Cancellato
Alessio Miscio smise di esistere un sabato mattina di settembre. Lo scoprì quando tentò di entrare al supermercato e la porta automatica non si aprì al suo gesto. Lo faceva sempre. Tu alzavi la mano, il lettore o quello che era scansionava il tuo microchip e la porta si apriva, perché avevi il permesso di fare la spesa. Era una cosa seria rifornirsi. Non tutti ne avevano il diritto. Lo dovevi meritare.
Alessio Miscio lo aveva meritato. Era convinto di averlo meritato, fino a quel mattino. Ma quando il supermercato non lo lasciò entrare, un primo terribile dubbio sfiorò la sua coscienza.
Era troppo brutto per pensarlo davvero, così non lo fece. Non subito. Indietreggiò di qualche passo e rimase ad aspettare. Voleva vedere cosa sarebbe successo. Magari era solo un guasto, no? Certo un fastidio, ma niente di allarmante. Alessio non si voleva proprio dover allarmare.
Ma una signora arrivò, alzò la mano e la porta si aprì per lei. Arrivò un tizio che Alessio conosceva di vista, il dottor Piattoli, che viveva nella strada accanto. Anche lui alzò la mano e anche lui entrò. I dubbi si facevano più pressanti ai margini della sua coscienza, come un bisogno che non puoi tenere troppo a lungo. Ma non era né il luogo né il tempo per certi bisogno, figurati o meno.
Quando anche una coppia di uomini alzò le mani ed entrò senza problemi, Alessio Mischio dovette prendere in seria considerazione l’ipotesi di allarmarsi. Sarebbe stato terribile. Tuttavia...
Un ultimo tentativo. Si avviò verso la porta del supermercato, alzò la mano e fu costretto a fermarsi per non andare a sbattere. Ingresso vietato. A lui. A lui! Perché?
Alessio indietreggiò. Già, perché non si apriva? Perché non era più autorizzato, d’accordo, era così che funzionava e lo sapeva benissimo, aveva anche contribuito a rilanciare diversi post dei suoi capi su questo argomento e gli erano riusciti abbastanza bene, ma... perché proprio lui? Cosa aveva fatto per meritarselo? O cosa non aveva fatto. Era sempre difficile sapere di preciso cosa fosse successo di male, quando ti disattivavano un diritto. Qualcosa era successo, ovvio, altrimenti non ti avrebbero disattivato il diritto, ma cosa?
Alessio Miscio scosse la testa e si allontanò mogio. Era brutta. Era un vero problema. Poteva essere temporaneo, quasi sicuramente lo era, ma temporaneo fino a quando? Non gli era rimasto molto nel frigo e, beh, ok, non era stato previdente, ma non sei mai previdente, non ne hai bisogno. Quando ti manca qualcosa, esci e lo compri. È il bello della società. Essere previdenti è qualcosa riservato agli altri, a quelli che non hanno il tuo status. Loro si preoccupano, tu no. Tu sei oltre.
Non era forse una bella filosofia, in termini assoluti, ma era la filosofia che aveva raccolto nel corso del suo lavoro e finora aveva funzionato bene. Lo aveva anche aiutato a lavorare meglio, a crederci di più ed essere più convincente. Era indispensabile per un influenced come lui.
Non era forse un bel lavoro, in termini assoluti, ma era un buon lavoro. Ci sono gli influencer, che creano contenuti e attirano l’attenzione, vendendo a rate la loro vita, e poi ci sono gli influenced, un ristretto gruppo di quasi eletti che facilita il lavoro degli eletti, rilanciando i loro contenuti arricchiti di commenti, citazioni e link appropriati. Una specie di claque digitale, ma Alessio si impegnava e il suo tocco si notava sempre. Gli influencer lo apprezzavano. Ok, solo alcuni e ok, non proprio quelli al vertice, ma il lavoro non gli mancava e lui lo svolgeva con coscienza e dedizione.
Nei limiti del possibile. E comunque non c’era nulla di male, chiaro? Il mondo funzionava così.
Perché non poteva entrare al supermercato? Era un sopruso, un errore e lui se ne sarebbe lamentato con chi di dovere. Non lo potevano trattare così, come una persona qualunque. Era una indecenza e lui si sarebbe fatto sentire. E qualcuno magari lo avrebbe anche ascoltato. Forse.
Si avviò a passo lento e pancia lunga verso casa, con un brontolio vago che gli ricordava di non aver fatto colazione. Non gli era sembrato così importante fare colazione, quando si era alzato e il frigo gli aveva mostrato uno scenario da deserto del Gobi. Aveva tutto il tempo che voleva, in fondo. Una spedizione al supermercato e tutto si sarebbe risolto da solo. Già progettava di afflosciarsi davanti al computer con un vaso di miele e qualche fetta di pane su cui spalmarlo, mentre controllava le ultime novità e il lavoro che lo attendeva per quel giorno.
Ottimo progetto, già. Davvero fantastico. Peccato solo che adesso non si sarebbe mai realizzato.
Arrivò al suo condominio, alzò la mano per identificarsi e il portone non si aprì. Ah, ecco un fattore che aveva dimenticato di considerare. Non gli avevano tolto soltanto il permesso di fare la spesa; gli avevano tolto anche quello di rientrare a casa. Ma perché? Non aveva avuto alcun problema a uscire e, insomma, aveva solo camminato un poco, no? Non poteva aver commesso qualche crimine, dopo essere uscito. Non ne aveva avuto né il tempo, né i mezzi. Allora perché adesso non funzionava più? Cosa era successo? Cosa gli avevano fatto?
Alessio Miscio fissò il portone. Non era un bel portone, a dire il vero, ma facevano tutti schifo, chi più e chi meno, e nessuno vi badava. Non erano importanti. Servivano solo a definire un confine, un punto di contatto tra casa tua e il resto del mondo. Ti identificavi e passavi, e tutti i rompiscatole se ne stavano fuori, come era giusto e doveroso.
Adesso era lui a stare fuori, come non era né giusto né doveroso.
Cosa poteva fare? Chiedere a un vicino di aprirgli il portone? Anche per usare il citofono ti dovevi identificare, semplice misura di sicurezza per tenere lontani i rompiscatole. Dovevi identificarti più o meno per fare tutto. Era una questione di sicurezza, ottimizzazione delle risorse, lotta agli sprechi e tante altre cose che gli erano sempre sembrate belle, finché lui era dall’altra parte. La parte dentro.
Adesso era fuori. Cosa fare?
Contattare il servizio clienti, ovvio. Perché non ci aveva pensato prima? Perché era affamato e tutto quel fastidio gli aveva fatto dimenticare le cose più ovvie. C’era stato un errore, forse un problema, qualcosa di sbagliato, ed era tempo che qualcuno rimediasse. O almeno spiegasse. E rimediasse.
Alessio tolse di tasca lo smartphone, lo accese con un tocco e non funzionò. Cosa aveva adesso? Lo smartphone rimaneva nero, morto, inerte, un parallelepipedo sottile fatto di plastica e altra robaccia di poco conto ma alto prezzo. Tutta la sua vita, da un certo punto di vista, e adesso non si attivava.
Possibile che gli avessero tolto anche quello? Era un pensiero che Alessio Miscio non avrebbe mai e poi mai voluto pensare, ma adesso era costretto a contemplarlo. Era orribile. Era la fine di tutto.
Guardò lo smartphone, inerte. Guardò il portone, chiuso. Guardò la strada attorno, poche persone di fretta che sgattaiolavano qui e là come scarafaggi colorati. Lo ignoravano. Giustamente: si potevano permettere quel lusso, loro. Era un problema altrui. Peccato che l’altrui fosse lui, stavolta.
Con un’ultima occhiata al portone smart, Alessio si girò e se ne andò, passo sempre più lento e non una idea di cosa fare. Era un problema a cui la vita non lo aveva preparato. Aveva sentito parlare di persone a cui era stata tolta l’identità. Succedeva. Se facevi qualcosa di male, di sbagliato, o se te lo meritavi in un qualche modo, il governo ti bloccava l’identità. Niente di male: un modo indolore per mantenere l’ordine e la civiltà. Aveva lavorato più di una volta su post simili, quando era necessario accentuare l’importanza di rispettare le regole. Civiltà e società vengono prima di tutto, scriveva lui, e giù con link e citazioni colte per sottolineare il concetto. Ordine buono; disordine cattivo.
