La galassia di Madre - 59
Quello che per Davide Kori sarebbe stato l’ultimo giorno di lavoro, almeno al cantiere dove stavano costruendo il primo museo di Madre, fu anche un giorno parecchio intenso e memorabile, per molti versi, anche se non necessariamente da conservare tra i propri ricordi più belli o preziosi. O meglio, è quasi indubbio che una certa categoria di persone, in un futuro lontano, avrebbe potuto riguardare a quegli eventi e magari asciugarsi una lacrimuccia di nostalgia al pensiero della gioventù perduta, di una innocenza mai davvero esistita ma spesso immaginata a posteriori, dei mille eventi che nella fantasia la incoronano, eccetera eccetera. Davide, tuttavia, apparteneva a una scuola di pensiero un poco diversa, nonché a una fascia di età parecchio diversa, e così lo visse soltanto come un giorno maledettamente lungo e sgradevole, da dimenticare al più presto. Se possibile. Se non era possibile, ci avrebbe comunque provato.
Cominciò la sera prima, in realtà, quando Sebastian Hahn e altri del suo gruppo uscirono per andare alle lezioni di recupero. O alla “scuola per asini”, come Sebastian la chiamava, citandosi in prima persona come esempio per la validità di quella etichetta. Altri non concordavano, ma quasi mai altri concordavano con lui, quindi era del tutto ininfluente.
Non era proprio una scuola, tanto per cominciare. Non era proprio un recupero, tanto per continuare e, se vogliamo chiudere la descrizione, possiamo aggiungere che non erano proprio molte altre cose. I corsi erano più che altro lezioni di vita madriana, per così dire, o corsi di sopravvivenza per non farsi ammazzare dal pianeta e da quello che ci viveva, come amava descriverli Tunde Bohr. Alcuni tra i ricercatori che infestavano il pianeta, spesso piuttosto giovani e rinchiusi in facce diversamente felici, trascorrevano una serata a (cercare di) spiegare come funzionassero flora e fauna locale, cosa fosse opportuno evitare, cosa si potesse toccare senza problemi, quanto fossero comunque saggi gli ammonimenti materni a non raccogliere quello che vedevano per terra, e così via. L’idea era quella di presentare in termini molto vaghi come fosse in generale il nuovo ambiente e in quali modi gli umani avrebbero potuto prolungare la propria aspettativa di vita in loco. Pochi tra i vari insegnanti coartati riusciva davvero nell’intento, ma è un altro discorso.
Davide vi aveva partecipato, per un certo periodo, più per restare al traino degli altri che per reale interesse. Le aveva trovate noiose. Un poco meno rispetto alle vecchie mattinate scolastiche, vero, anche perché dubitava che qualcosa nella galassia potesse reggere al paragone, ma no, c’erano modi più divertenti di passare le serate. Contarsi i peli del naso, per esempio. Pure, aveva cercato con uno sforzo epico di resistere il più a lungo possibile. Poi aveva ceduto.
Aveva sperato di poterne ricavare qualcosa in più sugli insetti locali, in particolare quel fantomatico esemplare che, nella storia di Zeke, aveva punto suo padre. Sarebbe stato utile. Non tanto perché lui fosse interessato all’insetto in sé, ma perché avrebbe rafforzato le parole del suo vecchio boss (che poi, chissà come se l’era cavata? Davide non lo sapeva, ma a volte se lo domandava). Per adesso, in mano aveva solo una storia, un aneddoto, affascinante ma poco solido. Vero, lo aveva raccontato un uomo di cui si fidava, una persona che si era presa cura di lui, ma lo aveva pur sempre raccontato. I racconti valgono davvero come prova? Davide a volte ne dubitava.
C’era stata poi la storia di quel tizio che aveva incontrato al bar, colono di prima generazione, che al suono delle parole aveva aggiunto anche la testimonianza di una cicatrice sulla pelle. Era l’insetto, forse un esemplare della stessa specie che aveva punto suo padre. Era un passo avanti. Qualcosa di tangibile. Di solido. Di maleodorante, pure, perché quel colono sembrava avere rapporti complicati con l’igiene personale. Dettagli. Era una base e su quella base Davide aveva sperato di costruire una struttura solida, magari non un monumentum aere perennius, ma qualcosa in più della bicocca che al momento possedeva. Aveva sperato di farcela grazie alle lezioni.
Pessima idea. La tizia che faceva lezione al suo gruppo, una donna coi capelli tutti grigi anche se a occhio non doveva avere più di trent’anni, non aveva saputo dirgli alcunché di utile. Davide l’aveva anche avvicinata in privato, per non pubblicizzare troppo i propri interessi, e le aveva accennato alla storia dei pozzi, degli insetti che vi vivevano, o almeno che vi avrebbero dovuto vivere, secondo le storie che aveva sentito da altri coloni. Una mossa che non aveva avuto molto successo.
