La galassia di Madre - 53
La conferenza era stata un successo, proprio come si era aspettato lui e come qualsiasi persona di buon senso si sarebbe dovuta aspettare, considerato quello che era in gioco e considerati chi fossero i giocatori che se lo giocavano. Non era rimasto un solo posto libero nell’auditorium che il governo aveva graziosamente concesso loro, proprio nel centro civico di Guan Yu, capitale amministrativa di Svarga. Qualunque università o centro di ricerca avrebbe dovuto presentare una regolare richiesta di prenotazione con almeno undici mesi di anticipo per avere in concessione uno spazio simile, senza garanzie di una risposta positiva. In circostanze normali, beninteso. La conferenza del professore Muzafar Chang, però, non era una circostanza normale.
Parlare di fronte a un pubblico così vasto era una grande soddisfazione, certo, ma il pubblico fisico costituiva soltanto una minima, infima parte del pubblico reale, sebbene fosse anche la parte più gratificante nell’immediato, per il relatore. Università e privati di tutto il pianeta avevano seguito sugli schermi la conferenza, alcuni per interesse reale verso l’argomento, molti di più per interesse ottriato, magicamente piovuto su di loro dai famigerati “piani alti”, che presumibilmente non erano gli attici dei condomini. Prometteva di essere l’evento con più spettatori dal tempo dei Trattati con la Terra, oltre mezzo secolo prima, e il governo di Svarga manteneva sempre le promesse, quando aveva interesse a mantenerle.
E quanti ne avrebbero seguito la registrazione, sugli altri mondi coloniali? Difficile dirlo, ma certo lo avrebbero fatto università e centri di studio, oltre a chiunque avesse provato una qualche curiosità verso le tante stranezze e anomalie di Madre, che la Terra aveva sempre tenuto per sé. Sempre fino a quel punto, ma non sempre in futuro. Come aveva sorriso un rappresentante del ministero degli esteri svarghiano, il tempo dei segreti totali era finito, almeno per gli altri. Perché qualcosa adesso era uscito, era sotto agli occhi di tutti. Lo era già o lo sarebbe stato, non appena le registrazioni della conferenza avessero raggiunto gli altri mondi, attraversando gli anni luce che li separavano. E il primo a essere raggiunto sarebbe stato la Terra, il caro vicino. Chissà come l’avrebbe presa il loro Ufficio per la Colonizzazione? Il succitato rappresentante del ministero degli esteri aveva sorriso di nuovo, senza rispondere. Non ce n’era bisogno.
Muzafar Chang non ci pensava. Aveva altro per la testa, al momento. Aveva soprattutto un discreto quantitativo di alcool per la testa, pregiato omaggio dei troppi brindisi, delle troppe congratulazioni, dei troppi festeggiamenti, del troppo tutto. Perché era la stella del momento, Muzafar. Il prodigio del momento, l’orgoglio di Svarga, il genio che avrebbe rivoluzionato l’astrofisica, la planetologia e forse, chissà, anche la biologia. Avrebbe rivoluzionato di sicuro la politica interplanetaria, almeno in modo indiretto, ma questo non lo sapeva e non gli interessava. In effetti, la sola cosa che davvero gli interessasse, una volta rimasto solo nella suite a lui riservata, era di raggiungere il bagno prima di vomitarsi sui piedi o su altre porzioni della propria anatomia,
Ci riuscì, ma il risultato della gara rimase incerto fino all’ultimo minuto, perché la tazza era chiusa e infiocchettata con la maniacale precisione che il personale degli alberghi svarghiani, per ragioni che Muzafar non si sentiva in vena di indagare, dedicava sempre alle aree riservate all’espletamento di funzioni fisiologiche basilari per il corretto funzionamento di un organismo. Vomitò a lungo, con la testa che girava e il cervello che pareva leggero, un cuscino imbottito di melassa che qualcuno gli aveva infilato nel cranio, magari per fargli unno scherzo, ahah che ridere. Quel cervello che negli ultimi giorni aveva dovuto sopportare pressioni come è raro trovarne fuori dal nucleo di un pianeta: magari uno dei giganti gassosi di Madre, di cui aveva appena parlato.
Dopo quasi dieci minuti si sentì stabile a sufficienza da abbandonare la posizione di supplicante che aveva assunto davanti alla tazza, anche se le gambe rimanevano ancora troppo molli per i suoi gusti. Ma il peggio era passato, sì. Si era liberato di una parte dell’alcool e il peggio era passato. O così gli sarebbe piaciuto poter credere. Perché il peggio non era passato. Il peggio era ancora lì, nello stesso punto, e non sarebbe bastata qualche vomitata per liberarsene. Magari fosse bastata.
Si sciacquò la faccia con acqua fredda, quasi gelida. Il largo specchio sopra il lavandino cercava di inviargli l’immagine di un viso stanco, fornito di occhiaie che qualcuno nella galassia avrebbe forse potuto descrivere come “damascate”, ma che a lui sembravano soltanto grosse, violacee e brutte. E vecchie. Soprattutto vecchie. Ma non era giusto che un quarantenne avesse occhiaie così vecchie, soprattutto non nel giorno del suo trionfo personale. Peccato che non fosse proprio suo, il trionfo.
