La galassia di Madre - 62
Dieci giorni erano trascorsi da quando la direttrice Cheskka Macawili aveva portato la notizia che su Madre era stata scoperta una pietra (quasi) identica a quella che conservavano lì, nel centro studi di Shtoma, su Agni, e ancora l’ambiente era un formicaio su cui qualcuno si è seduto senza notarlo, ma notandolo subito dopo e con ben poca gioia. Non perché al personale fossero cresciute di colpo altre due zampe, antenne, potenti mandibole e tutti avessero deciso di trasferirsi a vivere in comode gallerie sotterranee, ma per il modo in cui la sua popolazione correva in ogni direzione, o almeno camminava un poco senza fiato, senza scopo apparente, in un caos visivo che, forse, era la maschera di un potente ordine logico, che però nessuno aveva ancora deciso di cercare. Per farla breve, il caos era arrivato e pareva essersi trovato piuttosto bene, tanto che non accennava ad andarsene.
Il che era comprensibile. Nessun osservatore neutrale, se mai ci fosse stato qualcuno interessato alla placida osservazione di uno sciame di ricercatori in subbuglio, si sarebbe aspettato anche il minimo miglioramento della situazione, almeno sul breve termine. Dopo più di dieci anni spesi a studiare un sasso solitario e a tesservi attorno bozzoli e bozzoli di fantasticherie, ipotesi più o meno insensate e quant’altro ci si possa inventare per tenersi occupati e illudersi di stare dedicando la propria vita a qualcosa di utile, anzi fondamentale, scoprire che su un altro pianeta è stata trovata una pietra quasi identica è qualcosa che può capovolgere il cervello di chiunque, o almeno di chiunque sia propenso a farsi capovolgere il cervello da quel genere di notizie.
I ricercatori di Shtoma lo erano, in parte per natura e in parte per selezione artificiale. Erano anche persone con una enormità di tempo libero per le mani, almeno a parere degli abitanti della città, e avrebbero dovuto spendere più ore all’aperto, respirare aria pura, vedere il sole, schiarirsi le idee e magari trovarsi anche un lavoro vero, salutare e produttivo, ma sono dettagli secondari e in fondo il problema era minore, se problema era. La pietra portava turisti, faceva pubblicità a Shtoma e alle zone circostanti e insomma contribuiva all’economia locale, a modo suo. I ricercatori no, ma li si poteva sopportare. In fondo erano come i ragni negli angoli delle stanze disabitate.
Ma torniamo a guardare all’interno del centro. L’annuncio di Cheskka Macawili aveva concluso in anticipo il programma di relazioni, discorsi, dibattiti e pappappero che si faceva passare per piano di incontri e confronto nella comunità accademica e che si svolgeva ogni dieci giorni, regolare come le richieste di pagamento. Nessuno se l’era sentita di tornare sul palco e parlare di qualcosa, dopo che la bomba era caduta. Nessuno aveva qualcosa di cui poter parlare, al momento. I sostenitori di una origine naturale per la pietra di Agni avevano bisogno di serrare i ranghi e riorganizzare le idee, o ciò che faceva funzione di idee, mentre i paladini della origine artificiale erano perlopiù impegnati a cambiare regolarmente ciò che indossavano al di sotto della vita e progettare nuovi modi per colpire l’avversario confuso e disorientato. Quella giornata si era così conclusa senza colpo ferire, mentre tutti si lanciavano sul nuovo materiale.
Dieci giorni dopo, il tradizionale incontro non si tenne, rinviato a data da destinarsi. Alcuni se ne lamentarono, molti scrollarono le spalle, altri ancora si asciugarono figurativamente la fronte, con la speranza che non sarebbe ripreso mai. Perché la scoperta della nuova pietra era stata una manata in pieno budino, nel centro studi di Shtoma, e il budino avrebbe avuto bisogno di parecchio tempo e di ancora più lavoro per raggrupparsi di nuovo e recuperare una parvenza di normalità.
