Cattivi auspici
Quando una lepre gli tagliò la strada, Mario Fuco si fermò. Era una cattivo auspicio, sapete. O forse non sapete, ma non importa. Lo sapeva Mario Fuco e tanto basta. Lo aveva letto da qualche parte, tempo fa. Una fiaba? Qualcosa del genere. Era ambientata in Scozia o giù di lì. C’era il protagonista che vedeva una lepre attraversargli la strada e pensava che era un cattivo auspicio. Siccome poi gli capitava davvero qualcosa di negativo, aveva ragione. Quindi la lepre era un cattivo auspicio. QED.
Mario Fuco scrollò le spalle. Fosse o non fosse, per lui cambiava poco. Stava solo andando al solito angolino a suonare. Cosa poteva capitargli di male? Inciampare, forse, o suonare peggio del solito, se umanamente possibile. Sai che tragedia. Era il solo ad ascoltarsi e si vestiva male apposta, in quei pomeriggi. Nessun problema, dunque.
Così Mario proseguì per la propria strada e un attimo dopo aveva raggiunto la macchia di pioppi in mezzo a cui si sedeva sempre. Le volte che andava a suonare in campagna, almeno, che forse non le potevi definire sempre sempre, ma erano un sempre relativo. Sempre quando passava da quelle parti per quel motivo specifico. Ci siamo capiti. E Mario Fuco si sedette.
Suonò per un poco e tutto andava bene, a parte la lanugine dei pioppi che continuava a volargli nel naso e in faccia. Era un fastidio, ma in quel periodo dell’anno funzionava così. Mario sapeva e non apprezzava, ma sopportava. Era una questione di stile, sapete. Non puoi suonare il flauto di Pan se non sei in un luogo rurale a sufficienza. Ci vogliono alberi attorno, ed erba, e vento, e tutto il resto della roba che fa natura. Ve lo immaginate Pan che suona il suo flauto seduto su una panchina, con un parcheggio dietro l’angolo? Appunto. Questione di stile e Mario Fuco ci teneva molto. Se poi per lo stile gli toccava ingoiare qualche piumino dei pioppi, pazienza. I sacrifici erano inevitabili.
Così Mario suonava male e si copriva a poco a poco di bianco, mentre attorno a lui la natura andava in cerca di luoghi più tranquilli in cui portare avanti le proprie attività di natura. Era già tutto perso in una sua personale reinterpretazione di El condor pasa quando una mano si posò sulla sua spalla. La spalla destra, per la precisione. Mario ci teneva molto a essere preciso, sapete. Quale fosse però la mano, se destra o sinistra, non lo sapeva determinare, così si girò a controllare, seccato per quella improvvisa e sgradita interruzione.
E vide.
Dietro di lui c’era una persona. Apparentemente donna, ma di questi tempi non si sa mai. Specie se ha un aspetto simile. Perché la figura che gli aveva posato la mano (sinistra) sulla spalla (destra) era un, beh, ecco, era complicato. Mari Fuco sbatté lentamente le palpebre. La figura non era sparita, di conseguenza era probabilmente reale. Per un certo valore di realtà.
Era alta come qualcuno che non avrebbe mai avuto futuro nel basket e sport simili. Aveva anche una corporatura che si prestava allo sport in generale soprattutto come attrezzo. Come pallone, tanto per cominciare. Uno di quelli che si usavano in spiaggia, per esempio. Era anche vestita come un’abat-jour di cattivo gusto. Aveva capelli verdi, facciamo verdognoli, e abbastanza lunghi. Correzione: fin troppo lunghi, se quelle cose che sembravano spuntare attorno alla sua vita erano sempre capelli. Al momento Mario non se la sentiva di indagare. Indossava anche una coroncina di edera attorno alla testa, come una specie di poeta laureato che si è dovuto arrangiare coi vegetali che ha trovato nelle vicinanze. Aveva un rossetto verde sulle labbra, non in tinta coi capelli. Anche gli occhi erano verdi, di nuovo non in tinta con le altre tonalità. Era...
Una polpetta ammuffita fu la prima immagine coerente che traversò la coscienza di Mario Fuco, ma non gli sembrò il modo migliore per chiamare quella tizia misteriosa (e inquietante, d’accordo), al momento, così si limitò ad abbozzare un sorriso da cameriere e bofonchiare un «Sì?». Dopotutto era la nuova arrivata che doveva giustificarsi, no? Lui era solo lì a suonare per i fatti suoi, mentre lei lo aveva interrotto. Ed era meglio che avesse anche una buona ragione per averlo fatto.
«Ti stavo ascoltando. Mi piace come suoni. Mi ricorda i vecchi tempi.»
