Adriano - racconti e altro

Bava Beccaris

Tutto cominciò col decreto legge che aboliva il denaro contante. Ne avevano discusso a lungo sia in società che in poltrona, e quasi tutti erano sicuri che non sarebbe mai successo. È solo per provocare e stimolare il dibattito, sapete. Lo dicono per svegliarci. Vogliono scuotere e ammodernare il paese. Non lo faranno mai davvero. È solo per fare scena, pubblicità. Figuriamoci.

Solo che lo avevano fatto. Davvero. C’era stata qualche incontro con le parti sociali e il decreto era stato ritoccato un poco, una virgola qui e un punto là, ma la sostanza non era cambiata. Per il denaro contante la campana suonava a morto: sarebbe stato abolito e i bravi cittadini avevano tempo fino al trentuno di dicembre per depositare le loro scorte presso la più vicina filiale bancaria. Banconote e monete sarebbero state distrutte: era un reato il loro semplice possesso, a partire dal primo gennaio.

Poi i numismatici e collezionisti avevano protestato e minacciato lo sciopero a oltranza. Il governo ne aveva discusso con altre parti sociali e aveva accettato un piccolo compromesso: era consentito il possesso di una modesta quantità di denaro a scopo di collezione, ma solo se non aveva corso legale da almeno trent’anni. I numismatici avevano brontolato un poco, ma si erano arresi.

E gli altri? Applaudivano. Il discorso del megapremier Ramarri era stato commovente, aveva saputo toccare lo spirito della nazione e aveva indicato la via che l’avrebbe condotta a un futuro più puro e luminoso. Il contante aiutava le mafie e il crimine. Per il bene dei bambini, era nostro dovere morale costruire un paese migliore e più sano. Con le banche a controllare e gestire ogni tipo di transazione economica e commerciale, dalle più piccole alle più grandi, avrebbero trionfato onestà e sicurezza. Chi si opponeva ai pagamenti smart aveva chiaramente qualcosa da nascondere ed era un criminale.

Le persone perbene non avevano da temere alcunché. La banca è tua amica.

Blablabla.

Non tutti lo avevano accettato. C’erano state manifestazioni a favore dell’iniziativa, coi cittadini che scendevano in piazza a bruciare pezzi di carta colorati come banconote e a ricevere gli applausi dai poliziotti in alta uniforme, ma c’erano anche stati gruppi di gentaglia che si erano radunati in piazza senza autorizzazione, a urlare slogan di cattivo gusto e agitare cartelloni e striscioni che mettevano in dubbio rettitudine e onestà del megapremier. Una barbarie, a cui il governo era stato costretto a rispondere nell’unico modo che certa feccia antropomorfa poteva capire. Ma lo aveva fatto con le lacrime agli occhi, sapete: come il buon padre che deve punire l’amato figlio per educarlo.

«Hanno mandato Bava Beccaris,» disse l’attempato geometra Righini, quasi-capo del loro gruppo.

Prima calò il silenzio nella sala, poi si levarono cauti mormorii di disgusto e orrore, sparsi e incerti.

«Non ci deve sorprendere,» proseguì il geometra. «Lo hanno progettato apposta ed era ovvio che lo avrebbero usato davvero, prima o poi. Non sarei sorpreso se tutta questa storia fosse solo una scusa per collaudarlo sul campo. Certa gente sarebbe capace di tutto, sapete.»

I presenti annuivano e mugugnavano il proprio accordo. Sapevano, già. O erano convinti di sapere, che nella maggior parte dei casi è fondamentalmente la stessa cosa.

Arrigo Tortora li osservava dal suo angolo, schiena al muro e braccia incrociate. Il geometra Righini aveva cominciato a raccontare in dettaglio cosa aveva fatto Bava Beccaris, quando la polizia aveva scatenato la bestia sulla gente che protestava in piazza Duomo a Milano e causava un serio disturbo a turismo e commercio. Lo aveano già visto tutti cosa avesse fatto. Video censurati erano accessibili ovunque e a chiunque, ma il geometra lo raccontava lo stesso. Era quel tipo di persona, capite.

Nessuno dei presenti alla riunione di quella sera era stato presente anche a Milano. Non ci sarebbero stati oggi, se ci fossero stati ieri. Che in realtà non era ieri, ma una settimana prima, però il punto è lo stesso: i due eventi erano mutualmente esclusivi. Se avevi partecipato al primo, a Milano, adesso non potevi più partecipare ad altri. Non in carne e ossa, almeno. In spirito chissà.

Arrigo annuiva e sbadigliava. Sapeva che avevano ragione, a grandi linee, ed era per questo che lui partecipava agli incontri. Erano interessanti, grossomodo. Ti facevano sentire parte di qualcosa. Non qualcosa di alto livello, d’accordo, ma era meglio di niente. Più o meno. E poi non c’era pericolo, lì alle riunioni. Fuori nelle piazze ce n’era parecchio, ma nelle piazze lui non ci andava. E, a giudicare dal fatto che erano ancora tutti presenti, pure gli altri erano della stessa idea. Incluso il geometra.

Ma la filippica proseguiva. Righini descriveva l’arrivo di Bava Beccaris, come se fosse stato anche lui in piazza, assieme ai protestanti e ai loro slogan di dubbio valore artistico. Parlava di come tutti gli sbirri si fossero fatti da parte, «come il mar Rosso davanti a Mosè», ma non c’era alcun tipo di salvezza in arrivo, non per loro. C’era Bava Beccaris, che avanzava verso la folla. Che poi, diciamo la verità, non era una gran folla: giusto qualche centinaio. Ma erano una folla dentro.