Non se ne lamentava il professor Phan Thanh Chu, che pure avrebbe dovuto parlare quel giorno, se il programma non fosse saltato. Seduto in una poltrona alquanto incavata, con le mani giunte più o meno all’apice del suo generoso equatore addominale, sorrideva pacifico e spiegava a chiunque lo volesse ascoltare, ma anche a molti di quelli che non lo avrebbero voluto ascoltare, come fosse stato un bene avere una interruzione, una pausa nella routine amorfa e priva di spirito. Fermarsi a pensare in silenzio, raccogliere le idee, esaminare le proprie posizione, avrebbe fatto solo bene a chiunque, in particolare a quanti ancora si ostinavano a cercare una origine naturale per quello che, di fatto, si doveva ormai riconoscere all’unanimità come un artefatto di origine extra-agniana. Davvero, non si riusciva proprio a capacitare di come ci fossero ancora persone che rifiutavano di vedere la verità, la luce così chiara e palese davanti ai loro occhi, e preferivano bendarsi e scavare nelle profondità del proprio cervello, alla ricerca di chissà quale spiegazione irreale e fallace, quando tutto ciò di cui una mente sana e aperta avrebbe avuto bisogno era lì, di fronte alla galassia.
Le sue tirate continuavano spesso così, anche per decine di minuti, intervallate soltanto da brevi e fugaci soste per respirare o ricaricare le energie fisiche e intellettuali, tramite ingestione di qualsiasi cosa commestibile si trovasse nei suoi paraggi. E forse anche non commestibile, sospettava Kemala Kexin, la quale però si asteneva saggiamente dall’indagare. Si asteneva anche dall’intervenire o dal dare un qualunque segno della propria presenza, quando il professor Phan Thanh Chu era lanciato in una delle sue sparate fiume e aveva acquistato ormai abbastanza velocità da essere inarrestabile per chiunque tenesse alla propria salute mentale. Lei ci teneva, relativamente.
Teneva molto di più alla recente scoperta di una seconda pietra e avrebbe fatto più o meno qualsiasi cosa per poterla vedere di persona ma, come aveva spiegato all’amica e collega Inna Rabbani, le sue possibilità in quella direzione erano grossomodo pari all’aspettativa di vita che può possedere un martello di cristallo, se qualcuno decide di usarlo.
«È che non mi faranno mai entrare su Madre, se non forse in un’urna, e anche in quel caso il forse è molto grosso. Dovrò restare qui a studiare i modelli e i dati, mentre altri avranno la pietra vera.»
«Perché ci hai già provato una volta e ti è andata male, lo so, me lo hai raccontato,» aveva risposto Inna. «Se però ti presentassi in un modo un po’ più ufficiale e legale, magari come membro di una spedizione di studio proveniente da Agni, scommetto che le tue possibilità sarebbero migliori.»
Kemala non lo pensava, ma aveva lasciato cadere il discorso. Era inutile parlarne con chi su Madre ci aveva vissuto, studiato e lavorato. Inna era di origine terrestre, poteva tornare su Madre quando e come voleva, nessuno le avrebbe chiuso la porta in faccia. Nessuno l’avrebbe chiusa in una cella, in particolare. Kemala se lo sognava ancora, di tanto in tanto, e non erano bei sogni. Pensare a Madre era bello, buono e giusto, d’accordo, niente in contrario, era stato un suo sogno figurato a lungo, ma adesso era anche diventato un suo sogno letterale, e lo era diventato in modi e forme più sgradevoli di quanto lei potesse sopportare. Meglio non pensarci, dunque. Fantasticare sì, ma da lontano. C’era il rischio di fare un altro giro nelle zone che le davano incubi, se si fosse avvicinata.
Così studiava la copia del materiale sulla nuova pietra che aveva ricevuto, proprio come faceva la maggior parte dei suoi colleghi lì a Shtoma. Dati scarni, dati grezzi, dati approssimativi, ma forse il meglio che si potesse fare, considerato che il ritrovamento era recente e ciò che avevano spedito da Madre era solo la prima versione, preparata in fretta e inoltrata in anteprima al centro che studiava il solo altro esemplare di pietra esistente al momento. Una sorta di riconoscimento dell’importanza del loro lavoro, come lo aveva definito la direttrice Macawili, oppure una furbata per scaricare il peggio del lavoro all’amico tontolone che sgobba al posto tuo per un pezzo di pane e una pacca sulla spalla, come l’aveva messa Marijn Asanga, con tutto lo sprezzo che sapesse iniettare nelle proprie parole.
