Adriano - racconti e altro

Bussano

Bussano.

Ogni notte, ogni notte sento quei colpi contro il legno della porta. Non è forte, non è minaccioso. È il normale suono di nocche che colpiscono una superficie dura, di legno. Eppure mi spaventano.

Bussano.

È difficile dormire, di questi tempi. Rotolo nel letto, durante le ore di oscurità, stanco ma con gli occhi che si ostinano a rimanere aperti: non hanno sonno, loro. Fissano il nero della stanza, il vago chiarore che filtra dalla tapparella, a disegnare il profilo dei mobili. Ma non si chiudono. Non sanno o non vogliono chiudersi.

Perché bussano.

È in quei momenti che lo sento, quel tamburellare sulla porta d’ingresso. Tre, quattro colpi, rapidi. Poi torna il silenzio. Aspetto, trattenendo il fiato. Altri colpetti, lo stesso numero di prima, o forse qualcuno in più. Non li conto, mai, proprio come non guardo mai l’orologio: è strano per un fissato come me, che prepara la pasta col cronometro, per non sgarrare neppure di un secondo sul tempo di cottura ufficiale. Eppure mi succede, tutte le notti.

Quando bussano.

A volte credo di addormentarmi, dopo aver sentito quel bussare, ma è un sonno pessimo, irrequieto, fatto di incubi. Non importa. Mi aiuta a raggiungere più in fretta l’alba. Va bene così. Spegnere la coscienza, per qualche ora non pensi più a niente, è la mia consolazione. È rilassante, è positivo. I tuoi problemi sono sogni, per un poco, e scompaiono quando riapri gli occhi. Peccato che il trucco non funzioni sempre.

Bussano.

Già, è per questo che non funziona sempre. Perché c’è qualcuno che bussa alla porta, nel buio. È il veleno che appesta la notte, come mille altri contaminano il giorno: cose che posso vedere, toccare, riconoscere, perché su di esse splende il sole. Problemi che non saprò mai risolvere, d’accordo, ma che mi spaventano di meno. Perché li vedo, li riconosco. Non come di notte.

Mentre bussano.

Ho tentato di tutto, per non sentire quel rumore, ma è stato inutile. È un suono delicato, di qualcuno che vuole annunciarsi con discrezione, senza disturbare. Proprio ciò che ci si potrebbe aspettare, da un vicino che viene a cercarti a tarda notte. Un vicino cortese, per lo meno. Sembra così naturale, sembra così reale, ma non lo è. Non penso che lo sia. Chiudo le porte, infilo la testa sotto il cuscino, ma continuo a sentirlo. Solo di notte, lo sento.

Se bussano.

Non si lascia attutire, non si lascia smorzare. La mia stanza è nel punto più lontano dall’ingresso, in mezzo c’è l’intero appartamento. Potrebbe raggiungermi un rumore così dimesso? No, impossibile, anche se l’aria della notte è più sottile e trasporta meglio ogni suono. E allora perché lo sento?

Bussano.

A volte mi ripeto che è tutto un sogno, una suggestione nata dalla stanchezza e da una fantasia che è sempre stata troppo vivace. A volte ci credo, ma è raro. Perché quel tamburellare di nocche torna di continuo, scandisce il ritmo della mia insonnia. Sono sveglio e ascolto le sue note. È reale, dunque? Non lo so, forse è meglio non scoprirlo mai.

Bussano.

Ho anche pensato di aprire, nei momenti di maggiore sconforto, quando il buio mi pesa addosso e si infiltra in ogni fessura. Aprire e rispondere al suo richiamo, affrontare ciò che bussa alla mia porta, il misterioso visitatore notturno. E poi, che sia quel che deve essere.

Non ne ho mai avuto il coraggio, è chiaro. Non sono mai neppure riuscito a uscire dalla mia stanza, avventurandomi nel corridoio. Mi sento un bambino, spaventato da fantasmi della propria mente, ma non riesco a muovermi. Perché cosa potrebbe mai venire di buono, da qualcuno che bussa alla tua porta, nel cuore della notte? Niente, è ovvio. Così preferisco tremare, da solo.

Mentre bussano.

A volte tento di ragionare. Potrebbe essere davvero un vicino, no? Un vicino che viene a cercarmi ogni notte? Improbabile, ma potrebbe? Poi penso al posto in cui vivo, ai miei vicini reali. Nessuno bossa mai, né suona il campanello. Nessuno cerca gli altri. Gli altri inquilini del palazzo non si interessano a me, come io non mi interesso a loro: è il nostro modo di stare al mondo. Ognuno per sé, in silenzio.

L’unica eccezione è colui che passa di qui ogni notte, il proprietario delle nocche, che tamburellano sul legno rinforzato. È paziente, è educato. Io non gli rispondo mai, eppure continua ad annunciarsi, con calma, per non disturbare. Forse un giorno sarò costretto ad aprire, ma ne ho il terrore.

