La borsa di Dora Pani
Cominciò tutto con lo scippo, nella piazza del mercato. Uno scippo di cui il colpevole non avrebbe mai avuto tempo e modo di pentirsi, ammesso e non concesso che se ne sarebbe pentito, in altre circostanze, ma in principio fu lo scippo e da lì tutto discese.
Matteo Epi non era un cattivo ragazzo. Primo perché ormai non lo si poteva più definire ragazzo, se non in senso molto relativo e facendo un uso altrettanto generoso del termine, e secondo perché non era proprio cattivo. Era moralmente disorientato. Aveva girato alla curva sbagliata, da qualche parte nella vita, e da lì in poi era stata soltanto una sequenza di curve sbagliate, una dopo l’altra, per una rivisitazione sociale del celebre effetto-domino. E non mangiava da due giorni, situazione che non aiuta certo a rafforzare la tempra morale di nessuno. Così girava tra i banchi del mercato, testa bassa e mani in tasca, in cerca di un possibile bersaglio. Lo trovò.
Il possibile bersaglio era la signora Dora Pani, persona che aveva raggiunto quella fase della vita in cui, per ragioni ignote ma sicuramente malsane, alcune donne cominciano a manifestare una malata e morbosa ossessione per i gatti. Quella fase in cui, dentro di loro, risuona la Chiamata, la Voce dal cielo che ordina loro di andare e sfamare il maggior numero possibile di felini, ovunque si trovino, e di favorire in ogni modo la risposta di quegli animali all’imperativo biblico del “crescete e moltiplicatevi”, che ha reso i gatti una delle specie più infestanti al mondo. Quella fase che è spesso accompagnata da una borsa. Gli occhi di Matteo si fermarono su quel dettaglio.
Una borsa nera in spalla. Una voluminosa borsa nera. Un’attraente borsa nera. Una succulenta borsa nera. Una borsa che, in un mondo buono e giusto, sarebbe stata molto più utile se ricollocata nelle sue mani, invece di lasciarla sulla spalla di quella vecchia. Ma il mondo, di per sé, non è un posto buono e giusto. Sono le azioni umane, eventualmente, a renderlo così. O anche a renderlo malvagio e ingiusto, a seconda dei casi. In quella particolare circostanza, Matteo Epi si mosse per rendere il mondo un posto un poco più buono e giusto. Almeno secondo il suo modesto parere.
Una variante umana di moto browniano lo portò nei pressi della preda, coi profumi dei banchi di alimentari, pesce incluso, che facevano cantare la marcia imperiale dell’Aida al suo stomaco. Presto lo avrebbe sfamato. Oh sì, lo avrebbe sfamato proprio. Da vicino, quella borsa nera era ancora più grossa e più succulenta di quanto gli fosse sembrata prima. Doveva esserci parecchio da vendere, lì dentro. E come la teneva stretta, la vecchia... Stringi stringi, finché puoi, perché fra poco non potrai più, haha. Che non era proprio il massimo come motto, ma se lo sarebbe fatto bastare, anche perché al momento non gli venivano battute migliori.
L’occasione giusta venne quando Dora Pani era quasi uscita dal mercato. Si fermò a un banco di calzature, proprio ai bordi della piazza, e osservava un paio di pantofole dal bizzarro colore rosa. Le osservava da vicino. Le prendeva e le rigirava, per guardarle meglio. Doveva essere mezza orba, ma non era quello il punto. Il punto era che il fianco con la borsa era proprio rivolto in fuori, dalla parte giusta, e le braccia della vecchia erano in tutt’altre faccende affaccendate. «Prendimi! Prendimi!» gridava la borsa nella mente di Matteo. La poteva prendere, sì. Scatta, afferra, strattona e poi via, verso quel vicolo lì davanti e ancora più in là, verso il pranzo. Ottimo piano, sì.
Matteo Epi controllò di nuovo, cauto come uno scarafaggio. Poca gente, tutti vecchi, nessuno che avesse un’aria sveglia o veloce. E il bersaglio studiava ancora le sue pantofole rosa, come se fossero la cosa più bella del mondo. Oh beh, contenta lei. Tempo di concentrarsi e prepararsi, dunque, per un intraprendente lavoratore in proprio, e Matteo sapeva come fare. Un respiro profondo, un altro respiro profondo, riempire bene i polmoni e poi... scatta!
«La mia borsa! Fermatelo! La mia borsa! Un ladro!»
Nessuno lo fermò. Matteo continuò a correre fino a che gli strilli della vecchia non furono sparivi dietro di lui, poi corse ancora un poco, infine crollò sulla panchina di un parco di periferia. Fatta! Ci aveva sputato mezzo polmone, ma era fatta. Non aveva più il fisico per certe cose, ma in fondo non lo aveva mai avuto, se proprio si voleva guardare i dettagli. Il fisico per mangiare, però, ce lo aveva sempre e adesso avrebbe mangiato. Hah!