Fosse come fosse, per Kemala non aveva importanza, al momento. I dati li avevano, avevano anche un modello tridimensionale della pietra, avevano tutto ciò che serviva per un primo studio e questo le bastava. Studi reali e attendibili si sarebbero potuti condurre soltanto sull’originale, vero, ma di questo si stava già preoccupando la direttrice, che aveva avviato una trattativa con l’ambasciatore terrestre su Agni, per ottenere l’invio su Madre di un gruppo ben selezionato di studiosi del centro, i quali avrebbero portato tutta la loro esperienza e le loro conoscenze in aiuto dei colleghi madriani. O qualcosa del genere. Kemala non sarebbe mai stata inclusa in quel gruppo, ma pazienza.
Meglio non pensare a Madre, per adesso. Meglio pensare alla pietra appena trovata.
Poteva essere stata uguale a quella trovata nei pressi di Shtoma, in origine. Il tempo, la sepoltura e i fenomeni meteo l’avevano intaccata molto di più e adesso non avrebbe potuto suggerire un cubo di Rubik neppure alla persona più dotata di creatività nell’intera galassia, ma che tre o quattro milioni di anni prima le due pietre fossero state lo stesso monumento era indiscutibile. Per Kemala. Nonché per molti altri della sua fazione. Il gruppo della terra piatta, che ancora si ostinava a predicarne la più improbabile delle origini naturali, era in ginocchio ma non cedeva e rifiutava di accettare che le due rocce potessero essere state modellate da una qualche forma di vita intelligente, avvinghiandosi come mitili al magico mondo delle probabilità, a meteoriti scolpiti dalle intemperie e dall’impatto, a questo e quello, abracadabra. Kemala li trovava piuttosto patetici, ma li ignorava.
Perché le pietre erano state monumenti. Di questo si sentiva certa. Che tipo di monumenti e scolpiti o modellati per quale scopo, se avevano avuto uno scopo diverso dal puro godimento estetico, erano domande a cui non sapeva rispondere, né probabilmente avrebbe mai saputo rispondere. Dettagli. Il punto era che le due rocce erano il prodotto di una intelligenza non umana. Erano indubbiamente il prodotto di una intelligenza non umana, indiscutibilmente, palesemente e altre cose in mente. E una di quelle due pietre era lì, a pochi metri da lei. A decine di metri da lei, d’accordo, e custodita sotto una robusta teca di cristallo in un settore aperto al pubblico del centro di studi, che fungeva anche da museo, ma era comunque alla sua portata. Poteva vederla quando voleva. Poteva anche toccarla, sebbene non quando voleva. Per certi versi, il suo sogno di contatto diretto con una intelligenza non umana poteva dirsi realizzato, giusto?
Non proprio. La pietra di Agni era un blocco di roccia compatto, la cui attuale forma precisa era più o meno simile a un cubo di Rubik che è stato abbandonato a metà movimento e su cui è poi passato un cingolato parecchio pesante. E a cui un cieco ha aggiunto qualche pezzo extra, perché gli pareva che ne migliorasse l’estetica generale. Un obbrobrio che Lovecraft avrebbe apprezzato, dato che di euclideo aveva ben poco. Pesava circa due tonnellate, era composto dello stesso materiale con cui le rovine di Madre erano state costruite e al suo interno non nascondeva alcunché, soprattutto perché non è che ci fosse proprio un interno, essendo monoblocco. La pietra appena trovata su Madre, nel corso degli scavi per la costruzione di un museo, pesava un poco di meno, era più consumata, i suoi spigoli apparivano molto smussati, ma in linea di massima era uguale al reperto agniano. La sua età precisa era ancora da accertare, ma secondo le stime doveva essere un poco più vecchia.