Molto ironico, già. Peccato che lui non fosse dello stato d’animo giusto per apprezzarlo.
Alessio Miscio camminava alla cieca, consapevole degli sguardi che lo seguivano. Lampioni smart, semafori smart, citofoni smart, vetrine smart, marciapiedi smart, che più di una volta aveva definito smartciapiedi, per credersi spiritoso. Non sembrava più così buffo, adesso. Perché lo fissavano.
Paranoia, si disse, ma era un pensiero senza forza. Perché lo fissavano sempre, pronti a intervenire e facilitargli la vita: una luce quando serve, il verde quando serve, questo e quello e così via. Normale e logico che lo fissassero anche adesso. Erano progettati così.
Ma come reagivano? Perché dovevano sapere che lui non aveva più una identità. Era una figura che passava, ma non aveva un nome o una vera identità, una che fosse ufficialmente riconosciuta. Senza la sua attivazione era soltanto un vagabondo, privo di diritti e di tutto il resto. Uno spettro di carne.
Raggiunse un parco, senza sapere di preciso come o perché. C’erano alberi, più o meno, c’erano vie ricoperte di ghiaia, c’erano panchine. Quindi era un parco. C’era anche una specie di busto proprio al suo centro, forse il tizio a cui era intitolato. E cespugli. E aiuole fiorite. Un parco, già. E c’era una piccola fauna umana che si aggirava qui e là, alcuni con cagnetti tascabili e altri da soli. Non erano molti, non erano noti. Alessio preferiva così. Sarebbe stato terribile incontrare qualcuno.
Sedette sulla prima panchina che gli capitò a portata di natiche. Con la testa tra le mani e lo sguardo rivolto al nulla, Alessio Miscio era un ritratto della miseria in abiti griffati ma non troppo costosi. Il mondo gli era crollato addosso e lui non aveva fatto in tempo a spostarsi. E adesso?
Un ronzio e un bip lo riportarono al presente. Un piccolo drone di sorveglianza era sospeso in aria a livello del suo naso, come una specie di buffo elicottero giocattolo. Non che fosse capace di trovare qualcosa di buffo in ciò che gli accadeva attorno, il nostro Alessio. Era troppo miserabile.
«Si identifichi, prego,» disse il drone, con voce artificiale e vagamente femminile.
Cosa voleva adesso? Poi Alessio si ricordò. La panchina, già. Per combattere vagabondaggio e altre forme di incuria urbana, era necessario identificarsi. Solo chi era autorizzato si poteva sedere. E lui lo era? Hah, molto divertente. Non era più autorizzato neanche a entrare in casa. Pure, alzò la mano e tentò lo stesso, sperando senza speranza.
«Autorizzazione assente. Liberi immediatamente la panchina.»
Alessio sospirò e si alzò. Neppure sedersi. Poteva sentire lo sguardo del drone fisso sulla schiena, al centro delle scapole, mentre si allontanava dal parco. Solo immaginazione, quasi di sicuro, ma quel pensiero non lo faceva sentire meglio. Niente lo avrebbe mai fatto sentire meglio. O così pensava.
Camminò. Aveva fame, aveva sete, aveva molte altre cose negative ed era stanco. Erano anni ormai che non gli capitava di dover camminare tanto. Era praticamente contronatura. Le persone normali e civili non camminano tanto. Stanno sedute, si fanno trasportare. Camminare è da cavernicolo. E da persona senza identità, che per certi versi è la stessa cosa. Triste.
Aveva provato a prendere un autobus, e non era autorizzato. Aveva provato a prendere qualcosa da un distributore automatico, una schifezza qualunque da mangiare, e non era autorizzato. Neppure le fontanelle lo lasciavano bere, perché l’acqua era un bene prezioso e il suo accesso era riservato a chi aveva l’autorizzazione pubblica e dunque meritava di bere. Non lui. Non più lui.
Si era seduto altre tre volte dove capitava, ma un drone di sorveglianza era passato quasi subito per farlo sloggiare. Alessio Miscio non aveva mai immaginato che la vita potesse essere così dura. Non per lui, non per una persona integrata in società, con un onesto lavoro e, beh, cose così. Una persona civile, insomma. Perbene. Produttiva. Era terribile.
Cosa poteva fare adesso? Cosa gli restava da fare? Non lo sapeva. Attraversando il ponte, si fermò a guardare di sotto, perché il basso era la direzione naturale verso cui il suo umore lo attirava. C’era il fiume che scorreva, per valori poco trasparenti di scorrere. Non era proprio sporco, ma le sue acque avevano una strana colorazione verdognola. Green river, pensò Alessio, ma quello sembrava più un momento da bad moon rising, se mai nella sua vita ce n’era stato uno. Non certo un fortunate son.
«Buttati e falla finita,» gli sussurrò qualcosa dentro la testa.
Non era una ipotesi molto attraente, ma la vita in un mondo senza identità lo attraeva ancora meno. Come puoi vivere in un mondo dove non ti è permesso di bere, mangiare o sederti? Non puoi. E se non puoi vivere, beh, le alternative sono poche.
Un ronzio e un bip. Anche lì?
Alessio Miscio alzò lo sguardo e sì, anche lì. Un piccolo drone di sorveglianza lo fissava. Non che il drone avesse occhi veri, ma lo fissava lo stesso. Potevi sentire che ti stava fissando.
«Non è autorizzato a sostare in questo punto per oltre un minuto. Intralcia il traffico.»
Alessio si guardò attorno. Sul ponte non c’erano altri pedoni. Veicoli sì, ma erano in strada. Tutto il marciapiede era vuoto. «Non vedo traffico,» disse.
«Non è autorizzato a sostare in questo punto per oltre un minuto. Intralcia il traffico.»
Alessio sospirò. «Sono autorizzato a buttarmi di sotto?»
Il drone rimase in silenzio per un poco, come a elaborare la domanda. «Si identifichi, prego».
Alessio alzò la mano.
«Autorizzazione assente. È proibito buttarsi di sotto.»
Neanche morire lo lasciavano! Che razza di mondo era? Un mondo molto triste, ovvio. Ma Alessio Miscio si rimise in cammino, liberando il traffico e liberandosi del drone.
La notte lo trovò in periferia, troppo affamato e troppo stanco per pensare a qualcosa. Era il giorno più brutto della sua esistenza e ancora non voleva finire, perché non sapeva dove infilarsi a dormire. Non una panchina, non un posto visibile, e motel o affini erano fuori questione: come puoi superare un check-in se non hai una identità? Non puoi. Quindi sarebbe stato costretto a dormire in strada. Il problema restava trovare la strada giusta, cioè una dove non ci fossero droni a sorvegliarlo.
Ma esistevano luoghi simili? Alessio non lo sapeva. Non se n’era mai dovuto preoccupare prima, la semplice domanda non aveva mai neppure sfiorato la sua coscienza. Adesso invece era lì, davanti a lui e grossa come una casa, a danzare scatenata. Il famigerato elefante, solo che non era tranquillo in una stanza: era in mezzo alla strada. E aveva sonno. E barriva affamato.
Bar: ecco un’altra parola cui non pensare. Faceva venire sete.
Droni avevano continuato ad attraversare il cielo della città per tutta la giornata. Sorvegliavano e si assicuravano che tutto procedesse bene. Fino al giorno prima Alessio ne era stato felice, le volte che ci aveva pensato. Lo avevano fatto sentire sicuro. Erano lì per lui, per il suo bene.
Adesso lo facevano sentire ad Alcatraz.
Non poteva lasciare la città, questo lo sapeva. Dovevi identificarti per viaggiare, anche a piedi, e lui non aveva identità. Non lo avrebbero mai lasciato superare i confini municipali. Neppure superare i limiti della città, in effetti. Non che lui avrebbe saputo cosa fare fuori città, ma almeno sarebbe stato più facile sedersi, coricarsi, cose così. Usare un bagno, per esempio. E per modo di dire, visto che di bagni non ce n’erano fuori città, ma ci siamo capiti. I dettagli non servono. Neanche i bagni servono fuori città. Basta la natura. Là fuori i servizi igienici non esistono e non ne hai bisogno.
