì, ancora restava la corrente elettrica, ma anche per quella era scattato il conto alla rovescia, salvo miracoli.
Per questo e per altri motivi, su cui non aveva voglia di soffermarsi, aveva fissato un appuntamento, per quel giorno. Un appuntamento con la Morte, sperando che fosse davvero uno scheletro alto sette piedi, comprensivo, e che parlava in maiuscoletto. In realtà si sarebbe accontentato più o meno di qualsiasi cosa, non era schizzinoso, ma aveva già capito che per quel giorno non ci sarebbe riuscito. E dunque? Dunque, meglio abbandonarsi alle colline e dimenticare per un poco tutto il resto.
E quando fu ben dentro al suo mondo, dove le automobili erano un fastidio raro, l’asfalto era rotto e sbiadito sotto gli scarponi e potevi quasi sentire il rumore dei tuoi pensieri, se proprio ci tenevi così tanto, Piero tese le orecchie e si dedicò per l’appunto ad ascoltare i suoi pensieri, perché al momento ci teneva abbastanza. Non era un bel passatempo e ne conveniva, ma non aveva altro per le mani e poi... poi gli avevano tenuto compagnia così a lungo, per quasi quarant’anni, e si sarebbe sentito in colpa a tradirli proprio adesso. O almeno, quella era la scusa ufficiale.
L’odore della campagna e il suono del vento sui prati gli ricordavano la sua infanzia; ed era male. I fili dell’elettricità, le case, i cartelli stradali e le poche auto di passaggio gli ricordavano il presente; ed era peggio. La giornata era magnifica, sì, una giornata da fiaba, ma dovunque guardasse si sentiva nostalgico o disperato. O entrambe le cose. Com’era tutto diverso, una volta! Quando per lui le colline erano un luogo di continue scoperte e serenità.
Razionalmente, sapeva che la memoria è molto selettiva e arbitraria: trattiene soltanto ciò che vuole o che le fa comodo, eliminando tutti i dettagli che non servono. La sua infanzia vera era stata molto diversa dall’idillio bucolico dei suoi ricordi, ma erano dettagli secondari. Nel complesso, era stata migliore del presente, tutto sommato, e questo bastava. Al momento. Domani, forse, non gli sarebbe bastato più, ma nelle sue condizioni non si poteva concedere il lusso di pensare al domani. Per quel che ne sapeva, era anche possibile che un domani non ci fosse: era il progetto iniziale, in fondo.
I ricordi, dunque. Quando il presente è in pericolo, e la situazione sembra disperata, è sempre bene avere un punto dove rifugiarsi e barricarsi, per resistere agli assalti della vita. Per Piero Scarsi, come per molti altri, quel posto era il passato, il solo fortino inattaccabile che lui conoscesse. Vi si rintanò, mentre i piedi proseguivano il proprio lavoro di portarlo attraverso le colline, sotto milioni di ettari di cielo azzurro.
Assaggiò le estati che ricordava, e le assaggiò come le ricordava, non come le aveva vissute. Tutti i luoghi delle sue esplorazioni infantili, tutti gli amici con cui le aveva condivise, oggi dispersi chissà dove dalle mareggiate del tempo, tutte le fantasie con cui aveva popolato quei giorni, per renderli più gradevoli, tutto ciò che aveva sperato per il futuro e che, una volta nel futuro, non aveva saputo o potuto ottenere. Assaggiò l’infanzia della memoria, Arcadia smarrita per sempre, e la nostalgia si fece più forte. Avrebbe dato qualsiasi cosa, per ritrovare quel sapore, o per una chiave d’argento, che gli schiudesse le porte del passato. Randolph Carter aveva ragione, dopotutto.
La trovò dietro a una curva. Più o meno. Quel che trovò tu una stradina, o meglio una carraia, che si allontanava dalla via principale e si precipitava giù per la collina, svanendo sul fondo tra alberi e sterpaglie. Non aveva niente di insolito, in sé, quella visione: erano decine i sentieri simili, tracce di un passato contadino o fossili di case abbandonate, che nessuno più frequentava. Quella stradina, però, Piero non l’aveva mai notata prima. Non aveva idea di dove potesse finire.
«Finirà in un fosso, o in mezzo ai rovi» si disse, e probabilmente aveva ragione. La maggior parte di quei sentieri finisce così, quando non si dissolvono in mezzo a un prato. Però era curioso. Credeva di conoscere ogni angolo di quella zona, eppure non conosceva quella strada. Neppure la ricordava. Il che era strano, se volevi pensarla così, ma non più strano del necessario. Non vi aveva mai fatto caso, probabilmente. Non c’era bisogno di costruirvi attorno misteri.