Quando bussano.

Cosa vuole da me, cosa cerca col suo bussare continuo, nel buio? Sono molte le risposte possibili, le ipotesi che mi tormentano. Me ne tengo lontano, fuggo i pensieri nati nella notte, mi rintano nella mia stanza, al sicuro. Ma sono veramente al sicuro? E se un giorno decidesse di entrare, stanco di attendere là fuori? Temo anche questo ed è ciò che mi spinge a chiudere a chiave tutte le porte, non solo quella d’ingresso. Forse non servirebbe a niente, ma almeno mi illudo di essere protetto.

Poi bussano.

Colpi secchi, ma leggeri. Li sento, attraverso l’oscurità, attraverso pareti e barriere, che separano il mondo da me, me dal mondo. Una breve raffica, un intervallo, poi la seconda raffica. Non rispondo, non mi muovo dal letto. Premo la testa sul cuscino, mi giro verso il muro, stringo gli occhi. Il suono non torna più, per questa notte. Tornerà domani.

Bussano.

Nessun altro segno, solo il bussare. Mai un rumore di passi, un sospiro, un colpo di tosse, qualcuno che si schiarisce la gola. Forse dovrei avvicinarmi alla porta, per sentire qualcosa di più, ma ho paura. Potrebbe essere lui a sentire me, mentre cammino.

Bussano.

Ho provato anche a esplorare un poco, alla luce del sole. Ho cercato tracce, un dettaglio qualunque che mi potesse testimoniare il passaggio di una persona. Una impronta sul legno? Una macchia? Il segno che qualcuno bussa davvero? Sarebbe normale aspettarsi qualcosa, giusto? Se davvero mi cerca, se davvero vuole parlarmi, lo potrebbe anche scrivere, visto che io non rispondo mai.

Quando bussano.

Invece, nulla. I vicini mi hanno guardato male, come un pazzo. Scrutavo la porta, come un segugio, mi chinavo sul pianerottolo, passavo la mano sulle mattonelle polverose, e loro tiravano dritto, scuotendo la testa, ognuno diretto verso l’ufficio, il posto di lavoro, il supermercato. Ognuno diretto verso la propria vita, che può soltanto sfiorare la mia, a volte, come un puro incidente.

Un giorno avrei voluto fermarne uno, chiedergli se sentisse qualcosa, di notte, se ci fosse anche per lui uno sconosciuto che bussa alla porta, o se fosse la mia maledizione. Lo scherzo di un inquilino burlone, che si diverte a disturbare gli altri, mentre dormono? Possibile, no? Non ho detto nulla, non ho domandato nulla. L’ho guardato uscire dall’appartamento accanto al mio e allontanarsi lungo le scale, in silenzio. Forse ho perso un’occasione.

Bussano.

Nessuna traccia, alla luce, niente di quella presenza sconosciuta, che bussa alla mia porta, di notte. Lo immaginavo già, ma verificarlo è stato brutto. Da allora, io cerco di non guardare più quel legno levigato, la sagoma rettangolare disegnata nel muro. Solo maniglia e serratura, il resto potrebbe non esistere, per me: la chiudo quando esco, la riapro al ritorno, senza osservarla. Perché qualcuno deve pur averla toccata, nel buio.

Quando bussano.

Continuo a sentirlo, nel silenzio dell’appartamento. Non un mobile che scricchiola, non una voce in strada: c’è solo il vuoto, da cui emerge il tamburellare placido, tranquillo. Colpi secchi e delicati, che riconosco subito e subito tremo. Ma non so il perché, non lo capisco. Suggestione, forse, o forse troppa fantasia. Ma ho paura.

Se bussano.

Questo fino a oggi, per chissà quanti mesi. Non li ho contati, non ricordo quando abbia avuto inizio. Ammesso che ne abbia avuto realmente uno: a volte penso che continui da sempre, accompagnando tutto il corso della mia vita. Idea folle, lo so benissimo, eppure a volte non riesco a liberarmene, mi si avvolge attorno, con una forza che non mi appartiene. Sono le ore in cui il sonno è più lontano e il terrore più vicino. Come un bambino, tremo sotto le lenzuola e attendo che bussino di nuovo alla porta: cosa succederebbe, se smettessero? Se se ne andassero?

Ma bussano.

Oggi tutto questo finirà. Ho preso una decisione ed è un grande cambiamento, per uno come me. È successo al risveglio, dopo una notte agitata e tremenda, ben più del solito. Non so se sia qualcosa di cui andare fieri, questa decisione. Perché non l’ho presa spinto dal coraggio, dal ragionamento, o da una forte volontà, il desiderio di liberarmi. Niente di tutto questo.

A decidere per me è stato un sogno, il sogno che ho fatto stanotte, nelle ore prima dell’alba.