Gli occhi nella sua faccia evitavano di incrociare gli occhi nello specchio. Il che era comprensibile. Erano occhi stanchi, i suoi, nonché malandati. Occhi che avrebbero avuto presto bisogno di nuove correzioni, se proprio continuava a insistere per non farli sostituire. Se lo sarebbe potuto permettere, adesso. Se ne sarebbe potute permette mille di operazioni, anche estetiche, anche inutili. Il governo di Svarga sapeva essere molto generoso quando voleva, soprattutto coi servitori obbedienti.
Muzafar Chang sospirò. Sì, li avrebbe anche potuto sostituire, adesso. Quegli occhi erano il solo ricordo concreto che gli restasse di sua madre, che i prodigi della genetica avevano riprodotto uguali in lui, ma al momento non se ne sentiva molto fiero. Non si sentiva fiero di niente. Sua madre non avrebbe approvato la conferenza, ma sua madre non poteva capire certe cose. Non poteva capire il mondo in cui lui viveva, né le correnti abissali che lo agitavano. Lui era soltanto un relitto trascinato da quelle correnti, no? Era toccato a lui, come poteva toccare a mille altri. A milioni di altri. E non aveva fatto nulla di male, di sbagliato. Nulla di opinabile.
Pure, preferiva non guardarsi negli occhi, davanti allo specchio.
Quando uscì dal bagno, trovò ad attenderlo almeno una quindicina di messaggi di congratulazioni, inviati da Tizio, Caio, Sempronio, questo e quello. Li ignorò, sfilandosi lentamente l’abito di gala, che per miracolo aveva evitato ogni schizzo gastrico, e si lasciò cadere sul letto, occhi chiuso, mano sulla fronte, pancetta in rilievo e un poco basculante. Che serata! E che giornata! Per tacere di tutto ciò che era successo prima, la catena di eventi più o meno spiacevoli che lo aveva condotto lì, sul palco dell’auditorium, ad annunciare urbi et orbi la scoperta delle strutture organiche al centro dei giganti gassosi di Madre. La sua scoperta, come il professor Hu Chen aveva tenuto a sottolineare più e più volte, sia introducendo la serata, sia poi negli interventi durante la conferenza stessa. La sua scoperta. La sua rivoluzionaria scoperta. Che ridere. Con che faccia avrebbe potuto affrontare di nuovo il giovane Stratos, alla sede della fondazione?
Non lo avrebbe affrontato, semplice. Perché alla fondazione non sarebbe tornato, almeno a breve: lo attendevano viaggi in tutti gli altri mondi coloniali, un ciclo di conferenze che sarebbe stata quasi una gara per vedere chi si sarebbe esaurito prima, lui o le tappe. Avrebbe dovuto ripetere lo stesso discorso ancora, e ancora, e ancora. Avrebbe dovuto illustrare il modello realizzato da Stratos, in cui le strutture organiche erano simulate nel modo più realistico possibile, sulla base dei dati che loro possedevano. Avrebbe dovuto presentare i dati stessi, uniti alle loro rielaborazioni, per trasformarli da materiale grezzo a informazione. Avrebbe dovuto esporre ipotesi, proposte di studio, direzioni in cui la ricerca sarebbe dovuta proseguire, per rispondere alle troppe domande ancora inevase.
Avrebbe dovuto, avrebbe dovuto, avrebbe dovuto. Lo voleva Chen, lo voleva il governo, lo voleva il Bene della Scienza, mostro metafisico, metà dio e metà diavolo, che sempre si invocava come la suprema giustificazione per tutto, idolo a cui ogni cosa doveva essere offerta in olocausto, incluso il rispetto di sé. Ma anche quello era un idolo di cartapesta, adesso: un burattino con cui il governo di Svarga si divertiva a praticare un fisting estremo, su fino al gomito, per manovrarlo e farlo parlare come più conveniva, farlo annuire e ballare. Perché non era più una questione scientifica, e Muzafar lo sapeva. Era una questione politica, una sfida tra pianeti, nuovo capitolo della gara di sputi tra i due vicini, Svarga e Terra, che come tutti i vicini si odiavano non cordialmente.
I giganti gassosi di Madre erano un semplice casus belli, almeno per quanto ne sapeva lui. La prima volta che aveva parlato con Chen della ricerca di Stratos, il terrestre a cui doveva fare da tutore e che come lui si era interessato a quei pianeti, Chen aveva risposto con un entusiasmo più cordiale che reale, quel genere di interesse che ogni professore finge di provare quando uno studente arriva a sottoporgli la propria idea per la tesi. Tutto si sarebbe dovuto concludere lì, secondo Muzafar, come sempre si concludeva. I ricercatori dovevano sempre notificare a Chen gli studi a cui decidevano di dedicarsi e Chen forniva poi la propria approvazione, che di solito era un blando «Fai pure,» e tanti saluti. Routine, un rituale a cui tutti si sottoponevano placidamente.