In città sì, ma ti dovevi identificare per entrare. Alessio Miscio non si poteva identificare. A fatica e con enorme imbarazzo era riuscito a fare una pisciata in un parco, rannicchiato tra due cespugli con solo qualche spruzzo sulle scarpe e nelle mutande, perché era stato costretto a rialzarsi e fuggire con un certo anticipo. Un drone era avvicinato e non gli aveva lasciato tempo di finire o scrollare, con le conseguenze che si possono immaginare.
Problemi più consistenti e solidi, beh, erano fuori questione. In città non poteva. Non con schiere di droni a setacciarla a palmo a palmo. Sarebbe riuscito a resistere abbastanza a lungo? Non lo sapeva e il pensiero di un fallimento lo terrorizzava. C’erano limiti a tutto, in fondo.
La sua resistenza fisica li aveva quasi raggiunti. Aveva fame, sete e sonno. Era soprattutto il sonno a pesargli, adesso. Barcollava. Cominciava a sperimentare i primi fenomeni di iperrealtà. Non che lui avesse mai creduto all’iperrealtà, non davvero, ma doveva pure dare un nome alle allucinazioni che vedeva, vaghe figure che erano persone o cartelli a seconda di come li guardavi, cumuli di rifiuti e schifezze che si muovevano e diventavano animali, o automobili, o una volta anche un compagno di classe delle medie. Iperrealtà, già. I nomi rendono tutto più normale e accettabile.
Doveva dormire.
Sedette ai piedi di un lampione vandalizzato. La città era un labirinto di ombre e sagome, un vortice di movimento scandito dalle luci artificiali e dai suoi occhi appannati. Nessuna persona in giro, solo pochi animali, qualche ratto e qualche gatto, e ogni tanto il ronzio di un’auto in viaggio verso luoghi migliori. Ce n’erano tanti. Il mondo è pieno di luoghi migliori, quando sei seduto per terra dove tutti i cani pisciano. Poteva pisciare anche lui, forse. Solo che adesso non ne aveva voglia.
Sonno.
Forse si assopì per un poco, forse passò soltanto da un sogno all’altro, senza lasciare la realtà o quel che ne faceva le veci al momento. Quando Alessio riaprì gli occhi, la prima cosa che sentì fu l’odore e non fu piacevole. Aveva qualcosa di vegetale, ma solo se lo hai lasciato marcire sotto il sole estivo per almeno un mese. Tracce animalesche non mancavano, ma erano avvolte in una robusta corazza di pattume. Di sporco. Di anni senza vedere una saponetta.
Che tutto questo avesse assunto una forma vagamente umanoide era un fattore secondario e Alessio non se ne preoccupò più di tanto. Iperrealtà, si diceva. Tutto è possibile.
«Lì ti prendono. Non va bene,» gracchio il fetore umanoide.
Alessio sorrise e annuì.
«Lì ti prendono,» gracchiò di nuovo. «Vieni, che ti faccio vedere.»
Alessio sbatté le palpebre. Forse non era iperrealtà. Davanti a lui cera davvero qualcosa e pareva un essere umano, se lo guardavi dalla giusta angolazione. «Sono stanco,» borbottò in risposta a nulla.
La figura umanoide annuiva. «Vieni che ti faccio vedere. Prima che arrivano.»
Prima che arrivi chi? Ma era un ragionamento troppo difficile al momento e Alessio Miscio non ne aveva la forza, né fisica né mentale. E comunque niente era reale, non reale per davvero. Influenced a dormire per strada, sotto un lampione? Impossibile, ovvio. Quindi non era reale. E se non era reale poteva fare quello che voleva, no? Anche se era folle.
Annuì. C’era qualcosa che non funzionava nel ragionamento, ma non aveva voglia di pensarci. Così si alzò e seguì l’umanoide che sembrava fargli cenno di seguirlo, usando una specie di propaggine o magari un braccio, se aveva braccia e mani. Improbabile, ma non impossibile, giusto? Era un sogno e tutto è possibile nei sogni. Grossomodo. O qualcosa del genere.
Camminarono per un poco e raggiunsero una specie di spiazzo molto fetido e molto buio, dove solo le più disperate tracce di luce artificiale sembravano capaci di insinuarsi. C’erano alcune sagome in terra che forse erano massi o forse cumuli di immondizia, a giudicare dall’odore. L’umanoide indicò un punto e si andò a rannicchiare in un altro. Alessio sorrise e annuì, sempre più confuso.
E adesso? Ma era stanco e non valeva la pena di pensarci.
Andò a rannicchiarsi nel punto che l’umanoide gli aveva indicato. Era duro, freddo e puzzava, ma a tratti aveva anche una sua forma di comodità. Una comodità scomoda, ma ce l’aveva. Ti attirava. Ti cullava. Poi la stanchezza prevalse e Alessio abbandonò il mondo dei consci.
Quando riaprì gli occhi fu come la prima volta. Qualcuno era davanti a lui e lo fissava. Una sagoma decisamente umana, stavolta, con quel genere di espressione che Alessio, da adolescente, descriveva come “da catechista”. Quel tipo di faccia che puoi immaginare dietro un banco, mentre spiega a una folla di bambini irrequieti l’importanza dei dieci comandamenti, il significato di una parabola e cose così. Una faccia da chiesa, insomma. Da cristoso. Ma in senso buono, grossomodo.
«Vedo che ti sei svegliato,» gli disse la faccia da chiesa. Parlava con una voce gentile, tono basso e, sì, da chiesa pure quello. Ma non era vestito da chiesa. Era vestito da persona normale, non proprio alla moda, non all’ultima moda, ma accettabile. Un poco sciupato, forse, come abiti che erano stati buoni un paio di anni fa, ma adesso non lo erano più abbastanza per indossarli tra gente perbene.
Alessio Miscio poteva anche essere sveglio, tecnicamente, ma aveva fame, sete, voglia di andare al gabinetto e gli faceva male più o meno tutto, così rispose con un grugnito non impegnativo.
«Prima notte qui fuori, vero? Non preoccuparti, ti abituerai,» gli disse il tizio.
Alessio si preoccupava parecchio, perché non aveva alcuna intenzione di abituarsi. Era un errore, un problema che si sarebbe risolto da solo al più presto. Doveva essere un errore. Era inconcepibile che fosse stato un gesto deliberato. Quindi avrebbe presto riavuto la sua casa, il suo lavoro, i suoi soldi e soprattutto la sua identità, da cui tutto il resto dipendeva. Perché il mondo funzionava così. Doveva funzionare così. Un mondo che non funzionasse così era un mondo in cui lui non voleva vivere.
«Prima notte,» bofonchiò in risposta, perché era chiaro che il tizio si aspettava una risposta.
«Vi ho portato qualcosa da mangiare e da bere. So che è difficile per voi vivere qui.»
Mangiare e bere! Il tizio gli era già diventato più simpatico. Se gli avesse anche portato un bagno, di quelli chimici, che mettono vicino ai cantieri, quel risveglio sarebbe stato, ok, non perfetto, proprio per niente perfetto, ma passabile sì, almeno in quel particolare momento storico.
Alessio accettò due brioches e un bicchiere di qualcosa che fumava e aveva un odore accettabile. Tè al limone, come gli attestarono le papille gustative: non il massimo, ma zuccherato. Le brioches non erano proprio la sua idea di colazione nutriente, non dopo un giorno intero di digiuno, ma meglio di niente. Mangiò e bevve alla massima velocità che la decenza gli consentiva.
Il tizio intanto parlava e spiegava. Si chiamava Emanuele Strolga e nel tempo libero si dedicava ad attività di volontariato presso un qualche ente che Alessio non aveva mai sentito nominare, ma che al momento non era rilevante. Aiutava i senzatetto, diceva, perché capiva quanto fosse difficile per una persona adattarsi alla vita in una società che li aveva esclusi e rigettati. Erano colpevoli, ovvio, e forse si erano meritati quella punizione, ma non era un buon motivo per rinunciare all’umanità. E altre cose che suonavano sempre più come una predica.
«Io non sono colpevole,» disse Alessio, leccandosi lo zucchero a velo dai polpastrelli.
Emanuele annuiva. «Naturalmente, naturalmente. Capisco quanto sia difficile riconoscere i propri errori e guardare in faccia la realtà: per questo non insisto mai coi nuovi arrivati. La vita è già dura a sufficienza e non avete bisogno di prediche e rimproveri.»
«No, guardi, io non sono colpevole sul serio. Mi hanno solo cancellato l’identità. È successo così, di punto in bianco. Non una spiegazione. Ho un ruolo in società, sa?»