Mario sorrise e annuì. Ti stavo ascoltando: ok, lui non se n’era accorto, ma fin lì nulla di strano. Mi piace come suoni? De gustibus, d’accordo, anche se era consapevole di non essere molto bravo. Ma mi ricorda i vecchi tempi, ora, cosa dovrebbe significare? Quella tizia avrà avuto... Mario Fuco esitò nel suo monologo interiore. Quanti anni poteva avere? Dai venti portati male ai quaranta portati più o meno normalmente: questa era la sua stima a occhio e croce. Per una valutazione complessiva, si doveva però mettere in conto anche le ovvie malattie mentali della tizia, che tendono a invecchiare più in fretta una persona. O così aveva letto da qualche parte, forse in una storia di Lovecraft o Poe, per cui forse era vero. Plausibile, quantomeno.
«Ehm, mi stavo solo esercitando. Ogni tanto lo faccio, sa,» rispose lui, sospeso tra l’imbarazzato e il confuso. Non era mai stato bravo a reagire ai complimenti. Riceverli da una tizia conciata in quella maniera, poi, complicava soltanto le cose.
«Oh, lo so. Ti ascolto spesso. Io vivo qui, sai.»
Il sorriso di Mario Fuco oscillò incerto. Lo ascoltava spesso? Lui non se n’era mai accorto. E in che senso la tizia viveva lì? Non c’erano case nelle vicinanze. Era una specie di angolo fuori città, dove ancora non era arrivata l’urbanistica e la campagna sembrava essersene andata disgustata. Una terra di nessuno, un limbo dove cresceva quello che capitava, e a lui andava bene così.
«Abita qui vicino?» le chiese, sforzandosi di sembrare tranquillo e sereno.
«Oh sì, abito in quell’albero. Sono una ninfa, sai.»
Mario Fuco sorrise e annuì. Una pazza, ovvio. Lo aveva già sospettato, vedendo come era conciata, ma adesso ne aveva la conferma. Poteva anche essere pericolosa? Non lo sembrava, probabilmente non avrebbe avuto problemi a fuggire, non da una tizia che era bassa, grassa e pareva agile come un gatto di marmo, ma coi pazzi non si sa mai. Sono pazzi. Forse era il cattivo presagio della lepre. Era l’unica spiegazione logica. Per un dato valore di logica, beninteso.
L’albero che la tizia aveva indicato era un normalissimo pioppo, più o meno identico a tutti gli altri che formavano quella macchia: forse un poco malaticcio, ma tutta la vegetazione sembrava un poco malaticcia. Un botanico vi avrebbe trovato chissà quanti dettagli di enorme interesse scientifico, ok. Siccome Mario Fuco non era un botanico, per lui era solo un albero e la sua unica funzione attuale era di riempirlo di quella specie di lanugine che i pioppi hanno il vizio di sparpagliare a fine aprile.
«Abiti lì dentro?» chiese, cercando di sembrare il più ragionevole possibile.
«Certo! Anche se non è proprio il termine giusto, sai. Non ci abito davvero: sono io.»
Mario Fuco sorrise e annuì. Era lei. L’albero era lei. Una sola coscia della tizia era molto più grande del tronco, ma l’albero era lei. Ok. Meglio non contraddirla: poteva essere pericoloso. O forse stava solo scherzando? Mario la guardò meglio in faccia, cercando di leggere, non so, un qualche segno o un indizio, qualcosa che suggerisse uno scherzo, una burla, roba simile. Non lo trovava. Dalla faccia di quella psicopatica usciva soltanto la più ferma convinzione. Ci credeva davvero. Aiuto.
«È un albero molto bello,» le disse. «Davvero fantastico.»
La pazza sorrise come una zucca di Halloween. «Davvero? Grazie! Lo penso anch’io, ma è sempre bello sentirselo dire da un altro. Sono così pochi ormai quelli che riescono ad accorgersi di noi...»
Ed era capitato proprio a lui. Fortunello! Mario Fuco si guardò attorno con cautela. Possibile che nei dintorni non ci fosse nessuno? Possibile. Sentiva il ronzio delle auto, ma era distante, proprio come era distante la provinciale che collegava il suo comune agli altri nei dintorni. Vedeva la ferrovia, ma era vuota e in ogni caso un treno di passaggio non gli sarebbe stato di aiuto. Era solo. Solo con una tizia più psicopatica di una vecchia gattara.
Cosa aveva fatto di male per meritarselo? Domanda sbagliata, rifacciamo. Cosa aveva fatto di male di recente per meritarselo? Niente! La faida coi babbuini ritardati del piano di sopra si era interrotta da una settimana e sì, ok, d’accordo, una volta aveva lasciato loro una sorpresina sullo zerbino, ma era uno scherzo innocente, nulla di cattivo. Paragonato a ciò che loro avevano fatto a lui, poi... No, era ovvio che non se lo meritava. Maledetta lepre portasfortuna. Arrosto, se la sarebbe fatta. E viva.