Solo che poi Chen lo aveva convocato di nuovo, quasi un mese dopo, e gli aveva raccomandato di aggiornarlo regolarmente sui progressi della ricerca. A Muzafar era sembrato un buon segno. Se il capo era così interessato, allora stavano lavorando davvero a qualcosa di importante. Non che ne avesse mai dubitato davvero. Secondo il suo modesto parere, i giganti gassosi di Madre costituivano un’anomalia molto interessante per qualsiasi planetologo, ma il suo modesto parere raramente si era dimostrato condiviso da altre forme di vita diverse da lui stesso.
Tutto aveva cominciato a peggiorare quando gli avevano chiesto di ritardare il completamento della ricerca. Perché era in corso una discussione, si stavano confrontando ipotesi, si pianificavano varie proposte di azione, corredate dalle reazioni che quelle azioni avrebbero realisticamente provocato. E l’incertezza su chi fosse di preciso a discutere, ipotizzare e pianificare, incertezza che le parole di Hu Chen avevano amplificato più che nascondere, era stato il primo, brutto segno per Muzafar, reso ancora più brutto dal comportamento dello stesso Chen. Non aveva saputo nascondere, oppure non lo aveva voluto? Incapacità a mentire, oppure disinteresse verso l’eventualità che una sua menzogna fosse stata scoperta? Muzafar Chang aveva sempre stimato il professor Hu Chen, ma adesso...
Ma adesso era tardi. Aveva obbedito, aveva aggiunto di tanto in tanto qualche errore nei calcoli, per rallentare quello Stratos che sembrava voler filare come un raggio di luce, aveva inoltrato regolari rapporti a Chen, il quale doveva poi averli girati a chissà chi (ma un sospetto Muzafar lo aveva, ben sepolto da qualche parte nel suo cervello), aveva eseguito ogni ordine, signorsì comandi. Senza mai pensare di rubare la ricerca al collega più giovane, questo no. Un tutore che ruba una ricerca storica al giovane ricercatore affidato alle sue cure... No, peggio che miserabile. Un individuo del genere era peggio di uno scarafaggio appestato, secondo il suo modesto parere.
Sdraiato sul letto a due piazze della suite di un albergo al centro di Guan Yu, Muzafar Chan doveva adesso contemplare la possibilità concreta di essere inferiore a uno scarafaggio appestato. Ma non era colpa sua! Non lo aveva voluto lui! Sarebbe toccato a Stratos comparire alla conferenza, parlare della scoperta, presentare il modello, scolarsi bicchieri su bicchieri dei vini più costosi, circondato da gente a lui ignota, che parlava e parlava, gli stringeva la mano, sorrideva, rideva, gli rifilava altri bicchieri, un brindisi alla salute! Sarebbe toccato a Stratos, non a lui. Solo che.
Solo che era arrivato il messaggio dalla Terra. Quello di Leonardi, il vecchio dottor Leonardi, che ce ne volevano mille di paletti nel cuore per fermarlo, e forse non sarebbero bastati ancora. La ricerca non dovrà essere pubblicata. Istituiremo un gruppo per indagare sulla ipotesi di Stratos, verificare se sia fondata, scoprire tutto quello che c’è da scoprire e alla fine, soltanto alla fine, presenteremo al pubblico i risultati. Forse. Eventualmente. Se così vorrò. A Stratos non era piaciuto, al professor Hu Chen molto di più. Perché c’era stato anche un altro messaggio dalla Terra, proveniente dal ministro della Difesa (perché il ministro della Difesa? Muzafar non lo aveva capito, ma Chen sì. O lo aveva capito qualcuno più in alto di Chen), e quel messaggio raccomandava di pubblicare la ricerca.
Muzafar ricordava il successivo incontro col professor Chen. Ricordava come avesse sorriso, come si fosse fregato le mani. Alto alto e secco secco, pareva una mantide lui stesso, una di quelle che si vedevano girare per le strade, tutte allineate e precise, come studenti in gita. Quelle che non erano proprio mantidi, ma erano chiamate così per comodità. «La ricerca sarà pubblicata,» aveva detto Hu Chen. «E se non ci penserà il ragazzo terrestre, ci penserà qualcun altro. Tieniti pronto, Muzafar: ci aspettiamo grandi cose da te.»
Il plurale lo aveva disturbato, ma neppure quella volta aveva chiesto qualcosa. Era spesso meglio non chiedere, quando si saliva troppo. Su in alto, tra le cime della società umana, l’aria era rarefatta, scarso l’ossigeno e frequenti gli incidenti. Per chi si arrampicava senza bombole, almeno. Muzafar le bombole non le aveva, ma sapeva trattenere il fiato. E per trattenere il fiato devi tenere la bocca chiusa. L’aria ti sfugge, se la apri.
Erano passati giorni, giorni in cui aveva visto poco Stratos e ancora meno aveva visto Chen. Giorni in cui lui aveva continuato a lavorare alla presentazione, al discorso, ai dati da riordinare, modelli da sistemare nella corretta sequenza. Il professor Chen era sicuro che la conferenza ci sarebbe stata, anche se restava da vedere chi ne sarebbe stato il protagonista. Nel dubbio, Muzafar aveva lavorato, per qualcuno che magari poteva anche essere lui stesso. Era meglio tenersi occupati, in quei casi. Si pensava di meno e pensare troppo poteva essere nocivo alla salute.