«Avevi un ruolo in società.»
«Ce l’ho ancora. Sono solo stato, ecco, messo temporaneamente da parte. Un errore, niente di più, e qualcuno lo correggerà di sicuro. Magari ci stanno già lavorando.»
Emanuele sorrideva e annuiva. «Lo dicono in molti e chissà, forse avete anche ragione. È difficile, a volte quasi impossibile capire quando il nostro comportamento ci ha portati oltre la soglia. Viviamo la nostra vita, agiamo come sempre, ma a un certo punto siamo passati oltre i limiti, le nostre colpe, i nostri piccoli errori si sono accumulati fino a costringere la società a rigettarci. È terribile, lo so, ma tutto funziona, alla fine. È per il bene della società stessa, sai.»
Alessio avrebbe avuto parecchio da dire sul bene della società, ma si astenne. Non aveva senso una discussione del genere. Non aveva senso litigare con qualcuno che ci credeva davvero. Erano quasi una razza a parte e non sapevano comunicare con le persone normali. Lui ne aveva già conosciuti e il risultato era sempre lo stesso. Meglio dar loro corda e sperare che la usino per impiccarsi. E poi il tizio gli aveva portato qualcosa da mangiare e da bere. Non era stato del tutto inutile. E forse poteva ancora ricavarne qualcosa, a pensarci bene. Meglio tenerselo buono.
«Quindi c’era altra... gente, qui con me?» gli chiese, guardandosi un poco attorno. Se davvero c’era stato qualcun altro lì, adesso non ne restava alcun segno. O meglio, qualche segno restava, ma era il genere di sporcizia generica e generale che trovi un po’ ovunque in una città, specie in periferia e in un luogo frequentato dalle persone sbagliate.
«Certo che c’era altra gente! Mirko mi ha detto che ti ha accompagnato qui lui, ieri notte. Non te lo ricordi più? O eri davvero così confuso?»
Mirko? Alessio era piuttosto confuso, lo doveva riconoscere, ma non ricordava di avere incontrato qualcuno la notte precedente. Certo, c’era stata quella specie di illusione, una sagoma fetida davanti a lui, che gli faceva un cenno e si muoveva, ma...
Mise in pausa i ricordi. Quella era una persona? Una persona vera, con un nome? Ma puzzava come una montagna di immondizia, non si capiva neppure che forma avesse! «Qualcuno potrebbe avermi accompagnato qui,» ammise. «Non si è presentato, però.»
Emanuele scrollò le spalle. «Nessuno si presenta. Non hanno nomi, no? Non hanno identità. Non so se si chiami davvero Mirko, ma è un soprannome che gli ho dato io e lui risponde. È un modo come un altro per sentirsi ancora umani.»
«Ma io ho un nome!»
«Tu avevi un nome. Adesso il governo ha cancellato la tua identità. Sei solo qualcosa. Ma ti capisco, non è bello essere solo qualcosa. Se hai un soprannome che vuoi usare, ti chiamerò così.»
«Alessio. Il mio nome è Alessio e nessuno me lo può togliere!»
Emanuele sorrise e annuì. «Ti chiamerò Alessio, se vuoi, ma non è il tuo nome. Non più. Se perdi la tua identità, non hai più diritto a un nome. È brutto, lo so, ma è così. È la legge.»
Era peggio che brutto. Era insensato. Ma davvero funzionava così? Alessio Miscio non lo sapeva. Il problema di perdere l’identità non lo aveva mai sfiorato. Sapeva che poteva succedere, d’accordo, e forse gli era anche capitato di rilanciare qualche post a riguardo, ma era una cosa che capitava agli altri, non a lui. Problemi di quel genere non potevano riguardare quelli come lui. Non era giusto. Il mondo non funzionava così. Non un mondo giusto.
Solo che adesso stava succedendo. Forse il mondo funzionava davvero così. Era orribile. Si prese la testa tra le mani. «È tutto così confuso...»
Emanuele sorrise. «Lo è per tutti. Cercherò di aiutarti.»
E lo fece, almeno a parole. Gli diede qualche consiglio su come vivere in quel nuovo mondo fatto di scarti umani, ai margini della società e ancora un poco più in là. Erano piccole sacche dimenticate e ignorate, dove nessuna persona normale si recava mai, se lo poteva evitare. Neppure le vedeva, se lo poteva evitare, e lo poteva evitare, normalmente. Chi mai andava apposta a cercare lo schifo? Solo i pazzi. La vita era molto più bella, se cancellavi dalla tua mente gli angoli più luridi.
Quando l’angolo più lurido diventavi tu, però, potevi trovare certi anfratti in cui mangiare qualcosa, bere qualcosa, usare gabinetti e, beh, lo stretto necessario. Non vivevi bene, ma sopravvivevi.
Per un poco. Una settimana circa, secondo Emanuele.
«Poi spariscono. Non so perché, ma succede così. Mi dedico già da un po’ a questa attività e finisce sempre così. Alcuni durano di più, altri di meno, ma in media il tempo è una settimana. Poi i nostri, beh, diciamo clienti, svaniscono. Non so dove vadano. So solo che non li vediamo più. Ne arrivano altri, ma è un ricambio continuo. Non durate molto. Mi spiace.»
«Forse sono reintegrati nella società, no? L’errore è risolto e tornano indietro, no?»
Emanuele si strinse nelle spalle. «Forse, sì. Forse è così.»
Non ci credeva. Ce lo aveva scritto in faccia e Alessio lo vedeva benissimo. La cosa peggiore però era che neppure lui ci credeva. Perché sembrava logico. Doveva essere logico. Dopo quel che gli era capitato nelle ultime ventiquattro ore, però, era difficile credere ancora alla logica. Quando il mondo ti si apre sotto i piedi e la tua realtà si dissolve in un attimo, credere e sperare diventano parole prive di senso. Prive di realtà. Prive di tutto.
Ma no. Doveva esserci una spiegazione e comunque tutto sarebbe tornato a posto. Doveva.
Così Alessio Miscio cominciò la sua nuova vita temporanea da persona priva di identità. Era la vita di uno scarafaggio che fuggiva la luce e si rintanava nel buio, lontano dalla vista, ma per un poco si sforzò di viverla come poteva. Ma era brutto, brutto davvero, e il pensiero del limite, della settimana come data di scadenza, lo seguiva ovunque, più efficiente di qualunque drone di sorveglianza.
Cosa sarebbe successo, dopo? Sarebbe tornato tutto a posto? O sarebbe finito in un altro modo? Un modo che lui non voleva proprio pensare, ma che non poteva smettere di pensare, anche perché non aveva molto altro con cui riempire le lunghe ore del giorno. Era da solo e lo doveva restare.
Resse due giorni, poi decise che non poteva andare avanti così. Non lì, non in città. Era troppo.
«Non puoi uscire, non senza identità,» gli disse Emanuele Strolga. «Ci pensano tutti, immagino, ma alla fine non ce la fa nessuno.»
Alessio Miscio stava mangiando una specie di omogeneizzato dal colore innaturale e dal sapore più o meno nullo. Era il solo genere di cibo che il gruppo di Emanuele poteva passare ai senza identità. Quelle brioches della prima mattina erano state una eccezione, un modo per celebrare il suo nuovo status di senza status. Per il resto, sbobba misteriosa. Ma era cibo, più o meno, e meglio di niente.
«Magari è proprio così che spariscono,» disse. «Dopo la settimana, no? Magari escono.»
Emanuele lo guardò con un sorriso di compassione. «Magari, sì. Magari escono. Se ne vanno.»
Messa così, suonava molto male. «Intendo, trovano un modo di fuggire dalla città,» disse Alessio.
«Ho capito cosa intendi e sì, non lo posso escludere per certo, ma che modo? Devi identificarti per superare i limiti comunali. Voi non vi potete identificare. Non potete uscire. Non per vostra scelta.»
Anche questa suonava molto male. «Davvero non conosci alcun modo per uscire di nascosto?»
«Non ne conosco io. Non ho mai avuto bisogno di conoscerne. Anche tu vivi da anni in questa città, no? Me lo hai raccontato tu. Non hai mai pensato a come uscire di nascosto, senza identificarti?»