E Bava Beccaris li aveva accolti. E pacificati, come il suo programma dettava.

Il governo lo aveva presentato come un prodigio del genio italico, anche se di italiano c’era solo il nome. Lo aveva sviluppato una celebre casa automobilista che negli ultimi anni aveva cambiato più volte sigla e paradiso fiscale, tra una fusione e l’altra, ma questo era secondario. Rilevante era la sua natura. La natura di Bava Beccaris.

Era un drone, grossomodo, o un’auto a guida autonoma, a seconda delle opinioni. Fosse come fosse, assomigliava a una via di mezzo tra una berlina di lusso e un carro armato. Non aveva pilota, ma si muoveva e agiva seguendo le indicazioni dei server e la sua programmazione. Sapeva fare una sola cosa, ma la faceva molto bene. Era stato progettato per mantenere la pace nelle città, per il valore di pace stabilito dal governo in carica. Per mantenerla meglio, era dotato di tre potenti cannoni.

Come il celebre generale di cui l’Italia intera andava ancora oggi orgogliosa e in onore del quale era stato battezzato, Bava Beccaris era spuntato tra due ali di sbirri, aveva registrato la presenza di una folla irrequieta, aveva scambiato informazioni col server, era avanzato ancora di qualche metro, con la folla che indietreggiava e lo guardava molto male. Aveva attivato il cannone frontale e i cannoni laterali, più piccoli ma più precisi. Si era fermato.

E aveva distribuito pace e giustizia come se non ci fosse un domani. Il che era stato vero per quasi tutti i presenti, almeno quelli sul lato sbagliato dei cannoni.

Arrigo Tortora annuiva serio. Aveva sentito la stessa solfa almeno una decina di volte da fonti e voci diverse, ma doveva riconoscere che il geometra Righini era un bravo narratore. Ci metteva la giusta enfasi, senza esagerare, e sapeva dove e quando fermarsi, per creare il giusto pathos e tenere viva la tensione. Era un altro motivo per frequentare gli incontri: erano inutili, ma più divertenti della tv.

Dopo il racconto venne il dibattito, o quello che passava per dibattito nelle loro riunioni. Somigliava a quello che puoi trovare nelle assemblee studentesche di un liceo o di una università, almeno nelle aree umanistiche: sbraitavano meno ed erano meno creativi, ma la concretezza era la stessa. Il che, a dirla tutta, non era malaccio. Arrigo si sentiva di nuovo giovane, ad ascoltarli. Giovane e fresco.

Non che fosse così vecchio, non fisicamente. Aveva passato da poco i quaranta e la sua forma fisica era ancora accettabile, nel complesso. Era il lavoro a invecchiarlo. Costretto a riciclarsi rider, dopo che il suo negozio di strumenti musicali era morto per anemia perniciosa di clienti, sentiva che una vita in cui vaghi per il territorio comunale come la pallina di un flipper difettoso aveva almeno una cosa in comune con quella dei cani: ogni anno ti invecchiava di sette.

Le riunioni erano... rilassanti, sì. Ascoltavi, chiacchieravi, stavi in compagnia, ti sfogavi e alla fine non facevi niente, ma almeno avevano una certa valenza catartica. Ti illudevi di fare qualcosa, e gli altri attorno a te erano ben felici di rafforzare l’illusione, perché serviva a tutti. Non siamo rimasti in casa a lamentarci su un social network, potevano mentire a se stessi: abbiamo discusso con la nostra cellula sovversiva di come combattere l’oppressione del governo. Ci siamo opposti.

Il che era in parte vero. Ne discutevano, ed erano i momenti che più ricordavano ad Arrigo gli anni eroici della sua giovinezza, quando si progettava e si fantasticava, per poi rimandare tutto a domani. Inutile ma catartico, appunto.

Quella sera non andò così.

Dopo quasi mezz’ora di chiacchiere, un tizio quasi sconosciuto aveva preso la parola e lanciato una forte provocazione. «Uccidiamo Bava Beccaris!» aveva esclamato, levando un dito al cielo. Che nel caso specifico era il soffitto, ma fungeva da cielo e tanto bastava. Era molto simbolico.

Gli altri lo avevano guardato perplessi. C’erano stati mormorii, brusii e rumori vari. Il geometra era intervenuto a braccia levate, per invocare calma e attenzione, e grossomodo le aveva ottenute.

«Cosa intendi di preciso?» aveva chiesto.

«Distruggiamo quel maledetto catorcio: ecco cosa intendo,» aveva spiegato il tizio semisconosciuto.

C’erano stati altri mormorii, a favore e contro, poi il geometra aveva chiesto al tizio di salire con lui sul palco e spiegare il suo piano, se ne aveva uno. Accadeva spesso e di solito erano piano fumosi o assurdi, quando andava bene. Distruggere Bava Beccaris doveva essere dello stesso tipo. Arrigo era riemerso dal placido torpore della memoria e aveva fissato anche lui il palco con vago interesse.

Se lo potevi chiamare palco. La stanza dove si radunavano era un camerone poco usato nell’oratorio annesso alla parrocchia di S. Giovanni Complottista: il parroco glielo lasciava usare alcune sere, sia perché molti dei presenti erano suoi parrocchiani, sia perché sapeva che erano innocui. E c’era sì un qualche tipo di palco, ma era giusto un rialzo sul fondo della stanza, più i quattro gradini per salirci. La sua esistenza era dovuta solo al fatto che lì sotto c’era una specie di magazzino e serviva un poco di spazio extra, così avevano sollevato un tratto del pavimento della sala. E il palco fu.

