Una cartolina e un nome
Occhi ovunque, che scrutano, spiano. Li senti addosso, come la carezza vischiosa dell’aria estiva, in questa notte di fine luglio. Sei solo, nella calle deserta, mentre segui le indicazioni vaghe di quel barbone. Le finestre buie sono sguardi, ti fissano dalle fessure nere delle imposte, vecchie comari di paese che bisbigliano osservando un forestiero. È solo una tua suggestione, lo ripeti di continuo, ma non riesci a tranquillizzarti. Non in questa atmosfera così innaturale.
La tua pelle è gomma, appiccicosa di sudore. Respiri a fatica l’aria verde, quasi la potresti strizzare per dissetarti. Un tempo eri più abituato all’estate tropicale di Venezia, ma ormai è passato troppo tempo e quegli anni sbiadiscono nel ricordo, come i contorni degli oggetti nella grigia umidità. San Francesco della Vigna è una sagoma più nera nella notte, sulla tua sinistra, con le sue colonne e il mormorio lieve della fontanella. Ti fermi a bere, guardandoti attorno. Nessuno, il campo è vuoto.
Le tue narici sono piene dell’odore disgustoso dei canali, quel puzzo di pesce marcio e di mare in decomposizione, che da sempre sottolinea i mesi più caldi. Sembra più inteso, questa notte, o forse è solo la tua immaginazione a fartelo sentire così. Non è un bel periodo e l’afa soffocante annebbia i tuoi pensieri, di una foschia simile a quella che riempie le calli tra le pareti scrostate degli edifici. È stata una follia fidarsi di quell’uomo, eppure lo hai fatto. E adesso sei qui, nel buio che rari lampioni accentuano, piuttosto che dissipare, alla ricerca di un nome.
Controlli di nuovo la cartolina, più per abitudine che per reale necessità. Una parola, l’indicazione di una persona o di un luogo. Sembra un cognome veneto, ma non hai ancora trovato nessuno che si chiamasse così. E il solo a conoscerlo, forse, era quel barbone che hai incrociato stamattina, tra la desolazione che chiude le Fondamente Nuove. Ti sei fidato di lui, hai ascoltato quello che aveva da dirti e alla fine gli hai posato qualche moneta nel palmo sudicio della mano. Hai fatto bene? Te lo chiedi di continuo, ora, mentre una notte innaturale si chiude su di te.
In fondo alle Fondamenta delle Case Nuove, l’edificio che fa angolo, davanti alla laguna. Sono solo pochi metri ancora, due passi dopo la fermata della Celestia, eppure ti senti a disagio, come se la tua meta fosse un luogo distante anni luce dal mondo o dalla vita comune. È una fantasia, è l’effetto che hanno su di te il caldo terribile e l’odore dei canali, il silenzio irreale calato su ogni cosa. Lo sai, la ragione continua a ripetertelo, ma la tua mente non riesce ad ascoltarla. Non ora.
Ti asciughi la fronte, la pelle è uno straccio bagnato sotto la tua mano. Dovrai farti almeno un paio di docce, quando sarai tornato in albergo, e non serviranno a nulla. C’è soltanto sudore nelle notti di luglio, a Venezia. Sudore e foschia densa, che appanna gli occhi e sbiadisce i contorni delle cose.
Svolti in Calle del Cimitero, nome di cattivo auspicio in questo momento. Non ci badi, i pensieri si dirigono altrove, precedono i tuoi piedi. Scivoli nel deserto della strada, stretta tra i muri vecchi e consumati delle case: là dietro abita qualcuno, ci sono altri esseri viventi, lo sai. Eppure adesso non senti che sguardi, immobili e sgranati, che ti spiano dalle tenebre. Sei solo.