Alessio scosse la testa. No, non ci aveva mai pensato. Non aveva mai avuto bisogno di pensarci. Un tempo entravi e uscivi normalmente, adesso dovevi identificarti, ma per lui era sempre stata routine, non aveva mai avuto problemi. Non vi aveva mai neppure badato davvero, proprio come non si era mai neppure preoccupato delle misure di sicurezza sempre più rigide. Finché sei dentro, per te tutto è a posto. Non cambia nulla, o quasi. Peccato che adesso lui non fosse più dentro. Era fuori, adesso.
«Ci sono sempre stati modi per entrare e uscire di nascosto, no? Anche nelle dittature, in passato. A Berlino c’era chi riusciva a passare il muro, no? Quindi si potrà fare anche adesso e qui. Non siamo in una dittatura, dopotutto,» disse Alessio, ma con la più piccola ombra di dubbio. Vivere fuori dalla società tende a cambiare molto le tue prospettive. Apre nuovi orizzonti. Orizzonti pessimi.
Emanuele scrollò le spalle, mogio. «Non lo so proprio. Mi dispiace, ma non lo so proprio.»
Dispiaceva ancora di più ad Alessio. Erano stati due giorni terribili, quelli. La città in cui viveva da anni non esisteva più. O meglio, esisteva ancora, ma non per lui. Lui era fuori, relegato nelle crepe e ai margini. Sgusciava via in silenzio, ignorato da tutti e ignorando tutti. Solo i droni lo guardavano e non era un bel guardare. Non trasmettevano più sicurezza, adesso. Erano minacciosi. Non perché ci fossero stati cambiamenti in quello che facevano. I cambiamenti erano tutti in lui. Se prima il lavoro dei droni era stato proteggere lui, adesso proteggevano gli altri da quelli come lui.
O qualcosa del genere, ci siamo capiti.
La sola persona con cui avesse avuto un qualche tipo di rapporto umano era stato Emanuele. Era un punto di riferimenti per i senza identità, uno dei tanti o dei pochi, ancora Alessio non sapeva quanti volontari come lui ci fossero, ma era qualcosa di fermo, di stabile, e tanto bastava. E potevi parlare. Parlava con te anche se non avevi una identità. Continuava ad avere la faccia da catechista e la voce da cristoso, ma sembrava anche una brava persona, a modo suo. Era quanto di più vicino a un amico Alessio potesse sperare di trovare, in quelle condizioni. Non molto vicino, ok, ma meglio di niente.
Avevano chiacchierato un poco durante i pasti. Cose irrilevanti, tanto per sentire il suono della voce di un’altra persona e allontanare un poco la solitudine. Alessio aveva scoperto che avevano interessi in comune, o almeno che Emanuele seguiva un paio dei content creators per cui lui lavorava come influenced. Era praticamente la stessa cosa e si erano scambiati opinioni e commenti, come persone normali. Era stato piacevole. Emanuele aveva quasi cominciato a diventargli simpatico.
Ma non poteva continuare a vivere in città. Tre giorni senza identità glielo avevano dimostrato oltre ogni possibile dubbio. Non poteva continuare a vivere in città. Ne sarebbe morto.
Alessio finì di mangiare la poltiglia dal colore innaturale e dal sapore sospetto. Scosse la testa, alzò le spalle, si guardò attorno. Un angolino decrepito e abbandonato di città, fetido e desolato. Era una specie di rifugio, a modo suo, e poteva andare bene per un pasto al riparo dai droni, ma viverci? No. Era alienante. Era folle. Era la morte.
«Se trovo un modo per uscire, mi aiuti?» chiese sottovoce.
Emanuele lo guardò. «Non ci sono modi per uscire senza identificarsi.»
«Forse sì, forse no. Non lo sappiamo, lo hai detto anche tu. Se ne trovo uno, mi aiuti a uscire?»
«Dipende dal modo. Non è detto poi che uscire sia la soluzione migliore. Là fuori non c’è niente e il cibo sarà ancora più difficile da trovare. I droni ti cercherebbero anche là, lo sai.»
Alessio scrollò le spalle. «Droni e telecamere sono ovunque.» Una verità che era diventata più reale e tangibile che mai durante quei tre giorni senza identità. «Qui dentro soffoco e...»
«E non credi più che sia solo un errore che si sistemerà da solo, vero? Ci passano tutti.»
Già, vero. All’inizio era stato consolante pensare a un errore, un semplice errore che attendeva solo di essere corretto. Era stato protettivo. Adesso però non lo riusciva più a pensare. Ogni momento in città sembrava martellargli nella testa la consapevolezza che non era un errore e non si sarebbe mai sistemato da solo. Forse lo poteva sistemare lui, forse qualcun altro, ma non bastava desiderarlo con forza. Qualcuno doveva agire. Quel qualcuno era quasi sicuramente lui. In un modo o nell’altro.
«Non so più cosa pensare,» disse Alessio. «So solo che qui dentro non resisto più. Non so se ci sarà la possibilità di uscire, non so niente. Ti chiedo solo se sei disposto a darmi una mano per avere una possibilità, se mai mi si dovesse presentare l’occasione.»
«L’occasione non si presenterà da sola.»
«Se non si presenterà, tu non dovrai fare niente per aiutarmi. Non ti costerà nulla offrirmi l’aiuto, se sai che tanto io non avrò mai l’occasione di usarlo.»
Emanuele Strolga ci pensò un poco. «Un ragionamento piuttosto contorto, ma non del tutto errato in un certo senso. In pratica vuoi sentirti dire qualcosa di consolante?»
«Anche, sì. Ma se mai mi dovesse capitare davvero l’occasione...»
Emanuele sorrise. «Va bene, va bene. Se mai ti dovesse capitare davvero l’occasione, vedrò cosa si potrà fare per aiutarti. Se ci sarà un modo di farlo, ti aiuterò. D’accordo?»
«D’accordo.»
Quella notte Alessio Miscio dormì un poco meglio. Non fisicamente, perché è difficile dormire bene quando devi stare rannicchiato per terra in un angolino fetido, con altri grumi umani attorno a te, ma un miglioramento ci fu, piccolo e psicologico. Era un brandello di speranza.
Non sopravvisse a lungo il giorno dopo. Alessio vagò irrequieto lungo i margini estremi della città, un occhio a studiare la sorveglianza dei confini e un altro a controllare i droni di passaggio. C’erano tornelli, c’erano fotocamere, c’erano altre cose di cui non conosceva il nome, ma non ci voleva così tanto a capire la loro funzione. Servivano a tenerti dentro, a controllare ingressi e uscite e a regolare i flussi, per usare una espressione tanto cara a uno dei suoi content creator di riferimento. Una cosa non la riusciva a vedere: il modo di passare senza avere una identità.
Fu nel tardo pomeriggio che qualcosa accadde. Qualcosa di nuovo, non bello ma utile, forse. E forse no, forse solo un’anteprima di quello che sarebbe successo anche a lui.
Alessio Miscio era accovacciato dietro un vecchio magazzino abbandonato e quasi distrutto, solo un paio di graffiti di bassa qualità e resti organici a decorarlo. Puzzava, ma non troppo e non di quella puzza offensiva che avevano altre zone della città dei reietti. Era quasi piacevole, col sole in faccia.
Guardava svogliato i confini, senza sperare davvero di vedere qualcosa di utile. Forse era come gli aveva detto Emanuele e come lui stesso sentiva, in cuore suo: non c’erano modi di uscire. Non c’era qualcosa di utile da vedere. C’era solo tempo da perdere, ma in fondo il tempo era finito, svanito in un attimo assieme alla sua identità. Il tempo appartiene a chi esiste; chi non esiste ha solo durata.
Le sue filosofie fumose si dissolsero alla vista di un altro reietto che avanzava chino e rapido verso il confine della città. Era una sagoma umanoide che forse aveva incontrato in uno dei rifugi, o forse no: difficile dirlo, quando si assomigliavano tutti. Era sicuramente uno come lui e tanto gli bastava. E stava cercando di uscire, ovvio. Alessio si raddrizzò. Poteva essere importante.
Lo fu e non lo fu. Fu sicuramente istruttivo, a modo suo.
Il reietto avanzava lungo la strada, verso il passaggio chiuso dai tornelli. Che cosa aveva intenzione di fare? Caricarlo a testa bassa? Sembrava folle, ma di una follia disperata che Alessio poteva capire molto bene. Pure, se solo gli avesse mostrato un indizio, un punto debole nella rete di sicurezza, non sarebbe stato una perdita di tempo. Sembrava improbabile, ma era meglio di niente.