Pesava davvero parecchio quella borsa. Chissà cosa ci teneva dentro, la vecchia? Oh beh, qualunque cosa fosse, adesso era sua. Provvisoriamente. Poi avrebbe rivenduto tutto ciò che non era già soldi e per qualche giorno ci sarebbe campato, se dio era buono.
La borsa si mosse. Matteo Epi quasi la lasciò cadere, poi lo stomaco gli somministrò un bel ceffone didattico sulla nuca. Non si è mossa la borsa, ti sei mosso tu, sveglia! Vero, si era mosso lui. Aveva corso troppo e gli tremavano le gambe, tutto qui. Muscoli vecchi, fuori forma, blablabla. Gli era quasi venuto un colpo, che scemo che era! Poi la borsa si mosse di nuovo. Qualcosa dentro la borsa.
Matteo attese un altro ceffone didattico, ma non venne. Stavolta lo aveva visto davvero. Un fianco della borsa aveva tremato, si era gonfiato un poco, come se il suo contenuto spingesse per uscire. Toc toc! Chi è? Sono il mostro della borsa.
Che scemenza! Allucinazione da fame, ovvio, e forse anche la stanchezza ci aveva messo del suo. Però sembrava davvero che ci fosse dentro qualcosa, qualcosa che si muoveva. Era anche un poco calda, la borsa. E pesava parecchio. Cosa ci aveva ficcato la vecchiaccia? Un gatto? Si portava in giro un gatto dentro la borsa? Possibile. Stupido, ma possibile. Aveva una faccia da gattaia, quella befana. Oppure no, aspetta. Uno di quei cagnetti striminziti, tutti tremolanti. Un cane topo, un cane tascabile. C’erano donne mezze matte che li tenevano nella borsa, no? Per motivi che lui non aveva mai capito, ma c’erano. Gente con più soldi che neuroni, di solito.
Matteo Epi sospirò. Un cane. Aveva rubato uno stupido cane? Bella fregatura! Adesso poteva solo sperare che ci fosse anche un portafogli o qualcosa del genere, se no... Se no si sarebbe mangiato il cane? No, se lo poteva evitare, ma se proprio non poteva, beh, mors tua vita mea, cose così. Giusto? Non una bella prospettiva, ma piuttosto che niente era sempre meglio piuttosto. Anche se avrebbe preferito un altro tipo di pranzo. Scuotendo la testa, afferrò la cerniera e aprì la borsa.
Che tremò di nuovo. Tremò forte. Così forte che quasi gli si strappò di mano. Cosa cavolo ci teneva la vecchia? Seriamente, cosa cavolo ci teneva? Il nostro scippatore allargò e guardò. E lo scoprì.
Matteo Epi non avrebbe mai saputo dire di preciso cosa ne fosse uscito, soprattutto perché attività come il parlare non gli sarebbero più appartenute. Prima fu un vento, forte e caldo, come un phon piantato in faccia; poi vennero le immagini, sensazioni, emozioni, tutte più o meno spiacevoli. Fino all’ultima, la peggiore, quando vide e sentì tutto ciò che la sua vita sarebbe potuta essere, tutto ciò che poteva ancora essere, forse, in un domani migliore, se soltanto lui. Se solo. Se.
Quando Dora Pani arrivò, il borsaiolo era un corpo accasciato sulla panchina, vuoto. Davanti ai suoi piedi aveva una borsa nera, la sua borsa nera, ma era tardi. Dora la raccolse, la guardò, la richiuse e maledisse. Vuota. Erano scappati tutti, stavolta: anche l’ultimo. «Brutto cretino» ringhiò.
Ma era sempre così, giusto? Secoli a correre qui e là per il mondo, a recuperarli tutti, e poi ti arriva un cretino che te li fa scappare di nuovo. Perché li doveva sempre portare con sé, un’altra delle sue sciagure. E quando li porti sempre con te, prima o poi capita. Scalciò il cadavere, stringendo i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi. Per gli dei! Aveva una voglia di strozzare qualcuno...
Dove erano finiti, stavolta? Cosa stavano combinando? Si sarebbe mai concluso quel supplizio? In un tiepido giorno di inizio primavera Dora Pani sospirò, alzando lo sguardo verso quel cielo così azzurro e vuoto di nubi, ma già pieno di nuovi vecchi mali. Quel cielo che sembrava deriderla.
Per l’ennesima volta da quando Anfigiee e Atena la modellarono, per volere di Zeus, la sua caccia ricominciava.