Lo occupavano in due, adesso: il geometra Righini e il tizio semisconosciuto. Era abbastanza alto e robusto, ma non proprio grasso; aveva occhialini tondi e il genere di faccia che ti sembra di aver già visto da qualche parte, ma non sai mai dove di preciso. Alle riunioni, certo, ma Arrigo Tortora era quasi sicuro di averlo incrociato anche fuori, qualche volta. Al supermercato? Forse. Destinatario di una consegna? Ancora più probabile. Fosse come fosse, si presentò come Ettore Di Luca, che era un nome come un altro e non aveva tratti particolari.

Il geometra Righini si fece di lato e lo esortò a spiegare la sua idea. Ettore obbedì.

«L’ho detto e lo ripeto: dobbiamo uccidere Bava Beccaris. Finché gli sbirri continueranno a usarlo, i nostri tentativi di protesta finiranno tutti allo stesso modo. Come a Milano.»

Il pubblico annuiva. Non gli si poteva dare torto, fin qui.

«Capisco che distruggerlo sia difficile, ovvio, ma dico che non è impossibile. Se lavoriamo assieme, ce la possiamo fare. L’unione fa la forza!»

Ah, retorica vuota: adesso siamo a casa. Arrigo Tortora annuì soddisfatto.

Solo che stavolta c’era anche il pieno. Dopo una dose extra di retorica e frasi fatte, Ettore sganciò la sua bomba: dobbiamo attirare Bava Beccaris in trappola, dentro una gabbia di Faraday, e poi sotto a impallinarlo con fucili da caccia. Mio cugino ha un negozio di articoli sportivi e ci può procurare un certo numero di fucili speciali, se vogliamo. Costano un po’, ma ne valgono la pena.

Nella sala calò il silenzio. Una proposta. Non solo: sembrava vagamente concreta. Che fare adesso?Dargli corda? O cambiare argomento? Perché sì, ok, sembrava abbastanza concreta, ma sembrava di sicuro molto pericolosa, che era un altro paio di maniche. Meglio non prendere decisioni affrettate.

Arrigo era ancora fermo alla gabbia. Faraday. Era moderatamente convinto di avere sentito il nome, o un nome simile, ai tempi del liceo, ma non ricordava il contesto. Forse non lo aveva mai saputo.

«Cosa sarebbe una gabbia di Faraday?» chiese alla signora Girini, che gli stava quasi di fronte.

«È una specie di scatola per bloccare certe radiazioni,» gli spiegò, girandosi verso di lui. «La usano nei forni a microonde, per esempio. In quel caso è una specie di rivestimento interno, sai, uno strato extra per schermare e, beh, per proteggerti, insomma. Non fa uscire certe radiazioni.»

Arrigo la guardò perplesso. «E il tizio lì, Ettore, vorrebbe cuocere Bava Beccaris?»

La signora Girini scosse la testa. «Si usa anche per altre cose, sai. Tipo per, per i cellulari, no? Così non trasmettono. Ho visto un film dove un tipo faceva mettere i cellulari nel forno a microonde, per impedire che comunicassero con l’esterno. Perché il forno è una gabbia di Faraday, no?»

Arrigo Tortora annuì e decise di lasciar perdere. La signora Girini era ortolana, aveva buona frutta e verdura e prezzi onesti, ma cosa ne poteva capire di gabbie? Cose viste nei film, ovvio. Brava donna e a modo suo simpatica, la signora, ma faceva quello che poteva. Arrigo sorrise di superiorità.

Intanto la discussione proseguiva, sia sul palco che attorno. Ettore Di Luca spiegava altri dettagli di quello che descriveva come il suo piano geniale, cosa servisse per costruire una gabbia e dove se ne potesse nascondere una. «Poi si tratta solo di attirare il maledetto rottame, no? Un gruppetto che fa da esca, gli altri in agguato, e una volta che Bava Beccaris è nella gabbia noi chiudiamo tutto e giù col tiro a segno. Mio cugino ci può far avere anche i proiettili giusti, sapete. Da caccia grossa

Il geometra Righini esitava, altri nel gruppo sembravano più interessati. Moderatamente. Tornava di continuo una domanda, ed era sempre la stessa. Ma è pericoloso? Ma quanto si rischia? Era il punto chiave e la discussione non si sarebbe mossa di un solo passo, fino a che qualcuno non avesse dato la risposta giusta. La risposta giusta poteva essere solo una: non ci sono rischi.

Ettore allargò le braccia. «Chi non risica non rosica. Il rischio zero non c’è, nessuno ve lo può dare, ma avete visto anche voi cosa succede oggi a chi protesta, no? E chi non protesta deve obbedire. La scelta è vostra: preferite lottare per le vostre convinzioni, oppure strisciare e leccare i loro piedi? Io combatterò fino alla fine e pensavo che anche voi lo volevate, ma se preferite nascondervi...»

Ci furono brontolii e mugugni. Non è che preferiamo nasconderci, è che preferiamo non morire, sai com’è. Ma è davvero vita, se sei solo un servo? È davvero vita se non sei morto. Ma è una vita che vale la pena di essere vissuta, sempre a sottostare a gente come il megapremier Ramarri, che ti gira e ti rigira come vuole lui, ti tratta come un oggetto, come un giocattolo? Non avete davvero dignità? La paura la capisco, ma arriva un momento in cui bisogna decidere se si vuole essere servi e vivere nel terrore, oppure essere uomini e rischiare di farsi male, o peggio.

E blablabla.