Per Kemala la spiegazione era chiara. La civiltà che si era sviluppata su Madre aveva costruito quei monumenti per una qualsiasi ragione, forse artistica, forse religiosa, forse anche solo come cartelli stradali, per quello che ne sapeva lei. Ne avevano trovato uno solo, ma dovevano essercene chissà quanti altri, sparpagliati nel suolo del pianeta. Poi la civiltà madriana scopre o impara il segreto del viaggio interstellare. Lo stesso che usavano loro adesso? Forse sì, forse no. Dettagli ininfluenti. Per quel che contava, potevano anche aver viaggiano fino su Agni nel modo più lento e complicato, con una normale propulsione. Non era importante. Ma erano arrivati su Agni, che era il pianeta abitabile più vicino a Madre, e lì avevano costruito lo stesso tipo di monumento che avevano a casa. La pietra di Agni, appunto. Poi qualcosa era successo e la spedizione era fallita, o magari avevano deciso che il viaggio interstellare era impraticabile, avevano finito la carta igienica, qualsiasi cosa. Di nuovo, le sfumature non erano importanti, ma la storia doveva essersi svolta più o meno così.
Nel corso degli ultimi dieci giorni Kemala ne aveva discusso parecchio con Inna, col professor Phan Thanh Chu e con altri della loro fazione e più o meno tutti erano stati dello stesso parere. Variavano le ragioni con cui spiegavano la presenza della pietra su Agni, variavano le ipotesi sulla natura delle pietre, variavano molti altri dettagli, ma il grosso non cambiava: costruita dai madriani su Madre e poi ripetuta su Agni, nel corso di un qualche tipo di esplorazione o tentata colonizzazione. Avevano anche eseguito diversi confronti diretti tra il modello tridimensionale ricevuto da Madre e la pietra che custodivano nel centro di Shtoma e i risultati concordavano: stesso tipo di oggetto, la versione di Agni conservata meglio e forse più recente, ma entrambe le pietre raffiguravano la stessa cosa.
Qualunque cosa fosse.
A questo si aggrappano ancora i gruppi della terra piatta, sostenitori dell’origine naturale dei reperti. Ai loro occhi era evidente che i supposti monumenti erano soltanto due grossi sassi deformanti dal tempo, dalle intemperie e da varie forze perfettamente spiegabili senza bisogno di postulare forme di intelligenza o anche solo intenzionalità di qualche tipo. Stesso materiale? Meteoriti provenienti da sciami analoghi, anche se in due sistemi solari diversi. Forma strana? Impatto al suolo, pioggia, vento, gelo: pesca pure quella che vuoi, di cause ne abbiamo da vendere. Si assomigliano? Un caso, niente di più, e poi non è che siano così simili, se le guardi bene. Sono simili soltanto se tu le vuoi vedere simili. Stesso materiale delle rovine aliene di Madre? È ovvio, la civiltà del pianeta ha deciso di imitare la strana lega trovata in un meteorite, forse per motivi religiosi, un dono di dio, migliore di quelle che possedevano già, vattelappesca.
Marijn Asanga, in particolare, sembrava essere il più ostinato. Non era certo il più intelligente, né il più competente, simpatico, anziano o molto altro. Era quello che parlava di più, e più forte. Quello che non taceva neppure davanti all’evidenza. Quello che non vedeva l’evidenza, impegnato sempre e comunque a contarsi la lanugine ombelicale. Quello che aveva sempre qualcosa da ridire. Su tutto. Kemala sospettava che neanche i colleghi della sua fazione lo apprezzassero, ma lo sopportavano e lo utilizzavano senza problemi e senza scrupoli come arma di distruzione di massa. O distrazione di massa. Operava sul tuo cervello come un litro di latte rancido opera sul tuo intestino.
Era dunque inevitabile che sarebbe stato proprio lui l’avanguardia nella lotta contro la fazione della origine artificiale, soprattutto in un momento in cui sembrava così vicina alla vittoria. Il pomeriggio di quel decimo giorno dopo la notizia, quando il grosso della comunità scientifica si smarriva pian piano in un primo abbiocco digestivo e la mensa ronzava di una bassa attività mandibolare, tra una forchettata e una blanda chiacchiera da pancia piena, Marijn Asanga andò all’attacco. E colpì duro.