Quando la laguna si spalanca davanti a te, immensa e nera nel suo silenzio, respiri a fondo e l’aria vischiosa ti riempie il naso e i polmoni. Soltanto luci lontane, vaghe, dove si intuisce la sagoma più scura di Murano, a sinistra, e il contorno incerto e buio di S. Erasmo. Il resto è solo vuoto, vasto e privo di confini, una massa liquida che si muove appena, con uno sciabordio discreto, rotto da rare onde più forti. Sembra osservarti, mentre tu la osservi. Odore di pesce marcio, evocato dal caldo.
Guardi distratto l’orologio, per cercare qualcosa che ti tenga ancorato alla realtà. Sono quasi le due, nelle strade non è rimasto nessuno, non un suono nell’aria, all’infuori della voce lenta delle acque. E forse, ora, le tante domande troveranno una risposta, tutti i dubbi che ti hanno accompagnato per più di una settimana, dopo la scomparsa di Andrea.
Ti fermi, una paura irrazionale ti assale improvvisa e toglie ogni forza alle tue gambe, proprio ora che la tua meta è lì, dietro l’ultimo angolo. O almeno, così ti aveva detto quel barbone strabico. Ma ti puoi fidare di lui? O è soltanto una menzogna che ha inventato, per strapparti qualche soldo? Non ha più senso farsi questi problemi. È notte, come ti aveva consigliato lui, e hai raggiunto l’edificio in fondo alle Fondamenta delle Case Nuove. Non devi fare altro che suonare il campanello.
Di notte, perché di giorno non si fanno mica vedere. Il bisbiglio allucinato del barbone ti torna alla mente, minaccioso. Sembra una storia di vampiri e ne vorresti ridere, ma non ci riesci. Perché nel mondo che ti circonda c’è davvero qualcosa di innaturale, di folle. E in un clima come questo, nella notte afosa, potresti quasi credere alle assurdità più infantili, o ai deliri alcolici di un mendicante. O all’enigma di quella cartolina, con una parola sola: l’ultimo segno lasciato da Andrea, prima della sua scomparsa. Una cartolina e un nome, scarabocchiato con mano frettolosa.
Il Redentore, la metà di luglio. Tornava sempre a Venezia, in quel periodo. C’era il ponte di barche sulla Giudecca, c’erano i fuochi d’artificio: scene che aveva scoperto ai tempi dell’università e che lo avevano catturato, senza una ragione precisa. Come un uccello migratore, ogni anno le andava a vedere, fermandosi in città per qualche giorno. Un paio di volte lo avevi accompagnato anche tu, in un abbozzo di rimpatriata scolastica, ma non avevi mai amato quelle feste, la folla e la confusione che le accompagnava sempre. E adesso sei stato costretto a ritornare, nonostante tutto.
Ti era parso più strano del solito, quando ti aveva telefonato dopo l’arrivo a Venezia. Non che fosse una cosa anomala, per lui: era sempre frenetico e agitato, quando un nuovo interesse lo prendeva. Per questo non ci avevi badato, sulle prime. Aveva bofonchiato di un’altra festa del Redentore, con una cerimonia diversa, che aveva scoperto per caso. Una ricostruzione dell’epoca o qualcosa del genere: questo avevi capito. Nulla che ti potesse interessare, ma senza dubbio un evento capace di ammaliare Andrea. Poi, il silenzio, rotto solo da quella cartolina.
La guardi di nuovo, il timbro postale ti parla del 18 luglio, poco dopo la festività estiva. C’è il tuo indirizzo, scritto con una grafia storta e incerta, e c’è quella parola, “Dagòn”. La ripeti ancora, come l’hai ripetuta infinite volte negli ultimi giorni. Sembra un cognome veneto, forse un po’ insolito ma nulla di bizzarro. Speravi che quella fantomatica persona potesse dirti qualcosa di più sul tuo amico, ma in città non hai trovato nessuno che lo conoscesse. Solo il barbone, proprio stamattina.