La tizia era stata nervosa tutto il tempo, aveva risposto senza rispondere, dopodiché lo aveva evitato con cura in tutte le lezioni successive. Ma evitato evitato, eh: neppure guardava nella sua direzione, come se fosse un appestato così grave da poterti contagiare anche solo entrandoti nel campo visivo. Aveva tentato un altro paio di volte di avvicinarla a fine lezione, giusto per ricordarle il vago “mi informerò, ti farò sapere” con cui lei lo aveva congedato, ma di nuovo era stato fallimento su tutta la linea. Non era più uscita da sola, quella pseudoinsegnante, ma sempre in compagnia di uno o più colleghi. Davide sospettava che averla aspettata al buio in un vicolo non fosse stata una buona idea, per ragioni che non gli erano del tutto chiare, ma ormai era andata così ed era inutile rimasticare lo stesso boccone. Saltata la speranza di avere informazioni, le lezioni avevano perso ogni senso e lui aveva smesso di frequentarle, accontentandosi delle cronache che gli facevano Sebastian e Tunde il giorno dopo, durante la pausa pranzo. Cronache che mancavano sempre di riempirlo di rimpianti di fronte a ciò che non si stava perdendo.
Così, mentre il gruppo usciva, Davide era rimasto negli alloggi, in compagnia di altri sfaticati o di altri allergici all’istruzione. Gente come Luis Morago, che probabilmente aveva problemi anche a capire se stesso quando parlava da solo, o gente come Olaf Selke, che era il responsabile del gruppo e, in quanto responsabile, aveva sempre diverse cose da sbrigare alla fine dei turni, anche se non era mai molto chiaro che cosa sbrigasse di preciso. «Scartoffie, roba da firmare, cose così,» rispondeva, se interrogato, con la faccia sorpresa e imbarazzata di chi si ritrova con la mamma che gli piomba in camera senza bussare, proprio mentre era impegnato a stringere la mano al proprio miglior amico in un mondo purpureo di fascinose fantasticherie personali.
Sedevano in una saletta ad annoiarsi e lasciarsi scorrere addosso il tempo, alcuni in compagnia di mazzi di carte usciti forse dal paleolitico, altri smarriti in piccoli schermi unti e graffiati, che certo avevano visto ere geologiche migliori e probabilmente anche sistemi solari migliori. In un mondo in cui tutto funziona come si deve, per un qualunque valore di “come si deve”, avrebbero continuato a sedere e annoiarsi per il resto della serata, come succedeva quasi tutti i giorni. In quel particolare mondo, però, Klaus Layer aveva avuto una idea brillante e l’idillio di noia si era interrotto. Come in molti casi succede, si era interrotto male. A posteriori, naturalmente.
Le idee brillanti soffrono spesso di uno spiacevole difetto di fabbrica: sono brillanti solo la prima volta che le pensi, meglio ancora se di sera, mentre ti annoi o dopo avere introdotto nel tuo sangue una percentuale sufficientemente elevata di alcool o altre sostanze con analoghe proprietà di alterare il normale funzionamento dei tuoi neuroni. Quando le ripensi il mattino dopo, magari dopo avere smaltito le suddette sostanze tossiche dal tuo organismo, le idee brillanti tendono spesso ad apparire brillanti come un escremento di ratto. Se sei fortunato. Se non lo sei, la loro brillantezza è molto più simile a quella di una mina su cui sei appena atterrato dopo una fantastica prestazione nel salto in lungo. Klaus Layer non era stato fortunato. O intelligente, a seconda dei punti di vista.
Era un ragazzo più o meno coetaneo di Davide Kori, piuttosto tozzo e con una faccia da pizza. Uno di quelli che solitamente passano inosservati, quando tutto va bene, e molto osservati quando tutto va male, specie in ambienti scolastici e variazioni sul tema. Non lo aveva mai detto chiaramente, ma c’era più di un sospetto che il suo improvviso desiderio di diventare colono avesse qualcosa a che fare con le persone che aveva frequentato sulla Terra, o che lo avevano frequentato, e che il preciso movente della sua partenza fosse un desiderio di evitare forme estreme di lifting eseguite con mani, nocche e appendici equipollenti. Il modo in cui si comportava da sobrio, almeno, faceva sospettare che non essere notato rientrasse tra i suoi desideri principali.
Purtroppo quella sera non era del tutto sobrio.