Era giorno di letture, conferenze e dibattiti, ma non ci furono. Sospesi temporaneamente, si diceva, per consentire a tutti di prepararsi e studiare le novità appena arrivate. Non avrebbero avuto senso i dibattiti sul sesso degli angeli, quando un angelo era appena stato trovato ed era imminente la sua autopsia, giusto? Molto meglio affilare le proprie idee e magari, chissà, hai visto mai, presentare la propria autocandidatura alla direttrice Macawili, che magari riusciva davvero a ottenere la missione su Madre e vuoi mettere il prestigio di essere uno dei primi a vedere la pietra di persona? Per tacere degli indubbi vantaggi scientifici che ne sarebbero potuti derivare, ovviamente.
Così, nella quiete di un primo pomeriggio nuvoloso e fresco, ma decisamente tiepido all’interno del centro studi, Marijn Asanga pranzò in silenzio col fido Francis Tarchnishvili al fianco, confabulò un poco con lui, lo spedì da qualche parte, ne attese il ritorno, confabularono ancora un poco e alla fine il nostro eroe spostò il vassoio, salì sul tavolo e si lanciò in quello che sarebbe entrato nella storia di quel mondo come il peggiore esempio di one-man-show dai tempi della fondazione della colonia. Il peggiore tra quelli noti al pubblico, perlomeno.
Cominciò con un lungo e scombinato memoriale di titoli e referenze che poteva elencare a proprio carico, vere o presunte che fossero. E illustrissimo qui, e chiarissimo là, e pregiato questo, e dottore quello, et in saecula saeculorum o quello che è. Doveva bastare a stendere gli avversari e piegarli al più reverente degli ascolti possibili, nonché a molti di quelli impossibili. Non accadde.
Proseguì ricapitolando in lungo tutti gli studi da lui già presentati davanti al consesso dei colleghi in occasione di interminabili giornate di convegni e dibattiti assortiti. Fu una fase che occupò una bella fetta di digestione, dilungandosi a coprire quasi quattro anni e almeno quarantasette conferenze, per limitarsi a quelle che Asanga ritenne meritevoli di essere citate, dall’alto della sua magnanimità e in seguito a un gesto di Tarchnishvili, che col rapido movimento di indice e medio gli segnalò come la platea si stesse abbandonando alla compagnia di Sonno e Morfeo e che sarebbe stato dunque saggio accelerare un poco l’introduzione e darci un taglio, prima di esaurire gli spettatori.
Sistemandosi la camicia e scorrendo pian piano verso il centro del tavolo, incurante dei vassoi che urtava e dei mugugni dei commensali, Marijn alzò e allargò le braccia in un gesto molto ecumenico, ma anche un poco ridicolo, poi si schiarì la gola, protese la destra con fare istrionico e una mimica che avrebbe orripilato Cicerone anche a secoli e secoli dalla sua morte, e il discorso vero e proprio cominciò, accompagnato da occhi vuoti e sbadigli ippopotamici.
Avevano trovato una nuova pietra su Madre, sì. E con questo? Cosa cambiava per loro? Voglio dire, in concreto, quando proprio veniamo al dunque: cosa cambiava? Cambiava soltanto che la pietra di Agni, la loro pietra, il reperto geologico a cui avevano dedicato anni di studio, adesso non era più il solo esemplare nella galassia, ma aveva trovato un fratello, forse gemello, forse solo cugino lontano e misconosciuto. E dunque? Voleva dire che entrambi gli oggetti avevano la stessa origine? Voleva dire che ciò che valeva per l’uno, qualunque cosa fosse, valeva anche per l’altro? Voleva dire che le loro fatiche e il loro sudore, assieme ad anni di lavoro, dovevano essere cestinate, per fare posto alla novità di un momento, il ghiribizzo di un attimo, le roboanti magnifiche sorti e progressive?
La risposta era un chiaro no, come qualunque persona di puro intelletto e onesto sentire, o forse di puro sentire e onesto intelletto, non poteva non comprendere. Tutto questo interesse per la novità di oggi, tutto questo voler inseguire mode del momento, tutto questo perdere di vista o calpestare con piede deliberato le verità consolidate in anni: dove avrebbe condotto il centro, eh? Dove? Ma alla rovina lo avrebbe condotto, come ogni persona di sani principi e chiaro intelletto non poteva non avere già capito fin dall’inizio. No, no, non era così che un vero scienziato si sarebbe mai dovuto comportare. Non così, non in modo tanto stupido e superficiale.