Gli altri esitavano, decidevano, ci ripensavano, balbettavano, si consultavano coi vicini. Arrigo non aveva ancora deciso cosa pensare, anche se una certa tendenza a nascondersi ce l’aveva, ma proprio davanti a lui la signora Girini stava spiegando al suo vicino, il ragionier Pera, che era davvero stufa di quella storia e non se ne poteva più, era arrivato il momento di far capire a chi comandava che la gente era stanca e voleva parlare, voleva vivere, non solo obbedire e servire.

«E poi è la storia del mandato celeste, sai. Lo avevano i confuciani. L’imperatore governa, perché il cielo gli ha dato mandato di governare, ma il cielo glielo può revocare in ogni momento, se lui non si comporta bene. Anche l’imperatore ha i suoi doveri, sai. Se l’imperatore non si comporta come si deve, come un vero imperatore, allora non è degno del suo titolo e la gente ha diritto di ribellarsi, di cacciarlo, perché è imperatore solo di nome e non più di fatto.»

Arrigo si chiese cosa ne potesse sapere una ortolana del confucianesimo, ma rimase zitto. Aveva una brutta fama, la signora Girini: se le facevi saltare la mosca al naso, era peggio per te, dicevano. Non che lui le avesse mai fatto saltare la mosca al naso. Avevano rapporti strettamente commerciali: lei gli vendeva frutta e verdura e lui pagava e ringraziava. Era molto più sicuro così. E poi aveva buona merce a un prezzo onesto e accettabile, come si diceva. Meglio tenersela amica una così.

Ma intanto la discussione proseguiva e sembrava stabilizzarsi. Il geometra Righini lanciò ancora un paio di inviti alla prudenza, perché era più saggio pensare e valutare con calma, a mente fredda, per non lasciarsi guidare dalle emozioni. Nessuno sembrava ascoltarlo. Ascoltavano invece Ettore, che si era ormai preso la piazza e scendeva nei dettagli su come si sarebbe svolta l’operazione.

«Uccidere Bava Beccaris: questa è la chiave di tutto. Se ci riusciamo, e ci riusciremo se seguiamo il mio piano, lanceremo un segnale fortissimo alle istituzioni e dimostreremo al megapremier Ramarri che tutti i giocattoli del mondo non bastano, quando il popolo decide di far sentire la propria voce. E noi vogliamo fare sentire la nostra voce! Noi siamo stanchi di subire e basta. Siamo stanchi

In effetti c’era una certa aria di stanchezza sulle facce di diversi presenti, ma Arrigo l’attribuiva alle troppe chiacchiere che riempivano la sala, unite alla robusta dose di retorica. Pure, doveva anche lui riconoscere che l’idea non era malaccio. Uccidere Bava Beccaris! Sarebbe stato un colpo. E sarebbe stato un rischio, ovvio, ma in effetti era vero che senza rischiare un poco non otterrai mai nulla.

La pelle era tanto, tendente al troppo, ma il premio... Beh, un poco lo attirava.

E il piano di Ettore non era male. Perfezionabile, ovvio, ma aveva una sua logica. Aveva fascino. E i pericoli sembravano minori di quanto si sarebbe aspettato lui. Non piccoli, ma minori.

Funzionava più o meno così. Convertiamo questa sala in una gabbia di Faraday. Si può fare e non ci costerà molto. Con la nostra manifestazione ci manteniamo vicino alla piazza della chiesa, che è sia grande sia abbastanza centrale. Quando arrivano gli sbirri, cominciamo a indietreggiare. Lanciamo qualche sasso e altri oggetti, cantiamo slogan, li provochiamo, facciamo finta di essere più cattivi e più pericolosi di quello che siamo. Intanto ci spostiamo verso il retro dell’oratorio e l’ingresso della sala. Quando arriva Bava Beccaris, breve scarica di sassi e poi si corre via, dentro la sala. Ci segue e si infila nella sala anche lui. Chiudiamo la gabbia. Chi era già appostato comincia a sparare, mentre gli altri si mettono al riparo e poi si uniscono al fuoco. E Bava Beccaris è un rottame.

C’era tanto che poteva andare storto e non era chiaro cosa sarebbe successo dopo, ma l’idea che una macchina di morte sarebbe stata distrutta da loro, proprio da loro, aveva un fascino orrendo. Valeva quasi la pena di tutto, per togliersi una soddisfazione simile. E con qualche ritocco al piano...

Ci furono i ritocchi, poi il geometra Righini mise ai voti la proposta. Non fu unanime, ma quasi. Tre contrari, quattro astenuti, tutti gli altri a favore. La proposta di Ettore Di Luca passò. Per la prima volta nei suoi quasi otto mesi di attività, il loro gruppo avrebbe fatto qualcosa. Qualcosa di diverso dal chiacchierare, beninteso. Quello non era mai mancato.

«Ma io non sono sicuro davvero. Non sono proprio sicuro,» si lamentò a voce bassa Righini, mentre uscivano dall’oratorio. Scuoteva la testa e sembrava più miserabile del solito. Era quasi un record.

Arrigo Tortora si strinse nelle spalle. Si era quasi astenuto, ma aveva votato a favore perché c’era la signora Girini che lo guardava male e lo faceva sentire un verme. Adesso però ci stava ripensando.

«Basta non mettersi in prima fila, no? Prendiamo un posto nelle retrovie, uno di quelli più sicuri, un posto magari in agguato nella sala, così il grosso del pericolo ci passerà oltre, no?» disse.

«Ma non è il pericolo, non è il pericolo,» rispose Righini, torcendosi le mani. «Ti fidi davvero, tu? E dico di quell’Ettore. Ti fidi davvero? Lo conosci? Ti sembra un buon piano?»