Un drone si stava avvicinando al reietto. Era uno di quei modelli piccoli, per uso urbano, simili a un elicottero giocattolo. Quelli che ti chiedevano sempre di identificarti per strada e che Alessio aveva imparato a odiare come poche altre cose al mondo, da quando aveva perso l’identità. Cosa avrebbe fatto adesso? Fermato il reietto, ovvio, ma poi?
Non ci fu un poi, non per il drone. Il reietto lo vide o lo sentì, si fermò, si raddrizzò, attese. Pareva il più stupido dei modi per reagire, ma forse aveva un qualche piano. Alessio seguiva la scena come il più assatanato degli adolescenti davanti al suo primo porno. Vide che il reietto infilava una mano in una tasca della sua giacca, si rannicchiava girando la schiena al drone, estraeva qualcosa, trafficava un poco, si girava di nuovo e lanciava l’oggetto contro il drone, colpendolo in pieno. Esplosero con un botto stupidamente forte, drone e oggetto insieme. Cosa era successo?
Alessio non aveva tempo per analizzare la scena, perché il reietto era ripartito e adesso correva a più non posso verso i tornelli. Li raggiunse, posò una mano sul più vicino, lo scavalcò con un’agilità da atleta o ginnasta, atterrò appena fuori e corse ancora più forte, lontano dalla città. Possibile? Che si potesse fuggire così, tanto facilmente? Alessio lo guardava con un misto di incredulità e invidia. Gli sembrava ingiusto che quel tizio potesse scappare e lui no.
Non scappò molto. Altri droni convergevano su di lui da vari punti della città e lo raggiunsero dopo meno di mezzo chilometro. Lo fermarono, definitivamente. Era riuscito ad abbandonare la città, da un certo punto di vista; peccato solo che non si sarebbe potuto godere molto la nuova libertà. Di lui non era rimasto abbastanza, e quel che era rimasto non era in ottima forma.
Alessio si allontanò di nascosto. Una scena terribile, che lo avrebbe accompagnato per chissà quanti incubi. Forse non troppi, se davvero la media era di una settimana per chi perdeva l’identità, ma non era molto consolante per chi, nello spazio di qualche minuto, era passato dalla paura all’esaltazione, dall’invidia all’orrore, e tutto osservando gli ultimi momenti di vita di uno sconosciuto. Uno che era nelle sue stesse condizioni, però, e questo lo rendeva un po’ meno sconosciuto.
Sarebbe potuto essere lui. Forse sarebbe stato lui, a breve.
Non un bel pensiero, ma un pensiero che Alessio Miscio non riusciva a smettere di pensare, come ti capita quasi sempre coi pensieri più orribili. Eppure... eppure in quel tentativo di fuga poteva anche esserci qualcosa. Non una speranza, forse, ma un indizio? Un suggerimento? Una possibilità? Roba simile. Ci avrebbe dovuto pensare meglio e con calma, ma qualcosa ci poteva essere.
Raccontò tutto a Emanuele, mentre cenava con la poltiglia arancione che il volontario gli aveva dato quella sera. Descrisse in dettaglio cosa aveva visto, come si fosse comportato quel reietto e come la sua fuga si fosse conclusa. Quell’ultimo particolare non troppo in dettaglio, però, almeno non prima di aver finito di mangiare: rivedere quella scena si conciliava male col cibo, specie se era poltiglia.
«Avrà usato una bomba carta, suppongo. Una bomba carta o qualcosa di simile,» disse Emanuele al termine del racconto. «Non so come abbia fatto a procurarsela...»
«Una bomba di un qualche tipo,» annuì Alessio. «O un petardo grosso. Qualcosa del genere.»
«Una bomba carta è fondamentalmente un petardo grosso.»
«Non me ne intendo. Il nome l’ho sentito, ma non ho idea di cosa sia di preciso.»
«Una specie di molotov, ma riempita di polvere da spari invece che di benzina o di un altro liquido infiammabile. Le molotov le usi quando vuoi dare fuoco a qualcosa; le bombe carta quando vuoi un botto molto forte e qualche danno,» spiegò Emanuele.
«Ma perché si chiamano bombe carta, se sono come le molotov?»
«Non sono proprio uguali, era solo per farti un esempio. Comunque si chiamano così perché le puoi costruire usando una scatola di cartone, invece di una bottiglia di vetro. Deve contenere polvere da sparo, non un liquido. Se il contenitore è duro, però, pare che faccia molto più rumore. O almeno ho letto così, poi non so se sia vero.»
«Il botto lo ha fatto e il danno anche. Ha distrutto un drone. Uno di quelli piccoli, ok, ma lo ha fatto a pezzi in ogni caso. Non mi sembra poi così male.»
«Non sono droni da combattimento. Quelli non li abbatti di sicuro con un petardo. La cosa strana è come abbia fatto a procurarsi la polvere da sparo per costruire una bomba carta, se è davvero quello che ha usato. Non dovresti poter comprare niente senza identificarti.»
Problema interessante, ma Alessio non aveva una risposta e così non rispose. Pensava, invece. C’era qualcosa di utile nella scena a cui aveva assistito? Secondo il suo modesto parere, sì.
«È riuscito a superare i tornelli e uscire dalla città,» disse poi.
«Ma i droni lo hanno raggiunto e fermato poco dopo, mi hai raccontato.»
Alessio Miscio annuì. Vero, i droni lo avevano raggiunto e fermato, per un valore molto definitivo e brutale di fermare. Se i droni fossero stati impegnati altrove, però... e magari di notte, invece che al tramonto... e con un diversivo vistoso a sufficienza...
«No, non penso che funzionerebbe,» rispose Emanuele, dopo che Alessio gli ebbe spiegato la prima parte del suo vago piano. «Ammettiamo pure che tu riesca a superare i tornelli senza avere un’arma con cui distruggere il primo drone: non riusciresti comunque a correre abbastanza lontano da essere fuori del raggio di azione degli altri droni. Quelli di sicurezza, non di sorveglianza. E poi che tipo di diversivo avresti in mente? Vorresti che qualcuno si sacrificasse come esca?»
Ah, ecco un problema. Era una brava persona, Emanuele, ma rimaneva comunque un cristoso con la faccia da catechista. Era ovvio che non ci sentisse, se si parlava di sacrificare qualcuno, specie se lo facevi per quello che, a voler essere pignoli, era considerato un crimine. Come fare?
«Non è proprio che qualcuno si debba sacrificare,» disse Alessio, parlando lentamente. «Servirebbe più un qualche tipo di distrazione, un evento che attiri i droni e basta. Non c’è bisogno che qualcuno corra dei rischi. Potrebbe essere anche solo un falso allarme, un danno a una proprietà, cose così.»
Emanuele aggrottò la fronte. «Cose molto rischiose. Un danno resta sempre un danno, chiunque sia a riceverlo. Puoi aspettarti punizioni molto serie per atti simili ed è impossibile non essere notati, in questo tipo di società. Tutto ti guarda e ti valuta, lo sai. Hai perso la tua identità proprio perché non lo hai tenuto sempre in considerazione.»
«Non lo so neanche io come ho perso l’identità. Come fai a saperlo tu?»
«Non lo so, ma è l’unica spiegazione. Succede per tutti, no? Una piccola infrazione qui, un’altra lì, e alla fine si accumula. Tutto conta. La punizione è il punto di arrivo di un processo che può essere anche molto lungo, perché non è un atto, ma un fenomeno. È vivo. Cambia col tempo e nel tempo.»
Blablabla. Alessio non aveva mai avuto pazienza per la filosofia spicciola, a parte quando ti serviva per rilanciare il post di un cliente. Era parte del suo cassetto degli attrezzi, in quel caso. Ogni bravo influenced sa quando e come usare citazioni pseudocolte per osannare un cliente. Frasi a effetto, che sembrano voler dire qualcosa ma in realtà non hanno senso. Lui forse non era mai stato davvero uno dei migliori nel suo campo, forse neanche nella seconda linea, però sapeva come fare. La fuffa era il suo mestiere, spanderla e farla sembrare oro. Supercazzole, da un certo punto di vista. Ma efficaci.
Tempo di provarci adesso, anche se non era mai stato un bravo oratore.