Che poi, ammettiamo pure che le due pietre abbiano la stessa origine e siano davvero sorelle, come a tutti pare così evidente, sebbene evidente non sia. Ammettiamolo pure. E dunque? Significa solo che due meteoriti analoghi si sono abbattuti su due pianeti analoghi, in un acro di tempo piuttosto breve, almeno in termini astronomici. Coincidenza bizzarra, senza dubbio, ma appunto coincidenza, niente di più e niente di meno. Nulla provava che le pietre fossero state prodotte da un qualsivoglia tipo di intelletto, nulla provava che fossero prodotte da una mano, una zampa, un tentacolo o anche uno pseudopodo. Nulla. Tutto questo balbettare di artificio, di costruzione, di materiali frutto di una società industrializzata, che cosa è di fatto? Cosa è, se non la solita, ennesima spinta a gettarsi come lemming nel vuoto dell’ignoranza e della superstizione, abbandonando la luce della ragione?
Fu più o meno a quel punto che il professor Dmitrenko gettò il tovagliolo, si alzò e abbandonò non proprio di corsa ma quasi la sala, mani levate a coprire una faccia arrossata e sudata. Chi gli sedeva accanto raccontò in seguito di avergli sentito mormorare cose che era bene non ripetere in pubblico, ma che comunque era disposto a ripeterle più volte in privato, a beneficio di chiunque domandasse. Frasi poco eleganti, già, e che nessuno si sarebbe aspettato di sentire da un professore esimio come il Dmitrenko, pilastro del gruppo della terra piatta o, a seconda dei punti di vista, della fazione che sosteneva l’origine naturale della pietra. Come poteva sconfessare così, e in forma tanto inelegante, uno dei suoi più celebri soldati kamikaze? Pure lo fece e non fu il solo, anche se fu il primo. Dopo Dmitrenko, molti altri membri storici e rispettati della fazione uscirono dalla mensa, senza guardarsi indietro e senza esitare. Rimasero pochi giovani, e Asanga sul tavolo. Più quasi tutta la fazione a lui opposta, che ridacchiava e scuoteva il capo.
Ma lo spettacolo continuava. Camminando avanti e indietro sul tavolo, abbandonato ormai da tutti i commensali per ragioni più che ovvie, Marijn Asanga proseguiva nel perorare la propria causa, tra gesti inconsulti con le braccia e derisioni più o meno fallite delle posizioni altrui. Non si accorgeva di come i presenti superstiti lo stessero fissando? Non sentiva i loro commenti? Non notava le mani che salivano a coprire bocche ridenti, almeno tra i colleghi più discreti? Forse era cieco a tutto ciò o forse lo vedeva. Probabilmente lo vedeva. Ma Marijn si trovava in uno di quegli stati psicologici in cui i soli input gli provenivano dall’interno del proprio cranio e ogni dato esterno era puro noumeno irraggiungibile e inattingibile. Qualcosa che era là, come vago punto di riferimento, ma non toccava la magnifica rappresentazione della realtà che si era creato in testa. Condizione non proprio nuova per lui, sia detto per inciso.
Fu nel mezzo di una imperdibile tirata sul perché le prove non fossero prove ma solo interpretazioni di prove, che si potevano provare e sprovare (sic!) a seconda delle convenienze dello spettatore, e in ogni caso non dimostravano nulla di definitivo, ma fornivano solo indicazioni vaghe e generali, una manciata di indizi e non vere prove, anche se dovessimo trovare trecento di queste pietre, eccetera eccetera, che il professor Phan Thanh Chu si alzò e cercò di calmarlo, mosso da pura misericordia e forse un vago desiderio di finire in pace il pranzo.