Hai ancora negli occhi il suo sguardo strabico e il sorrisetto storto, appena abbozzato in mezzo alla barba lurida. Ti ha dato quelle poche informazioni e il consiglio, incomprensibile, di andarci solo di notte, come se dietro quel nome si nascondesse una famiglia di vampiri. È assurdo, probabilmente è anche folle, ma non hai altro per le mani. Al limite, farai una pessima figura, svegliando qualcuno a un orario tremendo. Ti caccerà in malo modo e tu sarai al punto di partenza.
Questa è la soluzione più logica, eppure non ti convince. L’aria stessa, la sua umidità così pesante e l’odore intenso di pesce sembrano irridere ogni spiegazione razionale. E l’assoluta solitudine delle calli. Certo, Venezia non è mai stata una città famosa per la sua vita notturna, ma di solito qualcuno lo si trova, in un periodo pieno di turisti come l’estate. Un gruppo di tedeschi che cercano l’albergo, due inglesi ritardatari e ubriachi, ragazzi che tirano tardi in un campo, assieme a un paio di bottiglie. Scene normali, come ne hai viste a decine nei tuoi anni da studente.
Non questa notte. È come se tutti gli abitanti si fossero trasferiti altrove, oppure avessero deciso di restarsene rinchiusi in casa. Non un suono, a parte il lento e monotono risucchio dell’acqua. Quelle onde che sbattono contro il bordo dei canali, sottili e calme sotto un’aria immobile: assieme al forte fetore di mare, di alghe putrescenti, hanno invaso ogni angolo della città, come se tutto appartenesse a loro. Come se fossero il vero proprietario di queste strade e di questi edifici.
Sistemi di nuovo in tasca la cartolina, ormai un poco sgualcita. Non ha senso restartene lì, come uno stupido, a vagare con la fantasia e lasciarti ipnotizzare da suggestioni malate. Ora hai avuto la tua informazione ed è tempo di incontrare questa fantomatica persona, che dovrebbe abitare nella casa d’angolo in fondo alle fondamenta. Cioè la casa che vedi qualche metro più avanti, nera nel nero.
Parlerai a questo signor Dagòn, che sia Bepi, Toni o Alvise Dagòn, e gli chiederai qualche notizia di Andrea. Perché di certo deve aver avuto a che fare con lui, se il suo ultimo messaggio ti ha lasciato solamente un nome, il suo nome. E pazienza se ha le abitudini di un vampiro ed esce solo di notte, per chissà quale fissazione: in fondo, non sarà il primo matto che incontri, a Venezia.
Stai ancora ruminando questi pensieri nella tua testa, quando raggiungi l’angolo della strada, oltre il quale dovrebbe trovarsi la porta d’ingresso. L’odore marcio dei canali è sempre più forte, come se ti stessi avvicinando alla sorgente del fetore. Non può che essere un’illusione, perché sai bene che non esiste un punto di origine: è diffuso ovunque, sale dalle acque sporche che circondano la città e si spande nell’aria, sotto il caldo torrido dell’estate. Eppure la sensazione non ti lascia.
Svolti, l’ultimo frammento della via si apre davanti a te, costeggiando la curva a gomito del canale. E là, in fondo, ti pare di scorgere una figura umana che scantona, veloce. È solo un attimo, quasi uno spettro nell’atmosfera umida e appiccicosa della notte. Vedi il profilo di una persona, curva e goffa, che scivola oltre il tuo sguardo, dietro l’angolo opposto dell’edificio. Vorresti chiamarla, fare un segno per attirare la sua attenzione, ma è già scomparsa prima ancora che tu possa concludere il tuo pensiero. C’era realmente? O è stato un miraggio?
Non lo sai, ma non ti piace questo posto. Ha qualcosa di sbagliato, un’anomalia che si fiuta nell’aria e che quasi si può toccare con mano. Non è solo la facciata antica e consunta della casa, né l’odore così intenso nell’ansa che si spegne sulla tua sinistra. Sei a Venezia, lo sai perfettamente, eppure il luogo che hai ora di fronte sembra uscito da un altro mondo. O è soltanto la suggestione della tarda ora, assieme al caldo viscoso che ti appanna gli occhi?