Follia? Sì, è probabile, lo riconosco. Nessuna persona adulta e sensata si lascerebbe mai guidare da un sogno, per quanto vivido e realistico possa apparire, per quanto possa sembrare persuasivo. Io sì, lo sto per fare. Ho sognato qualcosa che mi ha toccato in profondità e ho scelto di credervi, assurdo o meno. E poi, accada quel che deve accadere. Giusto?

È stata la mia infanzia ad apparirmi, un brandello di passato che non ricordavo più. Bussavano alla porta ed erano amici, i miei compagni di scuola, venuti a trovarmi per un motivo rimasto nei sogni. Una immagine indotta, forse, da quel continuo bussare notturno. Un semplice riflesso della realtà. Non lo so, non mi importa. È stato bello.

Aspettativa e paura: questo accompagna il bussare, nel buio della casa, questo accade nella realtà. Nel sogno, però, ero felice. Aprivo la porta ed ero felice. Per questo credo che non ci sia mai stato un ricordo vero, alla base del sogno. Non ho mai vissuto momenti simili, nella mia realtà. Non certo nella mia infanzia.

C’è stata anche un’altra scena, poco prima che mi svegliassi. Ero fra le colline, nei luoghi dove sono nato e cresciuto. Camminavo lungo il crinale, su una strada sconnessa e segnata dai trattori, e tutto era proprio come allora, prima che la vita cominciasse. Il vento, il profumo dei campi, i riflessi delle auto di passaggio nella pianura lontana, laggiù. Mi fermavo davanti a un sentiero, che scendeva in un avvallamento, nella penombra tra due colli. Arbusti incolti, erba alta, fruscii. Lo ricordavo. Era esistito davvero, nel passato. Ma non avevo mai trovato il coraggio di percorrerlo, mi spaventava.

Non l’ho fatto neppure in sogno, perché lì mi sono svegliato.

Ecco cosa mi ha fatto decidere. Non ha niente a che fare col mio problema, lo so, ma non importa. È un difetto che mi trascino da sempre: non riesco a muovermi, se non ho uno stimolo. Stavolta è stato il sogno, perché è il consiglio più sensato che mi sia giunto. È anche un consiglio saggio? Non lo so, ma non importa più.

Aprirò la porta, risponderò al visitatore che bussa ogni notte. Lo affronterò, qualunque cosa abbia per me. Perché non ha senso rimanere qui nella paura, continuando a chiedermi chi sia, o cosa sia quello sconosciuto. È meglio scoprirlo, sapere chi sia venuto a cercarmi.

È buio, ormai, e sono disteso sul letto. Aspetterò ancora un poco, poi mi sistemerò all’ingresso, con pazienza. E quando sentirò bussare, stavolta risponderò, accoglierò quell’ospite nella mia casa. È un prodotto della fantasia? O una persona in carne e ossa? Uno scherzo di pessimo gusto? O una reale minaccia, che avrei dovuto fuggire? È una sorpresa positiva? O negativa? È realtà? O follia?

Basta domande, basta tremare nella mia stanza. Se qualcuno bussa alla porta, io aprirò. Almeno saprò, anche se sapere non è sempre un bene.

Ma adesso basta pensare.

Sono qui, seduto al buio, nell’ingresso. Accanto a me la sagoma di una scarpiera, chiazza nera nel nero dell’appartamento. Non ho acceso la luce, perché rovinerebbe tutto. Meglio che ogni cosa sia come sempre, meglio che nessun particolare sia cambiato. E poi, non voglio fargli sapere che lo sto aspettando. Potrebbe non fermarsi, stanotte.

Ho paura, ma anche una strana eccitazione, quella che nasce dalle cose proibite e misteriose. È tutto come un sogno, l’atmosfera nella casa è irreale, impalpabile. È aria prima di un temporale, con quel profumo verde che colma ogni angolo di mondo. Questa è la mia attesa.

Finirà? Posso solo aspettare e sperare, anche se le mani mi tremano. Mi allungo verso la maniglia, il suo contorno è netto nel buio. Non la tocco, non ancora. È presto.

Abbaia un cane, da qualche parte là fuori. Un ululato improvviso, secco. Si è già spento, il silenzio è tornato a coprire le strade e gli edifici. Sento il mio respiro, il pulsare del sangue nelle orecchie.

Aspetto, a disagio. Che ore saranno? Ma non ha senso chiederselo, perché non c’è un orario preciso, per il suo arrivo. Non c’è mai stato. Basta avere pazienza e confidare che nulla sia cambiato, questa notte. Confidare che tutto si svolgerà come al solito. Ma oggi gli aprirò, risponderò al suo appello.

Mi alzo, per sgranchire le gambe. La porta è dietro di me, ora, mentre fisso l’oscurità che riempie l’appartamento. E a un tratto lo so, lo sento: prima nelle ossa, poi nella mente.

L’attesa è finita.

Bussano.

di Adriano Marchetti