Adriano - racconti e altro

Clop

Nell’appartamento sopra il suo abitava un cavallo. Mario Muco ne era sicuro. Dopotutto, era la sola spiegazione logica, capite. Quando senti sopra di te uno scalpitio di zoccoli, tutto il giorno e tutti i giorni, non ti resta molto altro da pensare. E Mario lo sentiva. Clop, clop, clop, avanti e indietro, a ogni ora. Ti tirava scemo. Ma non era solo questo il problema. C’era di peggio.

Gli zoccoli sono fastidiosi e lo sanno tutti. Sono la classica calzatura indossata tradizionalmente dai vicini odiosi. Sono praticamente parte del, non so, dello stereotipo. Al piano di sopra abita qualcuno di odioso? Indossa gli zoccoli, ovvio! O forse è odioso perché li indossa, ma non è questo il punto. Il punto è che quegli zoccoli non sembravano calzature, capite. Avevano qualcosa di organico, una vibrazione viva, o roba simile. A Mario Muco ricordavano un poco quello che il protagonista della storia di Lovecraft doveva avere sentito in una fattoria nel Vermont, durante la notte. Solo che lì non era il Vermont, lui non era un personaggio di Lovecraft, probabilmente, e non viveva in una fattoria. E non lo sentiva solo di notte. Lo sentiva tutto il giorno, ogni giorno. Avanti e indietro.

Sentiva anche molti altri rumori, come se quel tizio si divertisse a scagliare a terra più o meno tutto ciò che non era inchiodato al muro o al pavimento. Se era inchiodato, forse scagliava a terra anche i chiodi, a giudicare da certi frastuoni. Ma lo scalpitio era la cosa peggiore. Era odioso in un modo al di là di ogni spiegazione logica. Lo offendeva profondamente. Era... era, ecco. Clop, clop, clop.

Chi abitava lì sopra? Mario Muco non ne era sicuro. O meglio, era sicuro del cognome, perché era scritto sul citofono, anche se il testo sul citofono valeva al massimo come indizio, non come prova. Sul suo citofono, ad esempio, c’era scritto “Fuco”, ma il suo cognome reale era Muco. Non proprio un miglioramento, ma non è questo il punto. Il punto è che il nome era sbagliato. Se era sbagliato un nome come il suo, che per quanto ridicolo era comunque una normalissima parola italiana, che cosa si poteva pensare del citofono dei vicini, che sembrava una riga della tastiera? Nel dubbio, Mario li chiamava semplicemente “gli asini”, ma solo nei suoi monologhi interiori. Perché scalpitavano, non perché fossero ignoranti o altro.

Fosse come fosse, gli asini camminavano avanti e indietro tutto il giorno, clop, clop, clop. E quanti erano? Mario Muco non lo sapeva. Forse uno, forse due, forse mille. Di loro conosceva solo i passi, il rumore costante e infernale delle loro zampe sul pavimento. Lo tiravano scemo, per l’appunto. In un paio di occasioni era stato molto vicino a salire e bussare alla loro porta, per lamentarsi. Sarebbe stato il minimo, dopotutto. Ne aveva ogni diritto, capite. Solo che non lo aveva fatto.

Perché? Non ne era sicuro. In parte era il suo carattere, un poco timido e molto scontroso, tendente all’eremita malmostoso. Parlare con altre persone era sempre un’attività sgradevole per Mario, pure quando le altre perone erano suoi parenti. Soprattutto quando erano suoi parenti, in effetti, ma non è rilevante, al momento. Il punto è che trovava sgradevole dovere andare a parlare col vicino cavallo. O con gli asini, come preferite. Trovava sgradevole anche doverli sentire tutto il giorno ma, adesso, sinceramente, come si poteva svolgere un colloquio con quei tizi?

«Scusate, potreste smettere di trottare tutto il giorno?»

Oppure, «Scusate, non posso fare a meno di sentirvi scalpitare tutto il giorno.»

O anche, «Non potreste andare a galoppare in campagna, invece di marciare avanti e indietro tutto il giorno sopra la mia testa?»