Aveva riflettuto, anche, e le riflessioni non gli erano piaciute molto. Soprattutto, non gli era piaciuto ciò che le riflessioni gli avevano insegnato su se stesso. Perché aveva scoperto di aver voglia, sotto sotto, di prendersi il merito al posto di Stratos. Non era un pensiero nobile, non era un pensiero che sua madre avrebbe approvato, ma era un pensiero reale. Realistico, forse. Stratos aveva scoperto le strutture organiche nel nucleo dei due giganti gassosi, ma le aveva potute scoprire soltanto perché terrestre, soltanto perché lavorava all’Ufficio per la Colonizzazione, soltanto perché Madre era una colonia della Terra e i terrestri avevano diritto a un posto privilegiato per studiarla, ancora di più se appartenevano all’Ufficio.
Muzafar studiava quei giganti da almeno dieci anni. Li studiava lì, alla fondazione Chen-Cohimbra, e non aveva mai ottenuto il permesso di entrare nel sistema solare di Madre. Non solo: non aveva mai ottenuto i dati migliori, più precisi, quelli di cui disponeva soltanto la Terra, o più precisamente soltanto l’Ufficio. Perché sarebbero serviti dati e immagini ottenuti da vicino, per poter analizzare con cura la struttura interna dei giganti, ma quei dati non glieli avevano mai concessi.
A Stratos sì. Perché era terrestre, perché lavorava all’Ufficio, perché. Stratos aveva avuto tutto ciò che gli serviva, come materia grezza, e poi era venuto su Svarga, alla fondazione Chen-Cohimbra, a ottenere anche quello che gli mancava. Filtri più accurati, ultimo modello. Lo avevano inviato su Svarga, per permettergli di continuare e completare la propria ricerca, e lo avevano fatto le stesse autorità terrestri, che avevano sempre negato a lui la possibilità di concludere la propria ricerca. Sì, Stratos era stato bravo, ma era stato anche privilegiato. A Muzafar non era piaciuto.
Ma non era un buon motivo per rubargli i risultati.
Giusto. Solo che poi il professor Chen lo aveva convocato, gli aveva spiegato la situazione, Stratos aveva deciso di non pubblicare la ricerca e... Non gliela aveva proprio rubata. Non davvero. Non in quei termini. Era stato solo vittima delle circostanze. Perché Hu Chen aveva deciso che la ricerca doveva essere pubblicate comunque e qualcuno l’avrebbe presentata come propria. Qualcuno. Uno qualunque dei membri della fondazione, se necessario. E quello sarebbe stato ancora più ingiusto, no? In fondo erano stati lui e Stratos a lavorarci, no? Loro due. Assieme. Per più di sei mesi. E se il giovane Stratos aveva deciso di tirarsi indietro, ed era stato deciso (era stato deciso! Lo scaricabarile del passivo) che qualcuno avrebbe comunque dovuto presentare la ricerca... Beh, meglio che fosse lui, no? Lui Muzafar. Uno che ci ave a lavorato per mesi. Uno che aveva collaborato.
A mezzogiorno si era svolta la conferenza, nell’auditorium del centro civico di Guan Yu. Muzafar Chang, tirato a lucido come raramente gli era capitato in quarant’anni di vita, aveva annunciato al mondo (e in differita ai mondi) la scoperta delle strutture organiche nel nucleo di giganti gassosi nel sistema solare di Madre. Lo avevano applaudito. Lui aveva cominciato a spiegare uno dopo l’altro i modelli delle strutture. Lo avevano applaudito. Aveva mostrato le raccolte di dati, da lui convertiti in informazione digeribile anche da persone non troppo addette ai lavori. Lo avevano applaudito. Si era preso il merito di tutto, come solo e unico scopritore. Lo avevano applaudito.
Ma adesso era solo, in una suite di albergo. Aveva bevuto troppo, aveva passato una giornata con la testa ad altezze a cui il suo organismo non era abituato. Bogdan Stratos non lo aveva visto e forse non lo avrebbe visto più. Una pletora di conferenze sui vari mondi coloniali lo attendeva, sgranata nel suo futuro come la catena più solida attorno al collo. Conferenze in cui avrebbe ripetuto le stesse cose, risposto alle stesse domande, mostrato gli stessi modelli, gli stessi dati. Conferenze in cui si sarebbe preso un merito che possedeva solo in parte (a volere essere generosi). E avrebbe ricevuto applausi. Complimenti. Congratulazioni. Premi. Titoli. Onore e gloria. Eccetera eccetera.
Muzafar Chang doveva vomitare di nuovo.