«Avevi promesso che mi avresti aiutato, se avessi trovato un sistema per uscire,» disse, guardando Emanuele negli occhi. Cercò di mettere il giusto tono di riprovazione ferita sia nelle sue parole che nel suo sguardo, anche se non sapeva bene quale dovesse essere o come fosse fatta una riprovazione in generale, ferita o meno che fosse.
«Non mi sembra che tu abbia trovato un sistema per uscire. Per farti ammazzare, forse, ma non per uscire. Se io collaborassi al tuo omicidio, sarebbe anche colpa mia.»
«Ma io sparirò in ogni caso nel giro di una settimana al massimo, no? Lo hai detto tu. Nessuno dura più di una settimana, dopo aver perso la propria identità. Rifiutarsi di aiutarmi a uscire non significa collaborare alla mia morte? Una morte certa, invece della morte incerta della fuga.»
«Anche quella della fuga è certa, e comunque non sappiamo se muoiono davvero. Io ti ho detto solo che in media le persone nella tua condizione spariscono nel giro di una settimana, ma non so altro.»
«E pensi davvero che passi di qui la fata turchina a portarli un un mondo migliore? O un tornado li rapisce e li trasporta nel mondo di Oz?»
Emanuele si mordeva le labbra, chiaramente a disagio. «Ma il punto è che...»
«Lo so, è pericoloso sia per me che per te. Lo capisco,» disse Alessio. «Ma è importante, lo vedi? È qualcosa che può fare la differenza tra vivere e morire, per me. Forse non servirà, forse fallirò, ma è meglio morire tentando che arrendersi e rimanere ad aspettare, non credi?»
Emanuele ormai si contorceva in tutta la sua persona. Era chiaro che avrebbe voluto trovare il modo di dargli torto, ma non ci riusciva. Alessio si sentì un poco in colpa, ma non troppo. C’era di mezzo la sua pelle, dopotutto, e comunque non c’era niente di male a sfruttare un buon samaritano. Se solo ci pensavi bene. Era praticamente un dovere civico. Esistevano per farsi sfruttare, no?
«Puoi anche pensarci su e rispondermi domani,» gli concesse misericordioso. «Ma è importante, lo capisci anche tu. Può fare la differenza tra la vita e la morte, per me.»
«Ci penserò e domani ti risponderò, va bene,» sospirò Emanuele prima di andarsene, scosso e con la testa bassa. Per Alessio poteva anche bastare, per il momento. Non aveva neppure lui una idea tanto precisa di cosa fare o di come farla. Aveva solo il desiderio, il bisogno di andarsene dalla città. Non lo attirava il pensiero di finire come quel reietto che aveva visto un paio di ore prima, ma di sicuro a lui non sarebbe successo. Non gli poteva succedere. Perché avrebbe avuto alleati, lui.
Magari li aveva anche quel tizio, gli suggerì un pensiero fastidioso. In quale altro modo si sarebbe potuto procurare una bomba carta, se era davvero quello che aveva lanciato al drone? Forse l’aveva costruita da solo, in un qualche modo. C’è gente che sa fare certe cose, dopotutto. Sì, doveva averci pensato da solo. Quindi era morto perché non aveva avuto alleati. Lui invece ne avrebbe avuto uno, per lo meno, quindi non sarebbe morto. Tutto chiaro e logico, giusto?
Alessio Miscio non dormì molto bene, quella notte. Non aveva mai dormito davvero bene in strada, ma quella notte fu peggio del solito. C’erano sogni. Sogni di quel reietto, solo che al suo posto c’era lui, era lui che i droni di sicurezza eliminavano. Lo facevano in un modo ancora più brutto di quello che avevano fatto nella realtà. Più e più volte. Sognò anche l’esame di maturità, ma fu meno brutto.
Ma la notte passò e il mattino dopo Emanuele non c’era. Non c’era neanche la colazione, perché era sempre lui a portarla. Non sembrava un buon segno, ma Alessio non volle pensarci troppo. Ignorò la fame e tirò mezzogiorno vagando ai margini della città, osservando da lontano i tornelli, i droni che li sorvolavano di tanto in tanto, la gente che poteva entrare e uscire liberamente, come una volta lui aveva potuto. Gente con una identità. Gente regolare. Gente registrata e abilitata. Alessio li odiò con tutto il suo cuore e qualche fibra di altri muscoli. Bastardi privilegiati! Poi fu ora di pranzo ed erano lì entrambi, Emanuele e la poltiglia arancione che gli aveva portato da mangiare.
«Farò quello che posso, va bene,» disse. Aveva brutte occhiaie e la faccia di chi ha attraversato una landa ostile, ma solo nello spirito. Ricordava anche qualcuno con un brutto caso di costipazione e di influenza, ma Alessio si sentì magnanimo e attribuì il tutto a turbamenti morali o roba simile.
«Quando farà buio,» gli disse. «Voglio aspettare il buio.»
«I droni non hanno bisogno di luce, lo sai.»
Alessio annuì. «Lo so, ma mi sentirò meglio io. È una cosa psicologica. Quando fuggi di nascosto ci vuole il buio, capisci? Altrimenti non è giusto. Non funziona.»
Emanuele abbozzò un sorriso tirato. «Sì, questo lo posso capire. Non penso però che...»
«Non è importante, non ti preoccupare. Al resto ci penserò io. Fammi avere una distrazione, tirami via i droni per un poco e al resto ci penserò io. E andrà tutto bene.»
«Non ci credo molto, ma ci proverò.»
Non ci credeva molto neppure Alessio, adesso che il tentativo di fuga dalla città era diventato più di un vago progetto fumoso. Vago e fumoso lo rimaneva, ma era una realtà, che incombeva su di lui. Il tentativo ci sarebbe stato e in un modo o nell’altro tutto sarebbe finito quel giorno.
O una parte del tutto. La parte in città.
Si concesse per la prima volta di fantasticare su quel che sarebbe accaduto poi, nel migliore dei casi. Fuggito dalla città, solo nella campagna attorno, coi droni che lo cercavano in cielo. Cosa si sarebbe potuto inventare? Non lo sapeva. Un rifugio da qualche parte, tanto per cominciare, e le colline non erano lontane, avevano alberi, avevano ripari. Sì, bastava raggiungerle e sarebbe stato al sicuro. Per un poco. Più o meno. Poi avrebbe dovuto cercare acqua, cibo, tutto il resto. Come?
Non sapeva da dove cominciare, ma era un problema che si poteva risolvere. Uomini primitivi non erano morti di fame o di sete, giusto? Quindi non sarebbe morto neppure lui, che era un influenced e si collocava alla fine di una lunga catena di evoluzione di successo. Aveva millenni di civiltà dietro le spalle. Era ovvio che se la sarebbe cavata. Inevitabile.
In un qualche modo. Probabilmente.
Tirò sera. Non ci fu cena, ma non si aspettava che ce ne sarebbe stata una. Non avrebbe avuto fame neppure se ci fosse stato qualcosa di decente da mangiare, al posto di quella poltiglia dal colore così improbabile e preoccupante. Vagò ancora un poco nelle zone più miserabili della periferia, raccolse un paio di sassi e li infilò in tasca. Non aveva armi, ma forse sarebbero bastati per stendere un drone di passaggio, se era piccolo e non in allarme. Aveva una buona mira, una volta. Ok, magari non era mai stata davvero così buona, però probabilmente lo avrebbe colpito, da vicino. Se necessario.
Quando non seppe più come allontanare le preoccupazioni, Alessio Miscio si rannicchiò nel primo angolo riparato con vista sui più vicini tornelli e cominciò ad attendere. Prima o poi sarebbe arrivata la distrazione che Emanuele gli aveva promesso e lui ne avrebbe approfittato per scavalcare. In una qualche maniera. Superati i tornelli, si trattava solo di correre, correre e ancora correre, fino alla più vicina collina e ai primi alberi. Qualche chilometro, forse due o forse tre. Ci sarebbe riuscito?
Aveva fatto atletica, da adolescente. Non era mai stato molto bravo, ma correre non era difficile. Era tutta questione di fiato e di mettere il piede nel posto giusto, cioè un posto dove non ci fossero cose che ti potevano far cadere o peggio. Adesso l’adolescenza era distante un paio di decenni e lui non si era mai preoccupato molto di tenersi in forma, ma ci sarebbe riuscito. La necessità fa miracoli, lo sanno tutti. Sarebbe andato tutto bene. Era ovvio. Era inevitabile.