«Mio giovane amico,» disse, «non mi pare questo né il luogo né il tempo migliore per discutere di questi problemi e confrontare creativamente le nostre posizioni. Non credi che sarebbe più indicato trasferire altrove queste discussioni, invece di infastidire tutte le altre persone che cercano soltanto di pranzare in pace? È anche per il bene dei tuoi argomenti, vedi.»
Marijn Asanga gli rivolse uno sguardo da basilisco. «Io non sono il suo giovane amico, è chiaro? Come si permette di parlarmi così? E poi questo è un momento buono come ogni altro!»
Il professore sorrise. «Hai ragione, mi sono espresso male, riproviamo. Mio giovane nemico, non...»
«Mi sta prendendo in giro? Vuole deridere me, me personalmente, adesso che non ha più mezzi per come le mie posizioni? Vuole svilire le mie tesi svilendo me, eh?»
«Non oserei mai. Non potrei comunque fare un lavoro migliore di quello che stai già facendo tu.»
Poi venne la risata. Non fu forte, non particolarmente accesa, ma corse tra il pubblico involontario da un lato all’altro della mensa, raccogliendo vigore e intensità di persona in persona, finché tutti in sala sghignazzavano di lui. Marijn Asanga li fissò, augurando a ognuno mali indicibili con gli occhi e probabilmente anche con quello che aveva dietro gli occhi. Poi mormorò un «Capisco» e scese dal tavolo, lento e solenne, per quanto si possa essere solenni scendendo dal tavolo della mensa su cui hai appena sgambettato a lungo e con fastidio altrui. Non parlò, ma uscì camminando a testa alta e sguardo fisso in avanti, col fido Francis Tarchnishvili a seguirlo come la coda di una cometa, o una zaffata di metano intestinale. Non sbatté neppure la porta.
In mensa ci fu un momento di silenzio, seguito da altri momenti di silenzio, ma meno carichi e più rilassati. Poi il silenzio decise che era tempo di andarsi a bere un caffè e le chiacchiere ripresero, tra risatine e teste che si scuotevano. C’era un nuovo argomento di cui discutere e tanti commenti più o meno crudeli da fare. Come si poteva resistere? Nessuno ci provò. La sceneggiata di Asanga fu il piatto forte, o il dessert forte, visto l’orario, e ognuno ebbe qualcosa da ridire e molto da ridere.
«Non capisco cosa gli sia preso oggi,» disse Inna Rabbani, seduta a un tavolo in disparte assieme a Kemala. «È sempre stato un tipo strano, d’accordo, ma questo...»
«Gli sarà saltata qualche rotella, adesso che si è accorto che la sua ipotesi affonda,» rispose Kemala. «Niente di strano, direi. Prometteva male anche prima, con tutte le scemenze che diceva nelle sue relazioni; adesso ha solo raccolto i risultati.»
«Ma è comunque strano, no? Voglio dire, cosa sperava di ottenere?»
Kemala scrollò le spalle. «Farci compassione, probabilmente. Gli è andata male. Piuttosto, parlando di cose serie: novità sul progetto della Macawili? Qualche voce che sia meno voce e più certezza, se non chiedo troppo? Non che mi riguarderà direttamente, lo so, ma...»
«Il gruppo che potrebbe andare su Madre a studiare da vicino la nuova pietra? No, ancora niente. Si dice questo e quello, ma appunto si dice e basta: se vuoi certezze, ritenta, sarai più fortunata. O non lo sarai. Sono sempre piuttosto complicate, queste cose.»
«Ma adesso non ci sono più problemi di quarantena, mosche che muoiono o palle varie, vero? Non mi pare che dovrebbero fare tante difficoltà per una spedizione scientifica.»
«Ma le fanno lo stesso. Pare che l’Ufficio terrestre per la Colonizzazione abbia qualche problema al momento, di preciso non so cosa, ed è l’Ufficio a decidere tutto quello che riguarda Madre, lo saprai anche tu, no? Finché non si sistemano le cose là, tutto rimarrà molto... confuso, ecco.»
«E quindi noi dovremo girare i pollici.»
«Più o meno. Il materiale ce lo manderanno lo stesso, quello non è un problema, e avremo tutti gli aggiornamenti sui dati e i modelli, a mano a mano che li produrranno su Madre, ma mettere piede sul pianeta è sempre un po’ complicato, lo sai anche tu.»