Al ritorno dal bagno, dopo una doccia lunga e a tratti fredda, il mondo aveva smesso di sbandare ed era tornato dentro i propri confini. Più o meno. Se non fissava troppo a lungo i suddetti confini. Se invece lo faceva, i colori cominciavano a sbavare, a uscire dalle righe, a mischiarsi ai colori vicini e creare effetti cromatici di spregevole fattura. Non aveva fatto una bella cosa, ma era la sola cosa che potesse fare. Era così. Inutile girarci ancora attorno. Aveva agito male, ma lo avevano costretto. Non era colpa sua. E poi, un giorno, tutto si sarebbe sicuramente aggiustato, la verità sarebbe emersa e anche Stratos avrebbe ottenuto una parte dei meriti.
Sì. Senza dubbio. Non poteva che andare così. Svarga-kamo yajeta, come amavano ripetere i vecchi del posto. Svarga-kamo yajeta, come affermava anche il motto del pianeta stesso. Se vuoi attingere lo svarga, devi sacrificare. Se vuoi entrare in paradiso, l’antico paradiso vedico di millenni ormai dimenticati, devi sacrificare. Muzafar aveva sacrificato, anche se non del tutto spontaneamente. Ora lo attendeva il paradiso accademico. Da un certo punto di vista, se lo era meritato.
Nella notte poco buia di Guan Yu, capitale amministrativa di Svarga, Muzafar Chang si sdraiò sul letto, incrociò le mani dietro la nuca e rimase a fissare l’oscurità artificiale della suite. Prima o poi si sarebbe anche addormentato. Prima o poi quella giornata sarebbe finita. E a ciò che sarebbe venuto dopo, nel bene o nel male, avrebbe pensato dopo. Se proprio era necessario pensarci.
Anna Lindtner sedeva in un locale di Guan Yu, un bicchiere mezzo pieno davanti a lei, una risata amara soffocata tra i denti, una manciata di pensieri sgradevoli nella testa. Accanto a lei sedeva un uomo che aveva all’incirca la sua stessa età, un bicchiere ancora pieno davanti, l’espressione di chi vorrebbe dire qualcosa per rasserenare l’ambiente, ma non ha idea di cosa dire, da dove partire e ha il vago timore che una parola, una qualsiasi parola, potrebbe costargli una separazione violenta e dolorosa da almeno due dei suoi denti incisivi superiori.
Era notte. Avevano assistito entrambi alla conferenza di Muzafar Chang, la presentazione della sua grande scoperta, rivoluzionaria, sulle strutture organiche nel nucleo dei giganti gassosi nel sistema solare di Madre. Avevano assistito di persona, nell’auditorium del centro civico, grazie ai posti che la fondazione Chen-Cohmiba aveva messo a disposizione di chi fosse interessato tra i suoi membri e dipendenti. Posti invidiabili, giusto accanto alle porte dei bagni, nel punto più nascosto della sala e con una vista sul palco praticamente nulla. Se si fossero portati anche secchio e scopa, qualcuno li avrebbe forse scambiati per custodi vecchia maniera.
Anna aveva parlato abbastanza, prima dell’inizio della conferenza, con un’allegria che sfociava nel sarcasmo. Ma complimenti a Muzafar, il grande scopritore, e chissà come lo avranno apprezzato i suoi collaboratori, e il dottor Leonardi starà sicuramente saltando di gioia, e chissà come mai non hanno invitato anche il professor Vihersalo, ed è proprio un risultato che darà lustro alla fondazione tutta, dimostrando alla galassia quanto siano seri e competenti i suoi ricercatori, e poi e poi. Fung Mei aveva ascoltato a testa bassa, cercando di tanto in tanto di dire qualcosa, ma rifugiandosi alla fine in un più sano e diplomatico silenzio. Anche perché non è che ci fosse molto da dire.
«Comunque dovresti sapere anche tu che sono cose che succedono piuttosto spesso,» aveva detto in un impeto di coraggio, quando sembrava che il malumore di Anna fosse temporaneamente in fase di bassa marea. «Il tuo amico non è il primo e non sarà certo l’unico a cui un tutore, un relatore o un superiore in genere ha rubato la ricerca, pubblicandola a proprio nome.»
Anna Lindtner lo aveva fissato a lungo, prima di rispondere. «Tu non hai ancora capito quale sia il vero problema, giusto? Ma no, ovvio: tu la vedi da fuori, la situazione, e per te è il solito caso di un ricercatore che ruba la scoperta a un altro ricercatore di grado inferiore al suo.»
«Perché, non è così?»
«No.» E quel no aveva chiuso la discussione, per il momento. Anna non aveva voglia di litigare e non aveva ancora deciso se fosse saggio spiegare. Non aveva ancora deciso quanto fosse saggio dire sulla questione, specie a un altro svarghiano. Si fidava moderatamente di Fung, nei mesi da quando si erano conosciuti non le aveva dato alcuna ragione per considerarlo una lingua biforcuta, oppure un uomo double-face, ma la fiducia personale era una cosa e la cautela un’altra. Soprattutto quando si trattava di cautela professionale, come nel suo caso.