Una persona del tutto sobria non si sarebbe mai lanciata in un dibattito su chi fosse il migliore con lo spaccasassi, come chiamavano quei macchinari usati per triturare le rocce e che si vedevano qui e là nel cantiere, dove fornivano ghiaia in abbondanza. Una persona del tutto sobria non avrebbe mai scommesso su quante rocce potesse spaccare in dieci minuti, e soprattutto non avrebbe scommesso contro uno dei vecchi, un trentaseienne con più esperienza che neuroni e dotato della sana abitudine di deridere i novellini. Una persona del tutto sobria non avrebbe mai insistito per forzare l’ingresso del cantiere, subito, che tanto di tempo ce n’è, per dimostrare cosa sapesse fare, anche al buio. Una persona del tutto sobria, infine, non avrebbe visto l’alba successiva in un letto di ospedale, con un moncherino fasciato e medici che discutevano in una stanza vicina su quale tipo di protesi fosse più adatta per sostituire una mano sinistra e una parte di avambraccio.
Klaus Layer fece tutto questo e molto più.
Fu una notte che Davide Kori non avrebbe dimenticato in fretta, per vari motivi. Prima di tutto, si era trovato fin troppo vicino a Klaus, al momento dell’incidente. Li aveva seguiti un poco per noia e un poco per passare il tempo, quando la colonna di colleghi era uscita, Klaus in testa e gli altri a fare da scorta. Davide era convinto che fosse una scemenza, ma in fondo non era la prima scemenza simile che avesse visto, specie da studente, e ad alcune aveva pure partecipato come protagonista, in compagnia del vecchio Amir. Era normale, in fondo. Era la gioventù. Quando avevano scoperto che non ci sarebbe neppure stato bisogno di forzare l’ingresso al cantiere, perché qualcuno doveva avere dimenticato di chiudere, una sana, cameratesca giovialità goliardica aveva preso il controllo della comitiva, guidandoli alla più vicina spaccasassi. Si erano sistemati attorno, avevano acceso qualche luce, si erano concessi pure un paio di canti di derisione, tanto per fare morale, di quelli innocenti, che non c’è niente di male, solo per ridere un po’.
Perché non c’era niente di male, vero?
Sbagliato, almeno dal punto di vista di Klaus Layer. Punto di vista teorico, naturalmente, perché un punto di vista qualunque non lo avrebbe certo potuto avere in quel momento, neppure con tutta la buona volontà del pianeta. Per avere un punto di vista è necessario prima di tutto possedere almeno la lucidità necessaria per esprimere una qualche opinione, il che non era il caso. Fosse come fosse, il qualcosa di male era successo più o meno al sesto minuto della scommessa, mentre la vaga euforia iniziale aveva cominciato a scemare e una non meno vaga ma assai più spiacevole incertezza si era fatta largo nelle menti del gruppo, o almeno in una parte delle menti di una parte del gruppo. Una incertezza che cercava di richiamare l’attenzione su quanto fosse scemata l’euforia, ma soprattutto su come il verbo relativo avesse perso l’ultima sillaba. Si trovavano nel cantiere, in un orario in cui l’accesso era vietato. Stavano usando un macchinario, il cui uso senza supervisori era vietato. Nei dintorni non c’erano supervisori, ma parecchi sottopensanti. Avevano commesso molte infrazioni?
Per fortuna di tutti, Klaus scelse proprio quel momento per farsi triturare la mano sinistra, che aveva inavvertitamente inserito al posto di una pietra: un buffo incidente che può capitare, quando non si è del tutto sobri e l’illuminazione è scarsa. Grazie a quel diversivo, la coscienza collettiva del gruppo abbandonò idee di possibili punizioni e si poté concentrare su emergenze molto più vicine. Molto più alla mano, per così dire.
Davide fu colpito prima dagli schizzi di sangue e soltanto dopo dalle urla. Lo avevano sistemato a due passi da Klaus, col compito di contare le pietre che inseriva. Era il più sobrio del gruppo, nelle circostanze, ed era quindi più probabile che avrebbe contato ogni sasso una volta sola, ricordando magari anche il numero a cui era arrivato. Un incarico di grande responsabilità. Un incarico che lo aveva portato a essere il più vicino alla scena, regalandogli così una immagine che non avrebbe più dimenticato per il resto della propria vita. Un periodo non troppo lungo, in effetti, ma al momento Davide non lo sapeva e nel complesso era meglio per lui non saperlo. Ci avrebbe perso altro sonno.
Le guardie li raggiunsero quasi quattro minuti dopo il primo urlo, quando ancora nessuno nel loro gruppo aveva avuto la presenza di spirito necessaria per chiamare soccorsi, o anche solo chiamare e sperare che qualcuno sentisse. Chi non era impegnato a vomitare come Davide, o a sentirsi male in termini generici come altri, aveva allontanato Klaus dalla macchina e stava cercando alla meglio di fermare l’emorragia, anche se a nessuno era molto chiaro come fare, dato che alla fine del braccio di Klaus pareva esserci soltanto emorragia. Perché la mano sinistra non era proprio una ferita che si poteva fasciare, e non era proprio neppure una mano, ora come ora. Era più... beh, qualcosa che era meglio non guardare a lungo, e toccarlo, poi... toccarlo era ancora peggio. Doveva esserlo anche per Klaus, a giudicare dal concerto per ugola solista che aveva improvvisato, prima di svenire.