Il suono delle onde, nere e lente, è più forte, come se si stesse alzando il vento. Ma non c’è alcun refolo, l’aria è morta attorno a te e pesa sulla tua pelle gommosa, come se ti stessi muovendo in una massa di ragnatele. A disagio, copri gli ultimi passi che ti separano dalla porta, silenzioso, le scarpe che slittano leggermente sul selciato irregolare e bagnato. Gli sguardi aumentano, ogni cosa adesso pare osservati, scrutarti con l’attenzione di uno scienziato che spia in un microscopio.
È solo fantasia, lo ripeti ossessivo, come un rosario recitato da una vecchia bigotta. È solo fantasia, ma le sensazioni terribili non se ne vanno, non ti lasciano in pace. Sei solo sulla fondamenta, non la più piccola delle ombre ti accompagna, eppure ti sembra di essere in mezzo a una folla, fatta di volti curiosi e invisibili. Ti fissano, le pareti mute della casa così come l’acqua della laguna, che proprio in quel punto forma una piccola ansa, ristagnando in una L di tenebra.
Davanti alla porta, ti chini con cautela verso il campanello, per guardare se ci sia un nome, se quello sia davvero il posto che stai cercando. È così. Su una targhetta di metallo, vecchia e incrostata dalla salsedine, riesci a leggere un nome, quel nome. Dagon, scritto con caratteri così strani e arcaici, da farti dubitare per un istante di ciò che vedi. Passi una mano sulle tue palpebre insonnolite, pesanti di sudore e di afa. Riapri gli occhi e la parola è sempre lì. Non stai sognando, ma forse lo preferiresti: il barbone aveva ragione, quella persona ignota esiste davvero.
Dovresti suonare, ma non sei più sicuro di averne il coraggio. Prima scherzavi, pensando a Dagòn e alle sue manie da vampiro. Ora non scherzi più, ogni voglia di sorridere ti è morta sulle labbra. È il senso di follia che aleggia su ogni cosa, l’odore di pesce marcio e di alghe decomposte, così intenso da sembrare quasi solido. È il suono ipnotico dell’acqua contro il bordo di pietra del canale. È il caldo umido e soffocante della notte, ragnatela di gomma che ti tiene stretto.
A un tratto ti sembra un errore tutto ciò che hai fatto. La ricerca di Andrea, le domande tra le calli di Venezia: è stata la cosa giusta? O hai attirato anche su di te il suo stesso destino? L’edificio che hai davanti sembra interrogarti, con uno sguardo da inquisitore. La tua mano corre verso la cartolina in una tasca, l’ultimo segno che il tuo amico ti ha lasciato. Cercava un’altra festa del Redentore, un rito diverso da quello solito, più antico. Ma cosa avrà trovato? Dagòn. Un nome che non avevi mai sentito, che non risveglia ricordi in te. Ma brividi, adesso che lo ritrovi inciso nel metallo, davanti ai tuoi occhi, in una notte silenziosa e aliena di fine luglio.
D’istinto indietreggi di un passo. Gli sguardi che ti fissano sono sempre lì, li senti formicolare sulla tua nuca, vibrare sotto la tua pelle appiccicosa. Eppure non c’è nessuno, soltanto il suono costante delle onde contro la pietra. E l’odore onnipresente di pesce. Non era mai stato così forte, non negli anni che hai trascorso a Venezia, quando studiavi. E non ci sono mai stati quegli occhi a spiarti, né allora né negli ultimi giorni. Soltanto stanotte. Soltanto dopo aver parlato col barbone.
Dopo aver saputo di Dagòn, di quella casa che hai ora di fronte.
Un passo, il fruscio di un piede sul selciato umido. Sei sicuro di averlo udito, non può essere solo un sogno. Frenetico ti guardi attorno, sperando e temendo di incrociare qualcosa, il volto di un’altra persona. Un essere vivente, per sapere che non sei rimasto l’unico al mondo, per sapere che ci sono altri uomini. Non hai più incontrato nessuno, da quando hai abbandonato il tuo albergo...