Mario Muco aveva simulato nella propria mente anche altri possibili dialoghi, ma nessuno gli aveva dato l’impressione di poter funzionare. Poteva insultarli e basta, d’accordo, e gli avrebbe dato molta soddisfazione, ma difficilmente il problema si sarebbe risolto. Che poi, gli insulti, ecco, parliamone pure. Ci vuole anche il fisico giusto. Mario Muco sembrava qualcosa che è strisciato a morire in un angolo del giardino. Gli asini al piano di sopra, uno o tanti che fossero, avevano un passo pesante, e forse erano pesanti anche loro. Forse erano grossi. Come si sarebbe risolta la situazione, se lui fosse andato a insultarli? Ecco, appunto.

Però non poteva continuare così. Qualcuno doveva fare qualcosa. Siccome gli asini non si volevano decidere a fargli un enorme favore crepando all’improvviso tutti assieme (ammesso che siano tanti e non uno solo), il nostro Mario non sapeva proprio cosa inventarsi. Doveva fare qualcosa, ovvio, ma cosa? A parte sbuffare in solitudine, ecco.

Ci pensava anche quella sera, mentre sopra di lui continuava il solito concerto. Clop, clop, clop, una musica che proseguiva ininterrotta dal primo pomeriggio e ancora non aveva accennato a cambiare il ritmo. Sarebbe stato ancora meglio se si fosse fermata, ovvio, ma non si può pretendere troppo da una fortuna che non hai mai avuto. Mario Muco si sarebbe accontentato di un cambiamento, intanto, e magari, chissà, sarebbe anche potuto accadere qualcosa, no? Sperare è lecito. Raramente serve, se vuoi cambiare la realtà, ma è comunque lecito.

Clop, clop, clop, sopra di lui. Mario chiuse il libro che stava cercando di leggere da quasi un’ora. In tutto quel tempo aveva sfogliato due pagine e ne aveva capito una parola al massimo. Non perché il libro fosse noioso o difficile, per carità. Era interessante. Era un libro che voleva leggere. È vero, in molti lo avrebbero forse trovato noioso, perché le speculazioni sull’impatto che l’antico popolo scita aveva avuto sulle civiltà dell’Eurasia possono non essere adatte a tutti i palati, ma a lui piaceva. Era il maledetto suono a non piacergli. Quello al piano di sopra.

Clop, clop, clop. Sì, quel suono, per l’appunto. D’accordo, poteva anche essere intonato, quando si parlava di sciti, ma era fastidioso lo stesso. Era fastidioso perché lo distraeva. Era fastidioso perché odiava quel particolare tipo di rumore e detestava gli asini che lo producevano in continuazione. Lo avreste fatto anche voi, se vi avessero costretto a sentirlo tutto il giorno, tutti i giorni, senza tregua. Mario Muco ne era convinto. Era anche convinto che non poteva andare avanti così.

Aveva tentato col solito, vecchio sistema della scopa picchiata contro il soffitto, ma non era servito a niente. Forse gli asini non lo avevano neppure sentito, con tutto il rumore che facevano. Eppure la tradizione lo considerava un buon metodo per comunicare ai tizi del piano di sopra che quel rumore ti infastidiva. Nella realtà, però, non funzionava. Nella sua realtà, quantomeno. E dunque?

Mario Muco sospirò. Quanto doveva essere subnormale una persona per scalpitare avanti e indietro tutto il giorno, come un cavallo lobotomizzato? Se lo era domandato già più volte, ma la risposta lo eludeva. Si può essere maleducati, ovvio, e si può essere stronzi, ma ci sono dei limiti, no? Almeno su un piano fisico, se non su quello morale. I vicini del piano di sopra sembravano non possederli.

Clop, clop, clop. E poi clop, clop, clop. E ancora clop, clop, clop.

Mario Muco scattò in piedi, pugni stretti e labbra compresse. Non ne poteva più. Non ne poteva più. Adesso avrebbe fatto qualcosa. Era il momento. Non si poteva continuare così.

Clop, clop, CLOP!!