«Beh, proprio fidarmi non saprei, ma mi sembra un piano passabile. Se si vuole fare qualcosa, dico. Si può anche non fare qualcosa, se si preferisce, ma se si vuole fare qualcosa, il suo piano ci sta.»

Il geometra sospirò e continuò a scuotere la testa, ma non aggiunse altro. Ad Arrigo andava bene il silenzio: non aveva molta voglia di fargli da spalla su cui piangere. Si arrangiasse da solo. Se aveva bisogno di chiacchierare, il geometra poteva farlo con, non so, la signora Malvisi, che era poco più avanti, borbottava tutta seria e aveva un negozio di filati, uncinetto e roba simile. Le piaceva molto ascoltare le chiacchiere altrui, alla signora Malvisi. Ad Arrigo molto meno.

Per qualche tempo non se ne discusse più, mentre procedevano i preparativi per convertire la sala in una gabbia di Faraday. Arrigo Tortora aveva cercato in rete cosa fosse quella roba ed era stata una grossa sorpresa scoprire che la signora Girini non ci era andata poi tanto lontano. Restava da vedere se un affare del genere avrebbe davvero bloccato o rallentato Bava Beccaris, ma Ettore giurava di sì e gli altri sembravano credergli in linea di massima e alla fine anche lui decise di accettarlo in fede.

Per il momento. E con qualche riserva.

A fine mese era tutto pronto. Il parroco aveva brontolato per i lavori che facevano e ancora di più si era lamentato per la loro idea di manifestare davanti alla chiesa. «È quasi l’Immacolata, amici. Non è il tempo per le manifestazioni e l’ostilità. Dobbiamo essere tutti fratelli. E poi proprio qui davanti, vi dico io! Almeno cambiate posto, andate a manifestare davanti al municipio. È più appropriato.»

Don Fabio non aveva tutti i torti e alcuni del gruppo gli davano ragione, ma poi Ettore lo prese per un poco da parte, discussero in privato e alla fine il parroco sembrò arrendersi all’inevitabile, anche se era chiaro che lo faceva controvoglia. Sembrava anche un poco depresso.

Ma i preparativi continuavano e i fucili da caccia erano arrivati. C’era stato bisogno di una colletta e il cugino aveva fatto uno sconto, ma era stata comunque una bella spesa. A vederli così, da vicino, il primo contatto che il loro gruppo avesse mai avuto con vere armi da fuoco, si poteva quasi pensare che tutto sommato il prezzo fosse stato giusto. Erano ben belli. Da vedere, almeno. Da usare...

Fucili da caccia, sì, ma mica la solita roba. Ettore spiegò le modifiche che aveva richiesto e il tipo di proiettili che avrebbero sparato. Potenti a sufficienza da perforare la corazza di una bestia come era il caro Bava Beccaris, ed erano esplosivi, mica balle. Lo avrebbero sventrato come un tacchino.

«Per cui c’è da stare attenti, capite. Non sono giocattoli. Se colpite qualcuno, lo fate omogeneizzato. Sparate solo sul rottame, mi raccomando, e solo quando non c’è qualcuno in mezzo. Nel dubbio, è sempre meglio non sparare. Sarebbe un disastro se ci ammazzassimo tra noi.»

Alcuni annuivano saggi, altri annuivano e basta. Qualcuno qui e là guardava dubbioso i vicini, ma lì nel gruppo nessuno osava lamentarsi davvero. Non a voce alta. C’era una certa carica nell’aria, una tensione non proprio elettrica ma quasi. Parlarne male l’avrebbe potuta spezzare e nessuno di loro lo voleva rischiare. Stavano per fare qualcosa di grosso, mica chiacchiere. Non si potevano fermare.

Non si fermarono.

E venne il giorno della manifestazione. Il cielo era nuvoloso, senza minacce di pioggia. Non faceva neppure freddo, per essere l’inizio di dicembre. Giusto un filo di vento, le polveri sottili oltre i limiti ma non di troppo, e in generale le condizioni erano perfette per starsene all’aperto e fare casino. O anche non fare casino, volendo. Il gruppo non voleva. Più o meno.

Ettore Di Luca aveva di fatto preso il posto di Righini come leader non dichiarato. Verso le dieci del mattino passò in rassegna le truppe nella sala dell’oratorio, da poco riconvertita a gabbia di Faraday artigianale. Spiegò di nuovo il piano, controllò striscioni e slogan memorizzati, studiò disposizione dei fucili e facilità con cui si potevano recuperare al momento del bisogno, diede consigli, si lanciò in un breve discorso prepartita per caricare i giocatori, fece in generale la sua parte.

«E ricordatevi: ammazzare Bava Beccaris. Questo è l’obiettivo. Il resto non conta. Sparategli tutti i proiettili che avete. Dobbiamo farlo fuori. Fuori

Arrigo Tortora si guardava attorno tra il perplesso e l’incerto. Non gli era ancora del tutto chiaro il modo in cui fosse andata a finire così, ma c’era andata. Avevano organizzato davvero qualcosa e ora si preparavano a fare qualcosa. Qualcosa di grosso. Di pericoloso. E lui c’era in mezzo, pure troppo vicino alla prima fila per i suoi gusti. Aveva cercato di ottenere un posto nelle retrovie, ma Ettore lo aveva scelto per la piazza. «Sei giovane, sei in forma, sei perfetto per questo lavoro.» Il che era vero se guardavi all’età media del gruppo, ma non era incoraggiante.