Eppure, gli sembrava familiare. Non aveva mai visto quella strada, ma era quasi sicuro di averne già vista una simile, da qualche parte. Possibile. Si assomigliano un po’ tutte, in effetti, e non era facile distinguerle tra loro, almeno a prima vista. Normale confusione, un falso ricordo. Piero provo a sondare la memoria, in cerca di tracce, ma la memoria non gli rispose. Forse sbagliava. Ma la strada c’era e non l’aveva mai esplorata. Questo era un fatto, non una fantasia.
Una strada nuova, sconosciuta, proprio come quando era bambino. E siccome per quel giorno non aveva niente in programma, a parte uccidersi, e anche quel progetto sembrava ormai svaporato, abbandonò l’asfalto e si inoltrò per il sentiero nuovo, sapendo quel che lasciava ma non sapendo quel che avrebbe trovato.
L’odore dell’erba lo avvolse all’istante. Era forte. Era uno schiaffo, quando il naso si era riempito così a ungo di asfalto e polvere, ma era uno schiaffo dolce, piacevole. Un odore verde, di un verde che tende al giallo: era il profumo di campagna alla fine dell’estate, dopo la trebbiatura, quando già l’autunno si fa scorgere, negli angoli più placidi del paesaggio.
Piero si fermò e si guardò attorno. Lo spettacolo dei campi gli sussurrava che era primavera, come il colore azzurro intenso del cielo. Eppure lì, in quel sentiero, c’era odore d’estate. Non aveva senso e non era possibile; non c’era neppure abbastanza erba, lì attorno, per produrre quell’odore, né caldo a sufficienza nell’aria. Ma l’odore c’era. Lo sentiva. Quindi?
Oh beh, pazienza. Piero si strinse nelle spalle, rinunciando a capire. Doveva essere qualche stramba forma di illusione olfattiva, forse un rigurgito di memoria. Dopotutto, la sua testa aveva ragioni più che valide per rifugiarsi in tempi più felici, veri o falsi che fossero, e lui non se la sentiva proprio di vietarglielo. Anzi, poteva tornare comodo. Forse restava ancora qualche speranza, per il programma iniziale della giornata.
Così lasciò perdere l’odore e proseguì lungo il nuovo sentiero, scendendo verso la valletta tra due colline. I primi metri erano ancora blandi, poi la strada si fece sempre più aspra, quasi avesse fretta di raggiungere il fondo. Piero si tenne sulla striscia d’erba nel centro, fra le due tracce poco più larghe di terra giallastra: offriva una presa migliore e voleva evitare cadute, grazie tante. Di quelle non aveva bisogno. Ma gli sembrava di lasciarsi precipitare assieme al sentiero e questo, in un certo modo, gli piaceva. Era in sintonia con tutto il resto, quel precipitare così caratteristico della sua vita. Però l’odore era forte ed era odore d’estate, di piena estate. Se ne riempì i polmoni.
Alla fine della discesa, non fu sorpreso di ritrovarsi la fronte sudata e chiazze sulla maglia. Era stata faticosa, specie per chi non era più in buona forma fisica, per varie ragioni. Ma il suo corpo reagiva ancora bene, più di quanto si sarebbe aspettato. Fu soprattutto questo a spingerlo avanti: questo, e la leggerezza che si sentiva addosso. Era una esplorazione, come quando era piccolo. Da quanto non ne faceva più? Quanti anni? Quanto, dall’ultima volta in cui si era lasciato alle spalle la strada, per tentare l’ignoto oltre i suoi bordi? Non lo sapeva. Troppo, di certo.
Guardò la strada dietro di sé, che saliva ripida verso il cielo o che dal cielo precipitava, a seconda di come la volevi vedere. Era lunga e assolata: in estate doveva essere un inferno da fare. Ma lui aveva fatto camminate ben peggiori, quando era bambino: soltanto la vecchiaia gliela faceva sembrare uno spettacolo terribile, e forse l’alimentazione un poco scarsa, negli ultimi mesi. In realtà era bella.
Piero chiuse gli occhi, respirando forte, e la vide come doveva essere in luglio. Una striscia di un marrone tanto chiaro da essere quasi bianco, polverosa, che saliva tra due pareti verdi di mais, o di grano, o di qualunque altra cosa vi coltivassero. Il cielo un secchio di candeggina e il sole arrostiva l’aria, che ti pesava sulla pelle. Erano le scene di mille giorni d’estate, nella sua infanzia. Poi riaprì gli occhi e l’illusione svanì.
Non del tutto. Gli sembrava che la strada fosse più lunga di prima, che la cresta della collina fosse più lontana. Solo la prospettiva, ovvio: non era cambiato nulla. Davanti, il sentiero prendeva una piega piuttosto strana: si infilava in mezzo alla schiera di alberi e arbusti, che coprivano la valletta in fondo alla collina. Probabilmente conduceva a una vecchia cascina, ormai abbandonata, o altri posti dimenticati dal tempo. Succedeva spesso. Piero pensò che forse stava camminando di lì per la sua prima e ultima volta, nella sua vita, e si senti un po’ triste. Pareva uno spreco.