Qualcosa si ruppe dentro la sua testa. Qualcosa di figurato, forse, ma non ne sono così sicuro. Non si sa mai, in certi casi. Chi può davvero conoscere cosa ci sia dentro un mariomuco normale? Non io, almeno. Forse neppure Mario Muco. Ma qualcosa accadde dentro di lui. Ed eruttò.

Clop, clop, clop. Mario afferrò il primo oggetto che gli capitò sotto mano, senza neppure guardare. Clop, clop, clop. Si avviò verso la porta con un passo e uno sguardo che sarebbero stati allarmanti, e parecchio, se si fossero manifestati su una persona che aveva almeno dieci centimetri e trenta chili in più. Mario non li aveva, ma era inquietante lo stesso. Forse ancora più inquietante per questo.

Clop, clop, clop. Spalancò la porta, uscì e chiuse sbattendo, come non aveva mai fatto in tutta la sua vita. Non volontariamente, quantomeno. Gli era capitato un paio di volte, d’accordo, ma solo perché il vento gli aveva fatto scappare di mano la maniglia, oppure c’era stato un altro imprevisto simile. Stavolta invece l’aveva sbattuta volontariamente. Perché non ne poteva più, capite?

Salì le scale due gradini per volta, nonostante la fatica. Non pensava alla sua scadente forma fisica. Pensava solo a una cosa: a far smettere quel maledetto suono, quel clop, clop, clop. Non che lì sulle scale lo sentisse, non esattamente, ma lo sentiva ancora. Lo sentiva dentro. O forse era solo il battito del suo cuore, sottoposto a uno sforzo fisico inconsueto, ma per lui era lo scalpitio di quel maledetto vicino e continuava, come continuava ogni giorno. Clop, clop, clop. Da tirarti scemo, davvero.

Arrivò di fronte alla porta e si fermò a riprendere fiato, la mente ancora invasa dalla rabbia. In altre circostanze si sarebbe forse calmato, perché Mario Muco era aggressivo come una ciambella, ma in quelle circostanze era impossibile. Perché lo sentiva. Clop, clop, clop. Attraverso la porta chiusa, lo sentiva come se fosse, beh, ok, come se fosse proprio sopra la sua testa. Clop, clop, clop. Che razza di bestia era quel vicino maledetto? Non poteva stare fermo per un momento, come ogni altra forma di vita senziente? Doveva continuare a scalpitare tutto il giorno, ancora e ancora e ancora?

Clop, clop, clop.

Mario Muco non ci vide più. Metaforicamente. Stringendo forte l’oggetto che aveva afferrato prima di uscire di casa e che ancora non aveva guardato, suonò il campanello una, due, tre volte, con tutto il vigore di un venditore di polizze assicurative colto da un improvviso attacco di diarrea. Adesso lo avrebbe visto in faccia, quel vicino maledetto. Adesso lo avrebbe visto in faccia e gli avrebbe detto di tutto. Non poteva continuare così! Non poteva!!!

Clop, clop, clop.

Mario Muco suonò per la quarta volta, uno squillo che durò per ventinove secondi esatti. Clop, clop, clop! Il passo del vicino si fermò davanti alla porta. Lo separava solo un sottile strato di legno, che avresti potuto sfondare con un calcio ben assestato. Se tu avessi avuto un fisico normale, ovvio. Con la massa muscolare di Mario, forse ti saresti solo slogato una caviglia. Ma non ha importanza. Non ci fu bisogno di sfondare alcunché. La porta si aprì e il vicino apparve.

Mario Muco desiderò improvvisamente essere altrove. Dovunque. La sua sacra ira scorse via come un imbarazzante momento di incontinenza pubblica. Quello che vedeva non era possibile. Eppure lo vedeva. Dunque era possibile. Peggio, era reale. Era lì davanti a lui.

Aveva senso, da un certo punto di vista. Da un altro punto di vista, non ne aveva proprio. Ci aveva a modo suo scherzato, Mario. Cavallo, asino, altro ancora. Perché scalpitava tutto il giorno, capite. Il suo passo non sembrava umano, capite. Era un suono da zoccoli, capite. E in effetti era così.