La brillante nottata di saggezza collettiva non si concluse davvero. Scivolò a poco a poco nel nuovo mattino, tra ospedali, inchieste, discussioni e dibattiti su come distribuire responsabilità e punizioni relative. Olaf Selke fu convocato, ancora in maglietta e boxer e felice come un cane che ha appena annusato un porcospino, e la presenza del responsabile teorico del gruppo servì solo a peggiorare la situazione generale. Perché Olaf avrebbe dovuto verificare che il cancello fosse chiuso a dovere, al termine del turno, ma non lo aveva fatto, e Sebastian Hahn non aveva disattivato lo spaccasassi, ma lo aveva lasciato in stand-by, così quei deficienti lo avevano potuto riavviare senza problemi. E così via, di responsabilità in responsabilità, annodate come le code di un re dei ratti, fino a coinvolgere il maggior numero possibile di persone del gruppo, che dovevano essere convocate una alla volta, per rispondere al capo della commissione disciplinare, e il tutto a orari in cui ogni persona sobria o sana di mente avrebbe preferito essere a letto, magari a dormire o almeno in compagnia.
Il mattino li illuminò allo stadio larvale, accasciati sulle sedie scomode di una stanza che possedeva più o meno tutta l’ospitalità di un asteroide, ma qualche cratere in meno. Un nuovo turno di lavoro attendeva, ma non tutti avrebbero risposto «Presente!». Non tutti tra quelli che avevano partecipato alla notte brava, se non altro, o che l’avevano facilitata per negligenza, pigrizia o derivati. Olaf era ancora nel mezzo di un’audizione, ancora nel suo migliore completo da dormita; Sebastian era nei paraggi, in attesa del responso; altri il responso lo avevano già ricevuto e spigionavano tutta la gioia di vivere di serpente spiaccicato sul ciglio di una strada di campagna. Davide era abile e arruolato, ma non in grandi condizioni fisiche: non aveva dormito ed era moderatamente convinto di essersi vomitato pure il pancreas o qualche altro organo di cui conosceva giusto il nome, non la posizione o la funzione precisa. Ma non aveva ricevuto punizioni. Per adesso.
«Ti è andata bene, guarda,» gli disse Tunde Bohr, quando Davide ebbe raggiunto gli alloggi del loro gruppo, strisciando o quasi. «Ma cosa è successo poi di preciso? È morto qualcuno? È tutta la notte che continuano a chiamare gente da noi, ma non è tornato ancora nessuno.»
Davide glielo spiegò, senza alterare troppo la realtà. Non ne avrebbe avuto la forza. Al momento, la sola forza a disposizione gli serviva per rimanere in piedi e grossomodo cosciente. Avrebbe lasciato le spiegazioni a Luis, se avesse potuto, ma dubitava che qualcuno le avrebbe capite. Non che avesse visto molto, in realtà. Luis era rimasto quasi tutto il tempo in coda, seguendo gli altri giusto per fare qualcosa e sempre in silenzio, sempre a ruota. Non era stato in prima fila, il fortunato.
«Fammi capire bene,» disse poi Tunde, quando la spiegazione sembrava finita. «Avete fatto questa stupida scommessa, ubriachi come deficienti, vi siete infilati nel cantiere, avete attivato le macchine per giocare e Klaus ha perso una mano?»
«Beh, non proprio così. Klaus ha fatto la scommessa, noi lo abbiamo solo seguito.»
«E aperto il cantiere. E riattivato le macchine.»
«Sì, beh, ok, ma l’idea era di Klaus.»
«Che era ubriaco. E a nessuno di voi è sembrata un po’, come dire, stupida? Nessuno ha avuto nulla in contrario? Nessuna obiezione? Nessun secondo pensiero? Neanche nessun primo pensiero, direi, vista come è andata a finire. Voi e il pensiero dovete appartenere proprio a due universi distinti.»
«Ma beh, è successo tutto un po così, in fretta, sai...»
«No, in realtà non lo so, perché, vedi, non è mia abitudine fare di queste cose. Non è abitudine delle persone che io sono solita considerare normali, se proprio vogliamo metterla in questi termini. Ma lasciamo perdere, che è meglio. Comunque complimenti per avere messo nei casini anche quelli che non c’entravano niente. Proprio un bel lavoro, bravi!»