Ma non vedi nulla, l’angolo di fondamenta attorno a te è sempre lo stesso, immutato. Quel suono è svanito, chissà dove, lasciandoti la sensazione di aver immaginato tutto. Eppure non è così, lo sai, lo avverti nelle tue ossa. Ruoti su te stesso, per abbracciare con uno sguardo tutto il panorama. Buio e pietre consumate, ecco quello che ti appare. E non una forma di vita, non un cambiamento.
Ne hai abbastanza di questo posto. Sei stato stupido ad ascoltare quel barbone strabico, ad andare in giro in piena notte, per cercare un nome scribacchiato su una cartolina. Magari ci tornerai di giorno, alla luce del sole. E pazienza se il signor Dagòn esce solo quando c’è buio, pazienza se si diverte a giocare al vampiro. In queste condizioni stai solo torturando i tuoi nervi, spaventandoti per cose che non esistono. Solo fantasie, come un bambino troppo impressionabile.
Un rumore, un risucchio melmoso ti raggiunge dal canale, alla tua destra. Per un attimo sembra una risata, il borbottio di una bocca piena di fango. Guardi verso l’acqua, poi verso la porta che ti stai lasciando alle spalle. Nulla, tutto sembra quieto e deserto, come prima. Ma non è così, non lo è più. Ora non sono più solamente occhi che fissano e studiano: puoi sentire la presenza di altre persone, o altri esseri. Sono da qualche parte, fuori del tuo campo visivo. Eppure ci sono.
Cammini più in fretta, per fuggire da quel luogo di follia. Daresti qualunque cosa per essere rimasto nella tua stanza d’albergo. Meglio ancora, per non aver rimesso piede a Venezia. Ti dispiace per la scomparsa di Andrea, ma ti ha trascinato in un’allucinazione degna di un incubo. Di un incubo fin troppo spiacevole. È un raduno di pazzi, una trappola in cui quel mendicante ti ha attirato? Lo speri, lo speri con tutte le tue forze. Perché l’alternativa è troppo orrenda.
Svolti l’angolo e lo vedi, ritto di fronte a te. Il barbone, dalla barba sudicia e gli occhi strabici. Ti sorride, mentre allarga le braccia a riempire tutto lo spazio della stretta fondamenta.
«La curiosità ha ucciso il gatto», ti dice con un tono di scherno, cantilenando come un bambino. Ora l’odore di pesce è soffocante, sembra avvolgerti in un abbraccio, più intenso dell’umidità e della calura. Suoni confusi nell’acqua, sottili, come se qualcuno stesse emergendo dalla laguna. Molti qualcuno. Di nuovo quel risucchio melmoso, modulato a formare parole, parole inumane.
«Cercavi il tuo amico? Adesso lo vedrai. E vedrai anche il nostro padre Dàgon. È così impaziente di incontrarti...». Il barbone si avvicina, continuando a parlare con lo stesso tono di burla. Ancora non osi voltarti, non osi scoprire cosa ci sia dietro di te. Ma li senti, senti i passi saltellanti che avanzano verso di te, preceduti dal fetore di pesce. La tua mano stringe convulsa la cartolina, la stritola come un pezzo di carta da gettare. È solo uno scherzo, è solo un orribile scherzo: lo ripeti, l’ultima parte di razionalità che ti resta, un misero frammento, lo ripete ancora.
Ma nessuno più la ascolta. Dàgon, non Dagòn. Avevi sbagliato l’accento. Quando una mano viscida e palmata, dalle dita troppo corte e rattrappite, si chiude umida sul tuo braccio, anche quel pensiero svanisce. Poi, non resta che l’oblio, misericordioso, a spegnere per sempre la tua coscienza.
Nel fondo fangoso della laguna, Andrea ti aspetta, assieme a loro.