Perché se guardavi davvero all’età media del gruppo, cominciavi anche a pensare che non ti sarebbe andata a finire bene e ti venivano dubbi. Ma tanti, tanti dubbi.

Il geometra Righini, non lontano da lui, sembrava qualcuno a cui era appena morta l’intera famiglia, e molto male. Alcuni erano carichi, tipo la signora Pomini, che aveva l’edicola vicino alla stazione, o l’idraulico Sbarbi, che non ti faceva una fattura neanche con una pistola alla tempia, ma almeno il prezzo era onesto. Altri erano confusi, come il signor Scaraboni, bidello alla scuola elementare del quartiere, ma si facevano forza guardando i vicini. Se erano tutti lì, voleva dire che era giusto, no? E sarebbe andata a finire bene, no?

Forse, magari, può darsi.

Ettore Di Luca era in testa, a condurre le danze. Seguirono il suo copione e partirono con gli slogan più moderati e civili, mentre riempivano la piazza davanti alla chiesa e agitavano cartelloni. Alcuni passanti li guardavano, di tanto in tanto qualcuno li invitava a fare visita al più vicino bagno, ma per lo più erano ignorati. La vita attorno a loro proseguiva come se neppure esistessero.

Era un po’ triste, se ci pensavi.

Poi Ettore fece un gesto e il gruppo si riversò in strada a bloccare la circolazione. Arrigo fu sorpreso nel vedere che le auto si fermavano davvero, invece di tirare dritto e spalmarli sull’asfalto, come di solito cercavano di fare con lui quando era in motorino per una consegna. Sembrava ingiusto, ma al momento gli andava bene, visto che in strada c’era pure lui.

Slogan, clacson. Clacson, slogan. Cartelli e insulti, striscioni e altri insulti. A breve sarebbero dovuti arrivare i poliziotti, secondo il copione di Ettore, ma ancora non si vedevano. Era meglio spostarsi e tornare a casa? Arrigo si avvicinò al geometra Righini per sentire la sua opinione, ma non ne ebbe il tempo. La prima camionetta blindata spuntò dalla curva, seguita da un’altra, e un’altra ancora.

Si fermarono, raccolsero qualche applauso da passanti o automobilisti bloccati, poi cominciarono a sgorgare gli sbirri, tutti in tenuta antisommossa e antimanifestanti. Elmi, scudi, manganelli, giacche pesanti, stivaloni rinforzati, megafoni e un paio di lanciafiamme. Sembrava che il loro gruppo non si meritasse di meglio: li dovevano giudicare un piccolo fastidio locale, niente di serio. Per Arrigo la cosa andava benissimo, ma grazie del pensiero.

Ettore fece un gesto e il gruppo arretrò di qualche passo, come concordato. La falange di giustizia e legalità avanzò di qualche passo, mantenendo le distanze. Altro gesto di Ettore e la danza si ripeté al ritmo di una gavotta piuttosto tranquilla. Gli sbirri in prima fila agitarono i manganelli. I rivoltosi in prima fila risposero agitando i cartelli e urlando due slogan. La signora De Boni urlò anche una cosa che fece vergognare parecchio chi si trovava di fianco a lei, perché sembrava avere riconosciuto uno dei poliziotti e sapere un paio di dettagli sulla sua vita privata che il poliziotto avrebbe preferito non rendere di pubblico dominio, con tutta probabilità. Nomi inclusi.

Era stata una maestra, la signora De Boni: una razza temibile.

Ai poliziotti non piacque. Ma proprio per niente. Cominciarono ad avanzare sul serio, manganelli in resta e scudi levati. Ettore Di Luca fece segno di arretrare e partire con la fase B, mentre si spostava dietro la prima linea di protestanti, probabilmente in cerca di un posto più sicuro da cui dirigere.

Arrigo Tortora sospirò e scambiò uno sguardo carico di pensieri inespressi col geometra Righini, poi lanciarono un paio di sassi ciascuno, con forza sufficiente ma mira nulla. Caddero lontano dagli sbirri. Altri proiettili, per valori molto bassi di proiettili, colpirono gli scudi e rimbalzarono via, per una sassaiola che fece tanti danni quanti una pistola ad acqua sparata contro una lastra di granito.

Servì a provocare le forze dell’ordine, che era poi l’obiettivo di Ettore, almeno stando al suo piano. I poliziotti avanzarono a ranghi serrati e i manifestanti indietreggiavano verso la chiesa. Uno sbirro si girò e fece un gesto poco chiaro a chiunque si trovasse dietro di lui, prima di tornare a puntare sui cosiddetti rivoltosi. Si stava ormai avvicinando il momento in cui sarebbe dovuto intervenire Bava Beccaris, giusto? In base al copione di Ettore, almeno. Arrigo controllò l’orario e sì, doveva essere il momento, più o meno. Lanciò un altro paio di sassi per fare scena, poi indietreggiò più in fretta.

Erano quasi arrivati ai gradini della chiesa, i sassi finiti e gli slogan più puerili e offensivi gridati già fino alla nausea, quando la falange della giustizia si fermò e cominciò ad aprirsi, come le acque del mar Rosso in un kolossal biblico a bassissimo budget.

E nel varco apparve Bava Beccaris.

Il primo pensiero di Arrigo fu che era più imponente in video. Quando aveva guardato le scene delle sommosse di Milano, come le avevano definite i notiziari, Bava Beccaris era sembrato non proprio un carro armato da filmone di guerra, ma almeno un veicolo grosso come, non so, un furgone per le consegne, oppure un piccolo pulmino per le trasferte da oratorio, roba simile. Più grande di un’auto, con un cannone piuttosto imponente sul muso e altri due sui fianchi, il mosto dei video era stato una figura che ispirava, ok, magari non proprio rispetto, ma paura sì. Soggezione. A tratti cacarella.