Davide pensò per un attimo di farle notare che i cosiddetti innocenti, quelli che non c’entravano ed erano stati coinvolti ingiustamente da loro, erano anche le stesse persone che avevano trascurato di chiudere i cancelli e bloccare le macchine, forse perché davvero si erano dimenticate o forse perché non ne avevano avuto voglia, che sarà mai, chi vuoi che guardi? Non lo fece. Qualcosa gli suggerì che sarebbe stata una pessima mossa, soprattutto per chi volesse continuare a vivere in un corpo intero e intatto. O continuare a vivere in generale, in effetti.
«Dunque cosa si fa, adesso? Aspettiamo Olaf?» chiese poi Tunde.
«No, beh, ne avrà ancora per un po’, non so quanto. Comunque, il resto del nostro gruppo per oggi si dovrà aggregare a quello della Branch, che è in numero ridotto. Dicono.»
Chiunque fossero i misteriosi “essi” che diceva, dicevano in modo corretto, almeno in quel caso. Il gruppo di Leena Branch aveva avuto problemi piuttosto seri di salute, o più precisamente di insetti, e un rinforzo avrebbe fatto comodo, anche se proveniva da un gruppo che si stava già facendo una fantastica fama di incompetenza e pericolosità generica, che divenne pericolosità molto più precisa quando la notizia dell’incidente in notturna cominciò a circolare anche tra gli altri lavoratori.
Il clima nel cantiere non era proprio il massimo, quella mattina, soprattutto tra chi doveva utilizzare la spaccasassi incriminata. L’avevano pulita con cura, sia chiaro, e non erano rimaste tracce o segni della simpatica scommessa notturna, men che meno delle sue meno simpatiche, ma altrettanto buffe conseguenze sulla mano sinistra di Klaus Layer, ma l’idea stessa dell’avvenimento sembrava avere lasciato una specie di ombra nelle menti di tutti, anche in assenza di prove circostanziali. Che i tutti in questione non fossero stati fisicamente presenti all’avvenimento, poi, pareva non avere rilevanza.
Alla pausa pranzo Davide dormiva quasi seduto, sia perché la sua posizione si poteva descrivere più come accasciata che seduta, sia soprattutto perché una qualche parte del suo cervello continuava a funzionare, portando il cibo alla bocca e di tanto in tanto centrando anche il bersaglio. Veniva da un periodo di... quante ore? Non lo sapeva, ma erano troppe, soprattutto perché erano ore di veglia. Più o meno. Sapeva di essersi svegliato alle sette del mattino precedente, sapeva di avere lavorato fino al tardo pomeriggio, sapeva di avere cenato, sapeva di essere rimasto negli alloggi mentre Sebastian e altri andavano alle lezioni serali, sapeva di avere bevuto un poco ed essere poi uscito assieme alla combriccola che era rimasta nei paraggi come lui. Poi, il diluvio.
Non aveva dormito, se non sonnecchiato per brevi intervalli su una sedia diversamente comoda, tra un interrogatorio e l’altro, e nessuno degli ultimi ricordi aveva avuto il tempo di sedimentarsi nella sua coscienza, nel cervello o in quel cavolo di posto in cui i ricordi si sedimentano a fine giornata, se mai si sedimentano davvero da qualche parte. Davide ne dubitava, al momento, ma al momento era stanco a sufficienza da dubitare anche della propria esistenza, per cui non faceva testa. Testo. O testuggine. Quello che era. Faceva che aveva ancora davanti tutto il pomeriggio e non credeva di poter sopravvivere. Non vivo, almeno. Ecco. Sopravvivere morto, ora...
«Sembri messo parecchio male, amico,» disse Sebastian, in un momento in cui Davide galleggiava nei pressi della coscienza, come suggerito dalla cucchiaiata di materiale giallo-grigiastro che aveva appena inserito in bocca, buttandosene sulla spalla solo una piccola percentuale.
«Non ho dormito un cazzo,» bofonchiò in risposta, o almeno bofonchiò parole che, con una qualche libertà, potevano essere interpretate in questo modo. Ciò che sentirono di fatto fu più che altro una specie di mugugno da cavernicolo con la raucedine e la bocca piena di budino. Non che di budini ne circolassero molti tra i cavernicoli, ma è il pensiero quello che conta. E a volte anche il computer.
«Te la sei cercata tu,» commentò Tunde. «La prossima volta impari ad andare a fare il coglione con quei quattro cercopitechi, invece di venire a farti una cultura insieme a noi.»
Davide avrebbe voluto esprimere un parere su quella che Tunde aveva definito “cultura” e che, fuori di metafora, era giusto una manciata di aneddoti e banalità copiate pari pari da un qualche testo, con giusto un ritocco ai tempi e modi verbali, e ripetute a pappagallo da una tizia svogliata e scocciata. Il suo parere sarebbe stato alquanto diretto e poco diplomatico, forse, ma avrebbe posseduto anche una buona dose di verità e in larga parte persino Erika Freire, cioè la tizia svogliata e scocciala, lo avrebbe condiviso, se qualcuno avesse chiesto un suo parere. Fu dunque un peccato che, invece, gli uscì soltanto uno «Erp», seguito da uno sforzo per deglutire la sbobba spacciata per cibo.