«Comunque io stavo suonando, ecco, e...» cominciò a dire, senza sapere bene dove andare a finire.
La pazza annuiva. «Sì, sì, continua pure, mi piace sentire una siringa. Una volta ce n’erano tante, le sentivi ovunque, ma oggi sono così rare qui. Suona pure, non ti disturbo.» Si sedette a terra vicino a lui, fissandolo come un cagnolino fissa il suo padrone.
Mario Fuco era a disagio era estremamente a disagio. Come fai a concentrarti a suonare, quando hai lì vicino una psicopatica che in ogni momento potrebbe diventare aggressiva? E ti fissa, che da una certa prospettiva era pure peggio. Ansia da prestazione all’ennesima potenza, anche se, beh, non era da intendere in quel senso, ci siamo capiti. Solo una cosa musicale, sia chiaro. Per carità!
Mario chiuse gli occhi, avvicinò il flauto di Pan alle labbra e pensò a cosa suonare. Aveva il cervello vuoto. Più del solito, dico. Doveva pensare a qualcosa, un brano qualunque, uno semplice! Andava bene pure, non so, Twinkle twinkle little star, anche se col flauto di Pan sarebbe stato uno schifo, di sicuro. Il suo cervello si ostinava a rimanere vuoto. Accostò le labbra alla canna del sol di quarta, si spostò sul do di quinta, rimase a oscillare incerto tra una ottava e l’altra. Aveva diciotto canne, che a volte gli erano sembrate troppo poche. Adesso erano troppe e basta. Cosa suonare?
Una musica si fece strada a poco a poco nella sua mente. Usciva forse dall’inconscio o d quello che vi pare, sgabuzzino o cantina che sia, ma era una musica, beh, magari non bellissima, magari non la più indicata, ma era una musica e tanto bastava. La sapeva anche suonare bene. Ok, passabilmente. Di solito non la stonava. L’aveva imparata alle medie col flauto dolce di plastica, dopotutto.
Sì, sarebbe andata bene. Mario Fuco respirò a fondo, accostò le labbra al do di quinta e cominciò a suonare Fratello sole, sorella luna. Con passione? Non proprio, ma sforzandosi almeno di suonarla a tempo e scandendo bene tutte le note. E senza aprire gli occhi. Se avesse visto quella pazza che lo fissava, si sarebbe bloccato di sicuro.
Si esibì e non fu proprio indimenticabile, ma andò abbastanza bene, per chi era di bocca buona. O si doveva dire di orecchio buono? Facciamo di orecchio non troppo sensibile, giusto per sicurezza.
Quando riaprì gli occhi, Mario Fuco vide che la pazza era ancora lì a fissarlo. Aveva sperato per un attimo che fosse solo una illusione molto realistica e sarebbe sparita da sola, così come era apparsa da sola. Non accadde. La pazza era lì, lo fissava e... Cosa significava quell’espressione? Mario Fuco non lo sapeva, ma l’idea di doverlo scoprire lo terrorizzava.
Quindi non lo avrebbe scoperto. Se la realtà ti spaventa, fuggi dalla realtà. Non era un buon motto, è ovvio, ma era il suo motto e finora aveva funzionato. Male, d’accordo, ma Mario era sicuro che la sua vita sarebbe andata pure peggio, se non lo avesse applicato in ogni occasione possibile. Difficile da immaginare, ma gli sembrava indiscutibilmente vero. E poi no ci voleva pensare, ecco.
Mario Fuco richiuse gli occhi e riprese a suonare. Adesso i brani gli venivano in mente, più o meno, e se non erano molto belli, beh, lui non era un gran suonatore, quindi tutto si compensava. Neppure la pazza era un granché, anzi era il genere di persona che, in gioventù, lui avrebbe catalogato come un cesso a pedali. Espressione che non aveva senso, ma che da adolescente gli era piaciuta tanto: un dettaglio che potrebbe insegnarci molte cose sul suo conto, ma non ha importanza. Suonava, questo è quanto. Suonava e fuggiva dalla realtà.
Poi la realtà lo venne a prendere e i guai cominciarono.
Fu una sensazione, più che un suono vero e proprio. Mario Fuco percepì con sensi che non avrebbe saputo indicare che la tizia si stava muovendo. Si stava alzando? Forse, può darsi. Poi udì il delicato frusciare di stoffa e qualcosa nel suo cuore si paralizzò. In senso figurato, beninteso, perché se fosse accaduto in sento letterale, allora il nostro dubbio eroe sarebbe morto sul colpo. Pure, a breve forse lo avrebbe anche potuto desiderare. Più o meno.