Assomigliava a un centauro, grossomodo, ma venuto molto male. La parte inferiore del corpo era da pony deperito e rognoso, non più grande di un cane di taglia medio-grossa, diciamo forse un pastore tedesco. Era ricoperta da una peluria che sembrava un tappetino da bagno consumato da anni e anni di uso, senza mai essere stato lavato. La parte inferiore era umana, o almeno umanoide. Non proprio il genere di umano che avresti voluto come amico, non se c’era il rischio di essere visti in pubblico, quantomeno. Era gobbo, aveva una pancia sporgente e pelosa, braccia lunghe e sottili, mani con sei dita, due delle quali erano pollici, un collo quasi assente e una testa sproporzionatamente grossa, da cui sporgevano orecchie da somaro. Con orecchini. O forse erano piercing? Vallo a sapere.

La faccia era una luna piena. Tonda, pallida, butterata, vuota. Una specie di pizzetto pubico segnava il punto in cui si trovava la bocca. Gli occhi erano distanti tra loro almeno quattro dita, forse di più. Aveva tutta l’espressività di uno scarafaggio ipnotizzato. Le sue sopracciglia erano due millepiedi in uno strano tipo di lotta, o forse di accoppiamento. Mario Muco non aveva idea di come facessero ad accoppiarsi i millepiedi. Se assomigliava al modo in cui si intrecciavano le sopracciglia del vicino, però, era qualcosa che avrebbe disgustato anche una mosca.

E puzzava. Qualunque cosa fosse, puzzava tantissimo, più di un cumulo di carogne che ha trascorso una estate padana a rosolarsi sotto il sole. Puzzava come qualcosa che non ha mai visto il sapone in tutta la sua vita. Puzzava come qualcosa che non era neppure vivo. C’erano cose che si agitavano e si contorcevano sul suo corpo. Cose piccole. Parassiti? Forse. Gli chiazzavano la pelle esposta, alla maniera dei granelli di cioccolato su certi biscotti o dolcetti. Ma non erano cioccolato. Erano troppo vivi per essere cioccolato. Qualunque cosa fosse, aveva un fascino ributtante, quell’apparizione.

Non poteva essere umano. Non poteva essere reale. Doveva esserci una spiegazione logica.

Mario Muco era rimasto senza parole. Letteralmente. Aveva anche la testa vuota, come una lavagna appena pulita dal bidello. Non si leggeva più alcuna traccia di ciò che avrebbe voluto dire. Il rumore di cui si voleva lamentare, la sacra indignazione che lo aveva trascinato lì, la rabbia, il resto: svanito tutto, con uno schiocco di dita. Restava solo la figura orribile che aveva davanti. Il vicino del piano di sopra. Grossomodo.

E adesso lui?

Il vicino non parlava. Restava lì a fissarlo, immobile, inespressivo. Il solo segno di vita veniva dalla sua coda, che oscillava con un ritmo da tergicristallo prossimo alla morte. Anche i parassiti sul suo corpo erano vitali, d’accordo, ma quelli non contano. Mario Muco deglutì, trattenendo il vomito.

Seriamente: e adesso lui?

Aprì la bocca. La chiuse. La riaprì. La richiuse. Un pensiero improvviso lo spinse a guardare verso il basso, l’oggetto che aveva afferrato alla cieca e portato con sé. Poteva essere utile? Forse, non so, una Bibbia, per scacciare l’orrenda figura che aveva di fronte? Un’arma? Altro ancora?

Altro ancora. Mario Muco scoprì con un gemito di dover affrontare il suo vicino mostruoso armato solo di una bottiglietta di acqua minerale naturale, vuota per metà, con tappo fissato come da norma europea. E adesso lui?

«Buonasera,» bofonchiò tra labbra che sembravano colte da rigor mortis.

Il vicino non cambiò espressione e non rispose, ma sorrise. O almeno aprì la bocca, mostrando una tagliola di zanne storte e giallastre, avvolte da un alone olfattivo da fogna intasata. Ah, ecco. Non un miglioramento, ma... ma. E adesso lui?

Timidamente, Mario Muco offrì la bottiglietta al vicino. Il vicino neppure la guardò. Fece un passo in avanti. CLOP!

Poi accadde ciò che tutti si aspettano in questi casi.

di Adriano Marchetti