«Oh beh, dai, in fondo non è poi stato così tragico, almeno per noi,» disse Sebastian con un mezzo sorriso. «Mi hanno trascinato giù dal letto, vero, e un ciccione mi ha interrogato come se io fossi un pericoloso latitante o roba del genere, ma alla fine non ci saranno conseguenze, per me. Lasciare la spaccasassi in stand-by mi è stato passato come errore veniale, che comunque era dovere del nostro responsabile notare e segnalare. La merda se la piglierà tutto il vecchio Olaf, insomma.»
«E questo ti va bene, scusa?»
«Mi va sempre bene, se la colpa se la prende un altro. In fondo, come responsabile è pagato più di noi, giusto? E, come si sa, noblesse oblige, o qualcosa del genere. Il rango ha privilegi, ma ha anche responsabilità e blablabla, palle varie. Si chiama responsabile proprio perché, se succede qualcosa, i cazzi sono suoi, non trovi?»
Tunde non trovava molto, ma scosse la testa e lasciò perdere. Su un piano strettamente giuridico o legale, Sebastian aveva ragione. Su un piano strettamente umano, secondo lei aveva torto marcio, è vero, ma quando mai Sebastian aveva ascoltato qualcuno? Mai, per quanto ne sapeva lei. Dunque, non sarebbe servito a nulla discutere. «Povero Olaf,» disse. «Sapete quando tornerà?»
«Quando avranno finito di masticarlo, suppongo. A proposito, Bruno, hai intenzione di masticarlo ancora un po’ quel boccone di poltiglia? O ti ci sei addormentato attorno?»
Davide aprì gli occhi, diede uno scossone virtuale al cervello per riavviarlo, ricordò che Bruno era il suo nome pubblico su Madre, oscillò un poco sulla sedia, deglutì e si guardò attorno. «Dicevi?»
«Dicevo che è meglio lasciare perdere. Tornatene pure a dormire, buonanotte, sogni d’oro, questo e quello e così via. Comunque, qualcosa di buono ne abbiamo ricavato, alla fine. Abbiamo intorno un po’ di facce diverse, se non altro. Piuttosto che niente è meglio piuttosto, no?»
«Non che siano grandi facce,» disse Tunde.
«Sempre disfattista, tu. Bisogna prendere quello che passa, da queste parti. Essere di bocca buona, sai. Non è che ci sia molto altro da divertirsi nel cantiere di un museo, su un pianeta colonizzato da pochi anni e praticamente in mezzo al nulla.»
Poi la voce di Leena Branch, la loro responsabile per quel giorno e forse fino a data da destinarsi, a seconda del fato che si preparava per Olaf il dimenticatore di cancelli aperti, li chiamò al lavoro e protestò per il ritardo e le lungaggini dei nuovi. Sebastian e Tunde si alzarono, Davide li seguì dopo un poco, ma soprattutto dopo essere stato afferrato per un braccio e sollevato a forza. Che giornata di inferno! E sembrava non finire più.
Ma succedeva sempre così, quando non si dormiva, anche se Davide non aveva ancora trascorso un numero sufficiente di notti insonni per potere avere un valido metro di paragone. Né lo desiderava. La notte precedente gli era bastata e gli avanzava pure: era moderatamente convinto di avere avuto già qualche assaggio di iperrealtà, allucinazioni visive causate dalla stanchezza del cervello e che gli facevano apparire come persone anche i pali della luce, o le ombre in alcuni portoni. No, non era una bella cosa. Mai più uscite notturne a seguire strane scommesse tra semiubriachi. O semi e basta, magari con l’aggiunta di una c.
Poi la gioia negativa di quel primo pomeriggio al lavoro fu interrotta da un nuovo incidente, piccolo e quasi indolore, ma pur sempre fastidioso, perché ritardava i progressi del gruppo. Quasi indolore per chi non ne fu coinvolto. Per Bianco Veigel, invece, che inciampò e cadde rompendosi il polso sinistro, l’incidente fu piuttosto doloroso e non contribuì a migliorare l’umore generale. E neppure quello individuale dell’incidentato, ovviamente.
«Ma sei fatto di merda!» gli disse Sebastian sorridendo, mentre Bianco sedeva a terra in attesa del personale medico, col braccio sinistro premuto al corpo e una faccia color calce fino alla linea in recessione dei suoi capelli. «Come fai a romperti inciampando nell’aria?»
«Provaci anche tu e lo scoprirai, furbone,» gli rispose Bianco. «E poi non sono inciampato nell’aria. Sono inciampato in... in quello, quel coso.» E liberò per un attimo la mano destra, gesticolando allo spazio vuoto dietro di loro, prima di tornare a cullare il polso malandato e peggio ancora tornato.