Mario Fuco aprì gli occhi e la pazza era in piedi davanti a lui. Si stava slacciando il vestito. Che non era proprio un vestito, era probabilmente un capo di abbigliamento che aveva un suo nome preciso, ma lui non lo conosceva e comunque al momento non era importante. Al momento era importante che il vestito (o quello che era) restasse al suo posto, e ben allacciato, grazie. Perché magari non era una ninfa, ovvio, ma poteva benissimo essere una ninfomane. E... no. Davvero.
«Cosa sta facendo?» le chiese, non perché non lo vedesse da solo, ma perché è la domanda che si fa sempre in certe occasioni. La regolarità è una cosa seria, capite.
«Ti voglio ringraziare,» disse la pazza.
«Basta un semplice grazie, ma non ce n’è bisogno, davvero.»
«Ma è un onore per un mortale come te. Non lo capisci?»
Mario Fuco non lo capiva. Capiva invece che la pazza era pazza davvero e da un momento all’altro avrebbe cercato di stuprarlo, se lui non faceva qualcosa per impedirlo. Cosa? Ora come ora non gli era molto chiaro, ma era chiaro che doveva fare qualcosa. Ora.
«Un onore, d’accordo, ma davvero non è necessario. Mi basta un semplice grazie.»
La pazza si fermò e lo fissò a lungo. Sembrava perplessa. Sembrava anche un chihuahua contuso, ma era un altro paio di maniche e probabilmente era meglio non pensarlo troppo forte. Era pazza, in fin dei conti. Non si sa mai come possono reagire i pazzi. Mario Fuco cercò di non pensarlo.
«Non mi vuoi,» disse poi la donna, aggrottando la fronte. «Non vuoi proprio niente da me? Eppure ti sono apparsa per questo, perché volevo ringraziarti dei tuoi concerti.»
«Davvero, non c’è bisogno. A posto così, sul serio. Non serve niente. È stato un piacere.»
La tizia continuò a fissarlo ancora per un poco, poi sbuffò. «Se non vuoi niente, niente avrai!» quasi gli urlò in faccia. Un attimo dopo non c’era più. Svanita.
Mario Fuco sbatté le palpebre due, tre volte. Lo spazio occupato dalla pazza era vuoto. Come se non fosse mai stata lì. Era svanita così, puff! Ma era svanita davvero? Oppure si era immaginato tutto? Il suo primo pensiero fu che la tizia fosse svanita davvero, ma non aveva senso, giusto? Doveva avere sognato tutto quanto. Sì, era proprio così. Un sogno. Un’allucinazione. Qualcosa del genere.
Un oggetto lo colpì in testa. Mario Fuco guardò verso l’alto. C’era uno scoiattolo sul ramo. Fissava nella sua direzione. Forse fissava proprio lui. Gli aveva lanciato qualcosa in testa? Ovviamente no, si era mosso e aveva fatto cadere un, non so, un rametto, roba simile. Per forza. Nella realtà certe cose non accadono, lo sanno tutti. Pure, forse era meglio andare via. Gli era passata la voglia di suonare, almeno per quel giorno.
Mario Fuco ripose il flauto di Pan nella sua custodia, se la caricò in spalla, fece due passi per uscire dalla macchia di pioppi, inciampò su qualcosa e cadde come un sacco di letame. C’era forse solo un sasso sporgente in tutta la zona, ma lui riuscì a centrarlo in pieno col mento. Si fece malissimo.
Si alzò, si passò la mano sul mento dolorante e la trovò sporca di sangue. Si era pure graffiato? No, la mano era a posto. Era il mento che sanguinava. Ottimo. Un altro oggetto lo colpì in testa. Mario Fuco si girò e vide di nuovo lo scoiattolo. Era lo stesso? Era un altro? Aveva cambiato ramo, questo sì, ma ancora lo fissava. Era inquietante. Non gli erano mai piaciuti quei mostriciattoli. Erano come minimo psicopatici. Meglio cambiare aria, dicevamo. E in fretta, grazie.
Col mento che sanguinava e un buco nel ginocchio del pantalone destro, che doveva essersi fatto un momento prima, cadendo, Mario Fuco si allontanò alla massima velocità possibile. Forse era meglio trovare un altro posto per suonare. Forse era meglio trovare anche un altro passatempo. Forse.
E mentre si affrettava verso casa, o verso il posto in cui fino a quel pomeriggio aveva abitato, non si domandò cosa potesse significare di preciso quel “niente avrai” che gli aveva gridato la pazza. Non che fosse davvero un problema: lo avrebbe scoperto molto presto, proprio come avrebbe scoperto di aver perso il portafogli e le chiavi, cadendo. E niente di tutto ciò gli sarebbe piaciuto, ma è un altro paio di maniche e in fondo è la vita.
Per valori molto negativi di vita, quantomeno.