Anna Lindtner sapeva di essere una planetologa normale, né troppo brava né troppo scadente: nella media, destinata in circostanze normali a una carriera incolore, nella pancia dell’Ufficio, senza mai trovarsi sotto i riflettori, ma neppure dentro a un cassonetto. Vihersalo non l’avrebbe mai scelta per una specializzazione su Svarga, se non fosse stato per Bogdan e la sua scoperta. Ma per lei non era un problema. Una carriera normale le piaceva, le piaceva una vita tranquilla, non era ambiziosa e ci avrebbe messo volentieri la firma per passare il resto della propria esistenza all’Ufficio, a condurre studi che nessuno avrebbe mai guardato, divertirsi moderatamente coi colleghi, tirare a campare fino alla età per la pensione. Una vita normale, come miliardi di altre vite.
Poi nel suo reparto era arrivato Bogdan Stratos, fresco di università. Aveva scoperto un’anomalia nei giganti gassosi di Madre (o sospettava di, ma per gente come Bogdan esistono solo le certezze, quando riguardano il proprio lavoro), aveva litigato con Vihersalo, il capo planetologo all’Ufficio, si era fatto notare in un qualche modo ignoto dal ministro della Difesa, aveva ottenuto in modo ancora più ignoto di essere spedito su Svarga a continuare le proprie ricerche e aveva più o meno stravolto tutto il reparto di planetologia, come un ciclone o un peto particolarmente ributtante.
Così era arrivato il giorno in cui Vihersalo l’aveva convocata, le aveva chiesto cortesemente notizie sulle sue ricerche, aveva ascoltato mentre lei gli spiegava le ipotesi sulla formazione dei pianeti rocciosi che stava al momento indagando, aveva sorriso e annuito come se gli interessasse davvero, si era comportato più o meno come una persona comprensiva e gentile, quasi elegante, nonostante la pettinatura che la costringeva a grandi sforzi per mantenersi seria. Alla fine, la bomba.
«Cosa ne direbbe di un soggiorno di studi su Svarga, presso la fondazione Chen-Cohimbra?» aveva chiesto Vihersalo, fingendo indifferenza ma fallendo su tutta la linea.
Anna ne aveva detto che poteva essere interessante, non credendo realmente che l’avrebbe mandata. Un soggiorno di studi su Svarga, in effetti, poteva essere interessante, anche solo come vacanza, per vedere posti nuovi e gente nuova. Ma perché avrebbero dovuto mandare lei? Il suo campo di studi era rilevante come un chicco di riso in una risaia, non aveva mai cercato di farsi notare dai superiori e si era sempre tenuta a grande distanza dalle varie correnti politiche all’interno del reparto. La sua ambizione era di vivere una vita tranquilla, fatta di studi e poco altro: perché mai si sarebbe dovuta andare a infilare in un vermicaio come le lotte per avere una scrivania un poco più larga o una sedia un poco più comoda? Non ne valeva la pena.
La sua vita tranquilla era finita con la risposta di Aaron Vihersalo. Bogdan Stratos sarebbe partito per Svarga, perché aveva una ricerca da portare avanti. Lasciarlo andare da solo, però, non sarebbe stata una mossa saggia, così lui aveva pensato di affiancargli un collega con cui avesse un rapporto buono, amichevole, qualcuno che potesse restargli vicino senza problemi. Qualcuno appunto come Anna Lindtner, la sola planetologa nota con cui Stratos sembrava essere diventato amico.
Fino a quel punto, tutto normale. Lei conosceva già la ricerca di Bogdan, sapeva che voleva farsi mandare altrove per proseguirla e la notizia di una sua partenza per Svarga non suonava così strana, anche se appariva strano che Vihersalo avesse ceduto. Il problema venne subito dopo. Quando Anna aveva accettato la proposta, il capo planetologo le aveva anche spiegato il vero motivo per cui lei sarebbe partita. Per studio, certo. Per accompagnare Bogdan, ovvio. Per tenerlo sotto controllo, sul posto, e informare lui e Leonardi di ogni nuova scoperta, ogni nuova attività del ragazzo.
«Perché anche il ministro Hass è interessato a lui, vede, e noi non sappiamo di preciso il perché. È ovvio che a interessarlo siano i risultati della prima ricerca di Stratos, ma perché? Che cosa vuole da Madre? È la risposta che il dottor Leonardi vorrebbe ottenere ed è per questo che ha acconsentito a mandare il ragazzo, ma non da solo,» aveva spiegato Vihersalo. «Vogliamo che con lui ci sia anche una persona fidata, per assicurarci che non faccia sciocchezze.»
«Quindi io dovrei spiarlo?»
«Controllarlo, come una sorella maggiore. È per il suo bene, mi creda.»
C’erano stati altri incontri, spiegazioni e raccomandazioni. Leonardi in persona l’aveva convocata nel proprio ufficio, in un colloquio che aveva messo in chiaro alcuni aspetti della faccenda che il capo planetologo aveva preferito aggirare. Ad Anna piaceva la vita all’Ufficio? Ottimo, anche a loro sarebbe piaciuto averla ancora come planetologa, per il futuro. Sarebbero stati lieti di avere ancora una preziosa lavoratrice come lei. Confidavano quindi che Anna Lindtner avrebbe provveduto non solo a controllare quello Stratos e inoltrare regolari rapporti, ma si sarebbe anche premurata di fargli passare eventuali cattive idee e avvisarlo che comportamenti troppo impulsivi si sarebbero potuti in seguito rivelare nocivi, anche su un piano legale.