Quanto ci metteva quel maledetto a fargli avere una distrazione?
Il cielo era buio, adesso, di quel buio che trovi in città e dintorni. Una specie di nero sbiadito, dove i vestiti neri non ti nascondono davvero, ma ti fanno spiccare di più. Funzionano semmai il grigio e il verde, entrambi scuri, e magari ci avrebbe dovuto pensare prima, per cercare di procurarsi qualcosa di quel colore, ma non ci aveva pensato e ormai era tardi. Perché la distrazione non arrivava?
Oppure era già arrivata? Alessio si accorse di non aver concordato di preciso alcun segnale o alcuna forma in cui quella distrazione si sarebbe dovuta svolgere. Un rumore forte? Una luce intensa? Una esplosione? Altro ancora? Non lo sapeva. Perché era stato tanto stupido? Non lo sapeva. Ci avrebbe dovuto pensare prima. Peccato. E adesso lui?
Ma qualcosa doveva essere accaduto, da qualche parte, perché d’un tratto sentì un ronzio passargli poco sopra. Due ronzii. Due droni di sicurezza che si dirigevano in fretta da qualche parte. Era forse il momento di agire? Alessio accennò ad alzarsi, si chinò di nuovo, si raddrizzò a metà, scoprì che si stava cagando addosso metaforicamente. Le immagini del reietto raggiunto dai droni di sicurezza lo assediavano, assaltavano la sua coscienza da ogni lato. Aveva davvero deciso qualcosa di tanto folle e azzardato? Era stato lui? Lui sul serio? Lui Alessio Miscio, il (non troppo) rinomato influenced?
Apparentemente sì. Prima che la fifa lo paralizzasse del tutto e irrimediabilmente, qualche parte non troppo usata della sua mente prese il sopravvento, lo fece raddrizzare e spinse il suo corpo a correre disperato verso i tornelli, mentre la sua razionalità si copriva gli occhi e piagnucolava in un angolo.
La strada era deserta e piuttosto malmessa, ma Alessio non incespicò. Non andava neppure troppo forte, per adesso. Il suo corpo aveva recuperato un ritmo a cui si era abituato anni prima e che negli ultimi tempi non aveva mai neppure pensato di dover riutilizzare. Due inalazioni secche dal naso e tre sbuffi rapidi dalla bocca, poi una piccola pausa e ricomincia: la sua respirazione da allenamento, in gioventù, che adesso stava diventando la sua respirazione da fuga, in età molto meno verde. Ma i muscoli rispondevano bene, le gambe giravano, i tornelli si avvicinavano e tutto era tranquillo.
Alessio li raggiunse, ignorò i loro messaggi, li superò come in una vecchia pubblicità dell’olio e la sua corsa riprese oltre i confini della città, senza perdere il ritmo. Quanto si sentiva bene? Troppo, al momento, ma temeva che non sarebbe durata. Pure, finora tutto stava andando bene. Magari...
Un ronzio alle sue spalle. Una voce artificiale che gli intimava di fermarsi.
Alessio si fermò, infilò entrambe le mani in tasca, afferrò due pietre, si girò, vide il piccolo drone in arrivo, lasciò che si avvicinasse ancora un poco, tolse le mani di tasca e scagliò le pietre, prima una e poi l’altra. Lo colpì una volta sola, non in pieno ma abbastanza da farlo sbandare e scendere piano piano a terra. Poteva bastare. Doveva bastare.
Alessio Miscio non rimase a guardare cosa sarebbe successo poi. Si girò di nuovo e scattò via, alla massima velocità possibile. Non era più il trotto controllato che aveva tentato all’inizio, non c’erano più i respiri regolari e ritmati a cui si era abituato da adolescente: c’era solo la fuga, un bisogno di mettere la massima distanza possibile tra sé e il drone, la città, tutto. Correva verso le colline e gli alberi, e al resto non pensava. Il resto che si arrangiasse da solo e che rimanesse lontano, indietro, il più possibile altrove. Via, in un’altra vita.
Continuava ad aspettarsi che i droni sarebbero arrivati. Non i piccoli, da sorveglianza, ma gli altri, i loro fratelli maggiori, i droni di sicurezza che ti eliminavano all’ingrosso. Dovevano arrivare. Aveva abbandonato la città senza permesso, aveva aggredito un sorvegliante, aveva sputato sulla legge. La punizione era inevitabile. Dovevano arrivare per lui. Dovevano.
Ma Alessio correva e non c’erano ronzii. C’era solo silenzio, rotto dal suo fiatone. Pure, sarebbero a breve arrivati. Era inevitabile. Era così che finivano le storie come la sua. Sarebbero arrivati.
Li aspettava ancora, quando raggiunse i primi alberi e si accasciò al suolo, senza forze né fiato.
Li aspettava ancora una settimana dopo la fuga. Era in collina, era sempre in mezzo agli alberi, era dimagrito e il suo corpo era un poco più solido. Non molto, ma la ciccia da benestante stava a poco a poco lasciando il posto al muscolo dell’atleta. Sarebbe stato un processo lungo, ma Alessio Miscio poteva quasi credere che sarebbe arrivato in fondo, con un poco di fortuna.
Aveva trovato acqua, anche se forse non proprio potabile, e i primi giorni il suo intestino non aveva reagito bene. Adesso si stava adattando, o forse arrendendo, ma almeno il cibo rimaneva più a lungo dentro di lui e usciva in modo più o meno normale e pacifico. Non che fosse un granché di cibo, ma era più buono della poltiglia arancione. Aveva trovato more e altri frutti di bosco. Aveva trovato un albero di fichi quasi maturi e toccati solo lievemente dalle formiche. Aveva provato anche a cacciare in una occasione, ma non era stata una buona idea. Le lepri erano troppo veloci, gli scoiattoli troppo imprendibili e i cinghiali, beh, con loro c’era il rischio che fosse il cacciatore a diventare preda.
Pure, qualcosa mangiava, qualcosa beveva. Un poco dormiva. Ed era fuori. Era libero. Era senza un nome e una identità, ma lì non ne aveva bisogno. Nessuno gli chiedeva mai di identificarsi.
C’erano i droni, però. Lo stavano cercando. Li vedeva ogni tanto in cielo, troppo lontani per sentire il loro ronzio ma vicini a sufficienza da doversi nascondere meglio. Sembravano essere sempre più vicini, ogni giorno che passava. Sarebbe riuscito a scamparla ancora? Lo avrebbero preso? Perché era lui che cercavano, ovvio. Chi altri sarebbe dovuto essere? Non c’erano così tanti fuggiaschi, lì.
Alessio ci aveva pensato un poco, la seconda notte di libertà, e alla fine aveva deciso che non era un vero problema. Non era importante. Non era prioritario. Forse lo avrebbero preso, forse no. Lui non lo sapeva e non se ne preoccupava più. Viveva un’ora alla volta, adesso, guardando solo al poco più in là, non al futuro vero. Una cosa alla volta, un’ora alla volta. Sopravviveva. Ma viveva.
Aveva perso tutto, non esisteva più. Dunque non aveva più nulla da perdere, perché gli avevano già tolto tutto. A parte la vita, per adesso. Per dopo? Ci avrebbe pensato dopo. Adesso pensava solo alle bacche appena trovate. Sembravano commestibili. Forse lo erano. Ne provò una. Abbastanza dolce, ma non troppo. Forse potevano andare bene. Almeno per lui.
Un ronzio. Alessio guardò verso l’alto. Un drone, che sorvolava il suo cielo. Non era il primo, ma il primo ad avvicinarsi così tanto. Ed era giorno. Troppa luce. Strinse più forte il bastone che usava in parte per camminare e in parte come arma futura. Lo aveva levigato lui, lo aveva lisciato lui, con le sue mani. Era stato divertente prepararlo. Sarebbe stato divertente usarlo? Non lo sapeva. Forse sì e forse no. Non aveva senso preoccuparsi. Masticò un’altra bacca e rimase in attesa.
Forse stavano venendo per lui, forse no. Forse sarebbe riuscito a scamparla di nuovo, forse no. Non aveva importanza. Per adesso era vivo e tanto gli bastava. Il resto non contava più.
Col bastone in pugno, il fu Alessio Miscio fissava il drone e aspettava.