Aveva alternative? Il paesaggio attorno a lui gli diceva che sì, aveva alternative. Ne aveva sempre, se lo voleva. Ma la natura risponde sempre così a ogni domanda: non è una consigliera di cui ci si può fidare. La verità era il frigorifero quasi vuoto, il gas che non c’era più, l’acqua che scendeva a filo, perché non la potevano togliere del tutto (forse, o almeno così aveva sentito dire). E nessuna prospettiva per il futuro. La verità era una strada, che diventa sempre più stretta cogli anni, a mano a mano che i bivi e gli incroci svaniscono e si consumano da sé. Resta solo il rettilineo, alla fine, e forse la meta verso cui ti porta.
Piero si riempì di nuovo i polmoni con l’odore dell’estate, anche se era primavera. Meglio lasciare il mondo al suo posto e godersi quel momento. Al resto avrebbe pensato dopo. Tanto, prima o poi gli sarebbe tornato tutto in faccia, nei denti, per cui poteva permettersi di non pensarci, almeno adesso. Poteva permettersi di sognare un tempo migliore, passato o futuro che fosse. Passato, possibilmente. Fingersi di nuovo quel bambino che fu, ed esplorare coi suoi occhi le colline. Una chiave d’argento, appunto. Peccato solo che gli amici di allora non ci fossero più.
L’ombra lo rinfrescò, tra gli alberi in fondo alla valletta. Il sentiero era ormai una striscia di erba più bassa, schiacciata e smorta tra tronchi e cespugli. L’abbraccio sottile di una ragnatela battezzò la sua fronte e il suo collo, altre ancora gli sfioravano le braccia, mentre camminava. Ecco una risposta al suo meditare ozioso sula sorte del sentiero: non lo usavano più, da secoli. Era abbandonato ai ragni e alle erbacce.
Tanto meglio! Il passato gli era sempre piaciuto e, in un momento come quello, vedeva certo molte più possibilità nel passato, che non nel futuro. E poi era un posto fuori mano. I posti fuori mano possono essere utili, in molte occasioni. Anche di maggio, anche quando credi di non averne più la forza, o la determinazione. Con una smorfia, e con una mano, si tolse le ragnatele dalla faccia.
Davanti, il sentiero proseguiva in un tunnel di alberi; un tunnel da cui si vedeva spesso il cielo, ok, e un tunnel con larghe fessure sul lati, da cui occhieggiava la campagna, ma l’impressione generale era proprio di una galleria, o la navata molto stretta di una chiesa. Qualcosa del genere, insomma. E saliva leggermente, portandolo verso chissà dove.
Piero pensava. Gli ricordava i pomeriggi d’estate, da bambino, anche se allora non era mai da solo a girare per le colline. Quello era arrivato dopo, quando tutti gli altri avevano abbandonato le colline, per crescere e dedicarsi a nuovi interessi. Lui li aveva seguiti, in parte, ma in parte no. In parte non ci era riuscito, per poca determinazione o un qualche difetto congenito. La parte più grossa di Piero, in apparenza, aveva continuato a percorrere quei sentieri di campagna, nell’afa dell’estate padana.
Sì, decise, quella strada gli sarebbe piaciuta molto, da bambino.
Non c’erano suoni, se non il fruscio del vento tra i rami e sull’erba. L’odore ormai era solo il verde e giallo dei campi in luglio: non c’era più traccia dei fiori primaverili. E non aveva senso, questo lo sapeva benissimo, eppure era così. Ma in fondo non gli importava. Si sentiva bene, in quel sentiero, ed era più di quanto potesse sperare, appena uscito di casa. Più di quanto potesse chiedere a quel giorno, cominciato sotto auspici così tristi e finali.
Una vertigine lo attraversò, per un momento: il suo corpo di adulto che lanciava segnali di allarme, forse. Chiuse gli occhi, si appoggiò a un tronco e attese. La vertigine passò. Quando fu certo di stare meglio, abbandonò il suo sostegno di fortuna e riprese il cammino. Un momento di debolezza, forse il caldo, forse il poco pranzo. Niente di grave. La sua mente si era schiarita, più salde le gambe. Sì, niente di cui doversi preoccupare, tanto più che stava già molto meglio, adesso. Era come nuovo.
Gli alberi si erano fatti alti, attorno a lui. Piero si sentiva schiacciare, si sentiva piccolo lì in mezzo, ma anche quello non aveva importanza. Anzi, era giusto. Proseguì, allungando il passo, le scarpe da ginnastica che frusciavano appena tra l’erba del sentiero. Il caldo era tanto, ma l’ombra delle foglie verde scuro gli dava un certo sollievo. Si asciugò la fronte con la manica della maglietta.