«Perché qualunque cosa riguardi Madre e il suo sistema solare,» aveva concluso Leonardi, grigio in faccia e con una mano sempre sotto la scrivania, premuta forse sull’addome, «è affare del nostro Ufficio. Potrà anche essere resa pubblica, eventualmente, ma soltanto dopo che il nostro Ufficio si sarà premurato di esaminarla e approvarla. Conosco l’entusiasmo della gioventù e la voglia di farsi un nome, ma è bene che questo Stratos si ricordi sempre che è membro dell’Ufficio anche lui e alle regole dell’Ufficio deve obbedire. Se non vuole che l’Ufficio prenda provvedimento, beninteso.»
Anna dubitava che il dottor Leonardi potesse davvero ricordare l’esistenza di un entusiasmo della gioventù, a centodieci anni circa, ma non dubitava che le sue promesse erano da prendersi sul serio. Lei le aveva prese sul serio. Durante i sei mesi su Svarga, aveva ascoltato piagnistei e successi di Bogdan, cercando sempre di raddrizzarlo e impedirgli di fare qualche scemenza, soprattutto dopo il messaggio con cui Leonardi lo invitava a non pubblicare la relazione sui giganti gassosi. C’era più o meno riuscita, a suo parere. Bogdan aveva deciso di non pubblicare nulla, per adesso, perché non voleva ancora bruciarsi la speranza di poter studiare da vicino i pianeti. Relativamente da vicino.
«Se ti metti contro Leonardi, non entrerai mai nel sistema solare di Madre,» gli aveva detto. Bogdan aveva recepito ed eseguito, strano ma vero. Peccato solo che poi fosse spuntato quel Muzafar Chang a fregargli la ricerca e pubblicarla a proprio nome. Come avrebbe reagito Leonardi? Anna Lindtner non lo sapeva e avrebbe preferito non scoprirlo, almeno non a distanza ravvicinata. Sapeva però di avere svolto la propria parte, bloccando Bogdan. Quello che poteva fare uno dei suoi collaboratori non rientrava nel contratto, giusto?
Anna fissava il bicchiere in silenzio, facendolo ruotare con una mano. Mezzo giro verso destra, poi mezzo verso sinistra. Di nuovo mezzo a destra, poi mezzo a sinistra. Di nuovo a destra, di nuovo a sinistra. Fung Mei le avrebbe voluto dire di smettere, ma non trovava il momento giusto per parlare in modo giusto. Poteva sempre decidere di tirargli in faccia quel bicchiere, invece di farlo piroettare sul tavolo e basta. Attorno a loro, il locale cominciava a svuotarsi.
«Spero che quel Chang sia consapevole di aver commesso un’azione illegale,» disse Anna. Aveva alzato la testa dal bicchiere e smesso di farlo girare. Per Fung Mei era un indubbio progresso.
«Rubare la ricerca a un suo studente? Beh, non è sempre facile dimostrare che c’è stato un furto, lo sai. Se vi lavoravano assieme, determinare a chi spetti il pieno merito e la paternità è complicato.»
«Non parlo del furto. Parlo della pubblicazione. Madre è colonia terrestre, il sistema solare di cui è parte risponde alle leggi terrestri. È l’Ufficio ad amministrarlo, di fatto, ed è l’Ufficio a decidere ciò che si può o non si può pubblicare a proposito di Madre e dintorni. È la legge.»
«Ma i Trattati...»
«I Trattati lo prevedono. La revisione di venticinque anni fa o giù di lì. Avevo controllato, quando a Bogdan era arrivato il messaggio da Leonardi, ma adesso non mi ricordo di preciso. Comunque c’è e garantisce al pianeta colonizzatore il diritto di censurare studi e pubblicazioni sulle colonie. È una cosa per la sicurezza planetaria o roba simile, tutta infagottata nel burocratese. Sai anche tu come le scrivono, le leggi. Le scrivono per non fartele capire, se non sei nel loro cerchio magico.»
«E quindi?»
Anna Lindtner sorrise senza allegria. «E quindi il vostro Chang si può aspettare una bella denuncia, con la quasi certa censura delle sue pubblicazioni. Si aprirà una bella storia interplanetaria, hah!»
Fung Mei contemplò il proprio bicchiere. Forse era arrivato il momento di vuotarlo. «Beh, ma sarà una lite tra l’Ufficio terrestre e il professor Chang, no? Voglio dire, non ci andrà di mezzo tutta la fondazione Chen-Cohimbra, vero? Non avrebbe molto senso.»