Sebastian guardò nella zona indicata dal collega. Non vide nulla su cui una persona normale potesse inciampare, e neppure qualcosa in cui una persona anormale potesse inciampare. Una formica, ora, potrebbe incespicare nelle minuscole irregolarità del suolo, d’accordo, magari impegnandosi un poco, ma... «Io comunque non vedo nulla in cui inciampare, ma se lo dici tu...»
Bianco non rispose. Poco dopo, un infermiere controllò il suo polso, lo manipolò estraendo qualche urlo extra dal proprietario dell’estremità danneggiata, poi annuì e aiutò l’invalido ad alzarsi, anche se in effetti non avrebbe avuto bisogno di aiuto, perché le sue gambe funzionavano bene e avevano giusto rimediato un paio di lividi nella caduta, protette com’erano dal robusto tessuto dei pantaloni. Bianco Veigel si sentiva però in vena di fare il moribondo e così chiese e ottenne di essere non solo accompagnato, ma anche sorretto fino al pronto soccorso di emergenza ai margini del cantiere. Il lavoro riprese poco dopo, tra qualche mugugno e le ultime chiacchiere su maledizioni e squadre che portavano chiaramente sfiga, dai, si capiva benissimo. C’erano sempre di mezzo loro.
Davide non apprezzò l’intermezzo. Non gli era piaciuto soprattutto il modo in cui Bianco si teneva il braccio sinistro, proprio lo stesso braccio che Klaus Layer si era maciullato poche ore prima. Ma erano davvero poche? O molte? Il senso del tempo gli sfuggiva e gli istanti sembravano ammassarsi in una specie di marmellata cronologica e forse anche cronica. Klaus con la sua mano maciullata, al buio; Bianco col suo polso rotto, alla luce. E lui lì vicino in entrambi i casi, a guardare. Che fosse davvero lui a portare sfiga? O forse era un segno? Non proprio un segno di qualcosa di preciso, ma un segno in generale, interpretabile come si preferiva, a seconda delle proprie inclinazioni personali.
No, era solo l’orribile giornata che proseguiva e non voleva finire mai. Proseguì più o meno con lo stesso ritmo quando un insetto lo punse su un lato del collo, alla faccia di tutti i repellenti assortiti e ributtanti che aveva applicato. Davide cercò di schiaffeggiarlo, ma lo mancò, ricavandone solo una bella stampa rossa a forma di mano tutta attorno alla puntura. Fantastico. Gli insetti erano fastidiosi, nel cantiere, ma erano fastidiosi soprattutto con lui. Doveva avere qualcosa di saporito nel sangue, perché era l’unico ad averne attorno in continuazione, ogni giorno. O almeno era l’unico per quanto ne sapesse lui. Potevano essercene a decine negli altri gruppi, ma siccome lui non li conosceva, e in fondo non gliene fregava granché, lui era l’unico. L’unico tormentato dagli insetti.
Svenne qualche minuto dopo e l’infermiere quel giorno si guadagnò davvero lo stipendio, con un altro paziente da accompagnare al pronto soccorso. «Non aprite quel cantiere, davvero,» commentò Sebastian, scuotendo la testa. «Lo stiamo costruendo su un cimitero indiano, per caso?»
«Non ci sono indiani da queste parti. Al massimo potrebbe essere un cimitero madriano,» gli rispose Selina Dialla, che era nelle vicinanze e approfittava della nuova interruzione nel lavori per fare una pausa e riposarsi all’ombra. Non che ci fosse particolarmente caldo, quel pomeriggio, ma riposava all’ombra lo stesso. «Un museo costruito su un luogo infestato da spettri alieni. Sarebbe perfetto per ambientarci un horror, non trovate? Qualche storia di orrori cosmici, magari.»
«No,» disse Tunde. «E comunque al massimo sarebbe un horror di serie zeta o giù di lì, niente che mi piacerebbe vedere. Siamo solo stanchi per la nottata schifosa e stressati per quello che è successo al nostro gruppo, tutto qui. Gli incidenti ce li facciamo da soli, distraendoci.»
«Ma lo so, lo so. Stavo solo scherzando. Puoi stare sicura, però, che quelli del nuovo gruppo adesso penseranno che siamo noi i portasfiga, che siamo maledetti o qualcosa del genere. Arriviamo noi e giù una raffica di incidenti. È normale pensarla così.»
«Non è proprio una raffica, dai!»
«Lo diventerà prima della fine della giornata, almeno nelle storie che gli altri racconteranno. Siamo in un cantiere, pieno di gente che passa le giornate ad annoiarsi e svolgere lavori che brutalizzano il cervello e i centri logici, con la loro ripetitività snervante. Lasciare un po’ di libero sfogo a fantasia e superstizione è praticamente una strategia di sopravvivenza. O tattica di sopravvivenza? Non ho mai capito molto bene quando si debba parlare di strategia e quando di tattica. Credo che siano due cose diverse, ma...»