Quello che vedeva adesso, dal vivo, sembrava più che altro un Fiorino riciclato come carro per una sfilata di carnevale da piccolo paese. I cannoni c’erano, d’accordo, ed era grossiccio a modo suo, lo doveva ammettere, ma non ispirava alcuna soggezione. Non più del catorcio di tuo zio.

«Tutto qui?» disse il geometra accanto a lui. Arrigo si strinse nelle spalle. Ma Ettore Di Luca aveva cominciato a correre e faceva gesti frenetici. Indietro, indietro! Di lato! Qualcosa del genere. Tanto per stare sul sicuro, il gruppo optò compatto per una ritirata strategica.

Specie perché i poliziotti stavano correndo verso di loro ai fianchi di Bava Beccaris. E urlavano. E i loro manganelli sembravano parecchio dolorosi. Meglio non verificarlo.

Fuggirono in massa verso l’oratorio, abbandonando i sassi residui e i cartelli. Ettore li guidava, tutti lo seguivano, Bava Beccaris rombava, gli stivali dei poliziotti pestavano come stantuffi e la gente si lanciava in applausi e cori entusiasti, mentre guardava quella fantastica scena che si svolgeva gratis davanti a loro. Molti filmavano. Alcuni si facevano pure un selfie o due, come ricordo.

Ma erano veloci, gli sbirri, ed era veloce Bava Beccaris, per quanto squallido e poco impressionante potesse essere di persona. I manifestanti fuggivano sparpagliati, simili a formiche impazzite a cui un passante ha appena calpestato il formicaio. La direzione generale era quella dell’oratorio, ma qui e là qualcuno perdeva terreno, tentava deviazioni tattiche per superare blocchi e insomma ogni ordine si era perso, se mai ce n’era stato uno. Tutti fuggivano, ma ognuno lo faceva a modo proprio.

Arrigo Tortora era rimasto piuttosto indietro e non ne era contento. Il geometra Righini era due o tre metri dietro di lui e ansimava come un maniaco sessuale asmatico. Arrigo si girò per incitarlo, ma i poliziotti gli apparvero molto più vicini di quanto si aspettasse, decise di risparmiare il fiato, ebbe il tempo di desiderare di essere altrove, poi vide Righini cadere e fu il panico.

Il ragioniere piombò a terra come un sacco di letame. Inciampato, incespicato, stanco: poteva essere di tutto, non c’era tempo per indagare. I poliziotti erano proprio dietro di lui. Arrigo rallentò, fece il più piccolo dei cenni per tornare indietro, incrociò lo sguardo disperato di Righini, vide i poliziotti e i loro manganelli, deglutì, decise. Voltò le spalle al compagno caduto e corse alla massima velocità, pronto a scaraventare a terra chiunque gli passasse davanti e lo facesse rallentare.

Ebbe giusto il tempo di vedere sbirri chiudersi attorno a Righini, poi smise di pensare e si impegnò a dimenticare tutto il più presto possibile. Non ci riuscì molto bene, ma l’oratorio era là, spalancate le sue porte laterali che conducevano alla sala. Alla salvezza, forse. Corse come se avesse alle spalle il diavolo, anche se in realtà erano poliziotti e Bava Beccaris, che erano molto peggio del diavolo perché loro esistevano davvero ed erano tangibili. Fin troppo.

Ce la fece. Arrigo Tortora infilò in tempo l’oratorio, intravide i due appostati di fianco alla porta, pronti a chiuderla dopo l’ingresso di Bava Beccaris, vide la signora Girini e altre tre persone ferme e armate di fucile, pensò di procurarsene uno anche lui, rinunciò, si afflosciò in un angolo e cercò di ritrovare il fiato. Doveva averlo perso da qualche parte, magari fuggendo, ma era certo che prima o poi si sarebbe ricordato dove. Cercò anche di non farsi venire un infarto, se possibile.

Altra gente si riversava nella sala, più o meno tutti a corto di fiato. Vide la signora Pomini, la faccia più rossa di un tramonto postatomico. Vide Scaraboni, occhi da animaletto peloso sorpreso di notte in mezzo alla strada da un’auto in arrivo. Vide l’idraulico Sbarbi, che digrignava i denti e correva a prendere un fucile. Non vide la maestra De Boni. Non ne fu sorpreso. Non vide neppure Righini, di cui fu ancora meno sorpreso. Mancava pure Ettore Di Luca, ed era un brutto segno. Chi li avrebbe guidati adesso? Dovevano arrangiarsi da soli?

Poi apparve Bava Beccaris e tutti gli altri problemi smisero di avere importanza.

Entrò preciso, senza sfiorare gli stipiti della doppia porta di vetro spalancata. I suoi cannoni laterali ruotarono a coprire il più ampio arco possibile, anche se i residui dei manifestanti erano quasi tutti a ore dodici e dintorni, cioè proprio davanti a lui. Quelli fuggiti, almeno. Ce n’erano altri di riserva, ai lati, che attendevano solo il momento giusto per cominciare a sparare, secondo il piano di Ettore. Il momento giusto sarebbe stato cinque secondi fa, secondo il parere disinteressato di Arrigo.