Non gli sarebbe dispiaciuto trovare una fontanella da quelle parti, per bere e rinfrescarsi la testa, ma era impossibile che ce ne fossero. Pazienza. Si strinse nelle spalle. Sulla via del ritorno ne avrebbe di certo trovata una. E poi c‘era abituato, faceva parte dell’avventura.
Peccato che Paolo non ci fosse, quel pomeriggio, ma almeno avrebbe avuto qualcosa da raccontare anche lui, invece di ascoltare e basta. Gli avrebbe parlato di quel sentiero, sì, e forse la volta dopo sarebbero tornati assieme. Già, la volta dopo. Sarebbe stato bello.
Il percorso era più scomodo, ora, e le erbacce lo coprivano quasi del tutto. Piero guardava attento a dove metteva i piedi, perché una volta aveva quasi calpestato una biscia e adesso l’erba alta non gli piaceva molto. Lo metteva a disagio. Ma di bisce non se ne vedevano, per il momento. Tutto era così tranquillo, lì.
Qualche metro di salita, poi una discesa brusca e in fondo un muro di cespugli, e altre cose. Finiva lì, il sentiero? No, non proprio. Piero si avvicinò e vide che c’era un passaggio, lì in mezzo. Stretto e per nulla invitante, ma c’era. E c’erano anche parecchi rovi, ancora meno invitanti. Contorcendosi un poco e graffiandosi parecchio, forse ci sarebbe passato. Forse.
Poteva tentare da solo? Paolo l’avrebbe fatto di sicuro. Paolo non si faceva mai troppi problemi, in quei casi: si piegava e ci passava sotto. E se poi si faceva male, non si lamentava. Li portava sempre a qualcosa di bello. Ci sarebbe riuscito lui, da solo? Doveva provare, se ne aveva il coraggio.
Si guardò attorno. Silenzio, caldo, l’odore umido dell’aria di luglio, tra la vegetazione. E lui, da solo. Era già stato in quel posto? Impossibile. Era la prima volta che andava da quelle parti. Eppure aveva la sensazione di ricordarlo, quella sensazione che da grande avrebbe chiamato déjà-vu, dopo aver scoperto l’esistenza di quella parola. Ma non era grande, adesso, e non aveva importanza. Solo fantasia, già. L’importante era il passaggio che aveva di fronte, la scelta che lo attendeva: entrare e guardare oltre? O tornare indietro e ritentare con Paolo, in futuro?
Qualcosa gli diceva di tornare indietro, senza fare stupidate. Non aveva soldi nel cellulare e lì sotto non avrebbe certo trovato campo. Non che l’assenza di campo avesse poi molta importanza, quando non c’era il credito per telefonare, ma contribuiva a farlo sentire a disagio. Era un posto sbagliato, quello, ed erano idee sbagliate, quelle che aveva in testa. La prospettiva era sbagliata.
Meglio fare ciò che doveva, se così aveva deciso, oppure tornare a casa. Ma che cosa doveva fare? Che cosa lo aveva portato lì? Piero non lo ricordava. Non sapeva neanche cosa fosse un cellulare. Sapeva però che davanti a lui c’era una scelta. Era lì per esplorare, già. Da solo. Era lì per esplorare, era estate e davanti aveva una barriera, di cespugli e rovi.
Avanzare o fuggire?
E il bambino Piero Scarsi di adesso si chinò e infilò il varco tra rovi e cespugli, graffiandosi un poco le braccia sulle spine. Facevano male e il sudore bruciava, ma si poteva sopravvivere. C’era dolore, nelle piccole ferite, ma si poteva sopravvivere. Non erano la fine. Forse gli altri lo avevano sempre saputo, ma lui lo scopriva soltanto adesso. Ti potevi ferire, ma oltre la ferita ci sarebbe anche stato qualcosa. Di bello? Di brutto? Non lo sapeva. Ma qualcosa ci sarebbe stato. E passò.
Proprio ciò che il bambino Piero Scarsi, di trent’anni prima, non aveva avuto il coraggio di fare. Era fuggito, davanti alla barriera. Era tornato a casa. E a casa era rimasto, per tutti quegli anni. Chiuso in casa, per evitare i rovi, finché i rovi non lo erano venuto a cercare. Ma finalmente anche lui c’era arrivato. Finalmente anche lui poteva scoprire quello che c’era dall’altra parte della barriera, lungo il sentiero. Anche senza Paolo a guidarlo. Con trent’anni di ritardo, ma c’era arrivato. Oltre quella barriera, che aveva bloccato il suo sentiero, in una estate lontana trent’anni circa.
Il resto, per lui non importava più.