Di nuovo fu Leena Branch, la capa, a interromperli e sospingerli al lavoro. Stava proprio perdendo la pazienza. E altre cose, ma soprattutto la pazienza, al momento. Quando aveva ricevuto istruzioni di integrare il gruppo di Olaf Selke nel proprio, almeno per quel giorno, Leena non aveva avuto ragioni per protestare. Erano stati decimati dall’influenza o da una qualche altra malattia, avevano accumulato ritardi biblici e più o meno qualsiasi aiuto sarebbe stato gradito. O così le era sembrato.
Una delle valutazioni peggiori che lei avesse mai effettuato, sia nella sua attuale vita al cantiere, che nella precedente vita in ufficio sulla Terra. Quel Selke doveva essere un orribile responsabile, se i membri del suo gruppo si comportavano in quel modo. Anzi, doveva essere un vero irresponsabile. Il presidente degli irresponsabili, che irresponsabilizzava forse per osmosi tutti quelli che entravano in contatto con lui. Anche se i nuovi erano così scarsi che doveva esserci voluto poco per convertirli in lavativi completi. Dovevano possedere già materiale grezzo in abbondanza.
Aveva sentito anche lei le storie sulla loro incursione notturna al cantiere e il ragazzino che ci aveva lasciato una mano durante un gioco da ubriaco. Una storia orrenda. Una storia stupida, che per lei era peggio di orrenda. Ma era una storia, no? In una ventata anomala di ottimismo, Leena aveva scelto di pensare che i problemi disciplinari fossero limitati a qualche mela marcia, frutto avariato che al momento doveva essere in attesa della decisione della commissione disciplinare, dunque ben fuori dai piedi o da altre parti anatomiche. Tutti gli altri erano probabilmente lavoratori normali, no? Più o meno normali. Lavoratori capaci, o non troppo incapaci.
Forse. Per quel che aveva visto lei, erano bravi soprattutto a parlare, perdere tempo e farsi male da perfetti idioti. Qualcuno rendeva, per carità; qualcuno che rende lo trovi sempre, anche nelle classi più disastrate, che possono essere corrette soltanto con l’uso di strumenti didattici alternativi come il napalm. Ma in media? Se il suo gruppo da solo produceva cento, con l’aggiunta dei nuovi arrivati stavano adesso producendo centoquattro, centocinque al massimo. Pessimo affare, davvero. Non era per fare la maestra d’asilo che era emigrata su Madre. Poi, verso la metà del pomeriggio, quella che sarebbe stata una giornata pessima cambiò faccia e diventò una giornata memorabile, per lo meno. E storica? Magari anche storica, forse. Crepi l’avarizia.
Successe quando Leena stessa coordinava gli scavi per rafforzare le fondamenta di quella che, nel progetto del museo, sarebbe stata l’ala orientale, destinata ad accogliere qualcosa o qualcos’altro, non lo sapeva e non le interessava. Sapeva però che se n’era già occupato un altro gruppo, ma poi il progettista aveva cambiato idea, o forse aveva corretto alcuni calcoli, e aveva scoperto che serviva scavare più a fondo e sistemare puntelli più lunghi o roba simile. A Leena non interessavano proprio i dettagli, anche perché comunque non era né architetto né ingegnere né altro. Ditemi cosa fare e io lo farò, era il suo motto, e sula Terra aveva sempre funzionato. Solo che adesso non lo poteva fare.
Perché lo scavo si era interrotto. Avevano trovato qualcosa che non voleva essere scavato.
Ci provarono lo stesso, per un poco, poi si dovettero arrendere, quando anche lo scavatore di riserva si ruppe. Così, per l’ennesima volta in quella giornata pessima, che sembrava non voler migliorare in nessun modo, Leena fu costretta a contattare i famigerati Piani Alti, con lettere maiuscole e tutto il resto. Altro guaio da segnalare, altro imprevisto che ritardava i lavori. Ci sarebbero stati problemi per lei? Sanzioni economiche? Disciplinari?
Non ci furono, o almeno non in negativo. Perché quello che il gruppo aveva trovato era una pietra, di origine artificiale. Non grossa, non proprio grossa, ma dalla forma strana, che alcuni operai erano convinti di avere già visto da qualche parte. Dove? Non lo ricordavano, ma sembrava familiare, per un dato valore di familiarità. Un valore non molto elevato, in effetti.
Poi vennero gli archeologi e i militari e i lavori al museo furono sospesi fino a data da destinarsi. C’era qualcosa, lì sotto. Qualcosa di grosso. In più di un senso.