Poi Bava Beccaris fu dentro, le porte si chiusero dietro di lui, sigillando la gabbia di Faraday, e tutto era pronto per il tiro al bersaglio. In teoria. «Perché non cominciano?» sussurrò Arrigo col fiato che era riuscito a recuperare. La bestia era davanti a lui, uno dei cannoni laterali lo stava praticamente fissando, magari anche fiutando, e sì, d’accordo, c’era altra gente in mezzo, ma era poca e quanto ti poteva davvero fare scudo contro un cannone? Poco, a giudicare dai video. Cosa aspettavano?

Il via, forse, che Ettore Di Luca non poteva dare.

Arrivò lo stesso. Fu la signora Girini a cominciare. Si alzò, urlò qualcosa di inarticolato e sparò. La fiancata destra di Bava Beccaris si prese in pieno il proiettile e non sembrò gradirlo molto. Un buco grosso quasi come un pugno si aprì nella corazza che lo rivestiva. Ma quanto era potente il proiettile di quel fucile? Arrigo Tortora se lo chiese, ma non aveva importanza e lasciò perdere. Gli bastava che fosse potente a sufficienza. Forse lo era.

Arrivò un secondo colpo, poi un terzo, un quarto. Gente si alzava e si abbassava, come pupazzi che saltavano fuori da una scatola. Puntavano alla meglio, sparavano e tornavano a sparire, si sperava a ricaricare il fucile, ma Arrigo non si sarebbe sorpreso se era solo per vomitare o farsela addosso. Lui si sentiva più o meno pronto a fare entrambe le cose, e neppure stava sparando.

Bava Beccaris incassava e non rispondeva. Roteava i cannoni, emetteva strani suoni, ma non ne uscì un solo colpo. Che la gabba di Faraday funzionasse davvero? Che avesse davvero bloccato tutte le comunicazioni col server? Magari ci avrebbero pensato dopo. Per adesso, meglio pompare tanti più proiettili quanti ne potevi sparare in quell’ammasso di rottami, e ridurlo a pezzi. Prima che.

Non serviva specificare il resto. Era al primo posto nella coscienza di tutti.

Forse durò a lungo o forse solo una manciata di minuti. Bava Beccaris era afflosciato al suolo, fatti a pezzi e sradicati i suoi cannoni, trapanate le corazze sui fianchi, sfasciata la parte frontale, divelte le portiere (portiere? A cosa servivano, se era a giuda autonoma?) e in breve ridotto a spezzatino più o meno tutto ciò che si poteva fisicamente ridurre a spezzatino coi fucili.

Un successo. Vero, adesso restava almeno un plotone o due di sbirri sul piede di guerra, ma era solo un dettaglio secondario ed era comunque meglio non pensarci. Per una volta che potevano, i ribelli sui generis volevano soltanto godersi la vittoria. Capitava così di rado.

«Ce l’abbiamo fatta. Lo abbiamo distrutto,» disse Arrigo Tortora, rialzandosi.

«Non ricordo di averti visto fare molto, io,» rispose la signora Girini. «Ma sì, ce l’abbiamo fatta. È andato, questo. Il resto...» Si strinse nelle spalle, il fucile ancora in pugno, presumibilmente scarico.

«E adesso?» chiese la signora Pomini. «Li sentite, fuori?»

Li sentivano sì. Voci, certo, ma non solo. Il suono di un motore, anche. Più di uno, forse. Rinforzi in arrivo? Come se gli sbirri ne avessero bisogno. Pure...

«Ma era davvero Bava Beccaris, questo?» disse Sbarbi, scalciando un pezzo di metallo staccato dal rottame. «Non sembrava poi così forte. Voglio dire, non ha neanche fatto resistenza.»

«Un po’ una delusione, sì,» disse la signora Girini, avvicinandosi. «Capisco la gabbia di Faraday, sì, ma o ha funzionato davvero benissimo, oppure...»

«Oppure,» rispose la voce di Ettore Di Luca.

Si girarono. Era lì, in piedi davanti alla porta aperta. Sorrideva. Dietro di lui si vedevano gli sbirri e soprattutto Bava Beccaris. Un altro Bava Beccaris. Uno molto più simile a quello dei video. Anzi, lo potevi definire identico a quello dei video. O quasi. Aveva un numero di serie sul fianco e quello era forse diverso, ma pochi lo riuscivano a vedere da quella distanza. A nessuno interessava.

«Cosa significa?» chiese Scaraboni: non una delle domande più originali, ma una che tanti avevano voglia di porre. Era appropriata al contesto, dopotutto.

Ettore si strinse nelle spalle. «Significa che la festa comincia adesso. Buon divertimento.» Un cenno con la mano, come a salutare, e si ritirò fuori dal salone, per unirsi agli altri sbirri. Non solo nessuno lo picchiò, ma lo accolsero da amico, con qualche pacca sulle spalle.

Fu solo allora che Arrigo Tortora si ricordò dove aveva già visto il famoso Ettore. Era dalla parte sbagliata di un posto di blocco. Era in divisa e gli chiedeva patente e libretto. Troppo tardi. Si morse le labbra e bestemmiò dentro. Poi Bava Beccaris cominciò e il resto fu storia locale.

E il brigadiere Ettore Di Luca si guadagnò una splendida medaglia, per quella operazione di lotta al terrorismo condotta con tanto successo e senza badare al rischio personale. Praticamente un eroe dei tempi moderni. Per un poco lo ospitarono in televisione, poi finì nel dimenticatoio. Ma il suo lavoro lo aveva fatto e tutti gli sarebbero stati grati. Da qualunque parte fosse finito.

Perché adesso sì che il paese era molto più sicuro, e il terrorismo sconfitto. Al resto avrebbe pensato Bava Beccaris, nei secoli fedele.

di Adriano Marchetti