«Questo non te lo so proprio dire. Non so come funzioni in dettaglio e non so cosa deciderà di fare il dottor Leonardi. So che deciderà di fare qualcosa, poco ma sicuro. Il resto... staremo a vedere. Il punto è che i rapporti tra Terra e Svarga non miglioreranno, soprattutto se il vostro governo deciderà di prendere le parti di Chang in un qualsiasi modo. Se lo facesse, darebbe l’impressione che, come dire, il governo sia favorevole a calpestare le leggi interplanetarie, almeno quando ha qualcosa da guadagnarci, anche se non ho idea di cosa possa guadagnare da questa storia.»
«Beh, ma la scoperta di strutture organiche nel nucleo di giganti gassosi è un grosso colpo. Dico sul piano accademico, quantomeno. Su un piano pratico ok, non so cosa possa guadagnarci un governo, se la scoperta è attribuita a uno dei proprio ricercatori anziché a quello di un altro pianeta. A parte il prestigio, insomma. Sono un planetologo, io: non è che ne so molto di questioni politiche.»
«È quello che avrei voluto poter continuare a dire anch’io.» Il locale attorno a loro era quasi vuoto, ormai, nella chiara notte svarghiana. Luce o non luce, non pareva una città che amasse fare le ore piccole, almeno non in quel periodo dell’anno o in quella zona. «Rientriamo? Non che abbia molta voglia di restare ancora fuori. E comincio ad aver sonno.»
Rientrarono. La fondazione Chen-Cohimbra aveva festeggiato e festeggiato parecchio, a giudicare dai segni che ancora restavano nelle aree comuni e nella sala di ricreazione. Comprensibile. Non ti capita tutti i giorni di avere un collega o un dipendente che presenta una scoperta da libri di storia. Scoperta di un altro, vero, ma sono dettagli ininfluenti, specie quando non li conosci o hai bevuto a sufficienza da non preoccupartene più. C’era ancora qualcuno che ciondolava con la faccia di chi non sa bene dove sia o quando sia, e un paio di persone avevano deciso di dormire sui tavoli, o forse gli alcoolici avevano deciso per loro. Scene da festa del liceo, piuttosto che da centro di ricerca.
Avrà festeggiato anche Bogdan?, si chiese Anna, scendendo verso il proprio alloggio. Sicuramente. In prima linea, proprio. Avrà bevuto più di tutti gli altri. Con ogni probabilità se lo sarebbe ritrovata davanti il giorno dopo, faccia lunga e lamento facile. Lamento continuo, che era peggio del lamento facile. Oh beh, poteva andare peggio, tutto sommato.
La sua missione era compiuta, nel bene o nel male. Aveva controllato Bogdan, aveva fatto rapporto all’Ufficio con regolarità, aveva convinto lo scopritore a non pubblicare i risultati della propria scoperta senza l’autorizzazione dell’Ufficio. Che poi li avesse pubblicati un’altra persona era una questione diversa e non di sua competenza, giusto? Anna Lindtner si augurava di sì.
Li avrebbero richiamati sulla Terra? Possibile. Bogdan non sembrava dell’umore adatto a continuare gli studi presso la fondazione, sicuramente non con Muzafar Chang come tutore. Lui non avrebbe avuto obiezioni a tornare indietro, anche se tornare significava mettersi di nuovo sotto l’autorità di Vihersalo. La nulla autorità di Vihersalo. Quanto a lei... Beh, non avrebbe avuto nulla in contrario a rimanere su Svarga ancora un poco. Decisamente no. Dopo tutto quello che aveva fatto per tutelare il proprio posto all’Ufficio, però, non avrebbe rifiutato una chiamata di Leonardi. In fondo, ormai il suo lavoro era concluso e poteva tornare a essere una ricercatrice qualunque in un luogo brulicante di ricercatori qualunque. Di nuovo anonimato, di nuovo pace, lontano dalle beghe planetarie.
Quanti giorni erano necessari per le trasmissioni tra Terra e Svarga? Un numero variabile, a seconda della posizione dei pianeti, ma un numero che avrebbe detto quanto tempo ancora le restasse, prima di sapere qualcosa sul proprio futuro. Prima la notizia della conferenza doveva raggiungere la Terra e l’Ufficio, poi la reazione dell’Ufficio doveva raggiungere Svarga. Ci sarebbe stato molto lavoro per l’ambasciata terrestre di Guan Yu, nell’immediato futuro, e forse anche in un futuro non così immediato, a seconda di come si sarebbe risolto tutto quanto. Ammesso che si sarebbe risolto.
Avrebbe dovuto sentire Hideki Einarsson, il funzionario che li aveva accompagnati nel viaggio di andata e che, per ragioni a lei ignote, sembrava essere diventato amico di Bogdan. Amico o almeno conoscente: si incontravano spesso e chissà di cosa parlavano, quei due. Scemenze, poco ma sicuro.
Ma di giorni ne sarebbero trascorsi ancora parecchi, prima di ricevere le reazioni dell’Ufficio, sia su Svarga sia altrove. Perché qualcosa era successo e Leonardi aveva altro per la testa, adesso. O, se non proprio per la testa, almeno in una qualche parte del corpo. Qualcosa che gli avrebbe reso molto difficile esprimere un parere su qualunque tipo di argomento, ammesso che fosse richiesto un parere diverso da un rantolo.