Kemala non commentò. Lo sapeva fin troppo bene. D’accordo, lei ci aveva messo parecchio di suo per fallire e peggiorare la situazione, ma tutto era cominciato dalla mania terrestre di limitare gli accessi e dare la precedenza ai loro scienziati e ricercatori, mentre quelli degli altri mondi dovevano ritirare il numerino e sistemarsi in coda. Non ci fossero state tutte quelle restrizioni, peggiorate dalla quarantena per chi veniva da Lakshmi, la storia sarebbe stata molto diversa e adesso lei sarebbe con ogni probabilità su Madre, a lavorare alle rovine. Ma la storia sarebbe sempre molto diversa, in base a quello che fai, e lo sarebbe sempre a cose fatte, quando ormai era tardi. Quindi, meglio pensare ad altro e abbandonare la catena inutile di riflessioni: ci aveva già sprecato troppo tempo. Piuttosto...
«Tu sei terrestre, no?» chiese all’amica e collega. «Tutti i documenti in regola e così via, giusto?»
«Sì, certo, tutto in regola. Aggiornati giusto un paio di mesi fa all’ambasciata.»
Mese, la tipica unità di misura terrestre. Kemala sorrise. «Quindi tu tecnicamente potresti accedere a Madre anche senza bisogno di aspettare una eventuale autorizzazione per un eventuale gruppo di ricerca agniano, giusto? Lo potresti presentare come... turismo, non so, un viaggio di piacere, o una visita ad amici e parenti, qualcosa del genere. Giusto?»
Inna Rabbani la fissò seria. «Cosa vorresti farmi fare, adesso? Un altro dei tuoi progetti malsani? Il nuovo piano malefico architettato per far finire qualcuno nei guai?»
«Non c’è bisogno di metterla in questi termini, dai! Era solo una domanda. Così per sapere.»
Inna continuò ancora per un poco a fissarla seria, poi sorrise. «Stavo scherzando, per carità. Anche se non proprio del tutto, in effetti. Tu stavi pensando a un qualche sistema per aggirare i blocchi ed entrare ugualmente su Madre, vero? Dillo pure, non mi offendo.»
Kemala si mosse un poco a disagio sulla sedia, gesto del tutto naturale data la scarsa comodità che garantivano ad anatomie umane e umanoidi. «Stavo solo contemplando tutte le possibilità, niente di che. Puro esercizio logico, ecco. Passatempo. E comunque non suggerirei mai qualche azione strana ad altre persone, visto come è andata a finire a me, quando ci ho provato.»
«Allora, come puro esercizio logico per passare il tempo, ti dirò che sì, teoricamente potrei andare su Madre quando voglio. O quando me lo posso permettere e c’è una nave che mi ci possa portare, il che è un poco diverso. È anche possibile che sarei ammessa di nuovo nella comunità di archeologi locali, dato che ci ho già speso qualche anno, prima di venire qui. Non posso neppure escludere che potrei decidere di farlo davvero, magari durante le vacanze estive, se prima di allora non ci saranno state novità. Ma se anche dovessi farlo, non porterò nessuno dentro la valigia, chiaro?»
«Non stavo dicendo questo, dai! Era solo per sapere, te l’ho detto. Ho imparato che ci sono azioni che è meglio evitare, per il mio bene, ed è meglio agire secondo le regole, a meno che tu non sia del tutto certa che non ci siano difetti nel tuo piano e non abbia almeno tre o quattro vie di fuga se tutto dovesse andare male. No, davvero, non sto progettando altre scemenze. Dico solo, se proprio non ci daranno l’autorizzazione per accedere alla pietra su Madre, tu potresti sempre andarci per noi, no, e raccogliere tutte le informazioni che ci servono. Nel caso. Eventualmente.»
«Nel caso eventualmente potrei anche, ma preferirei evitare, se possibile. Grazie.»
Kemala stava per ribattere, quando vide rientrare in mensa Francis Tarchnishvili, faccia lunga lunga e passo lento, afflosciato fino alla coda di cavallo con cui si ostinava a raccogliere i capelli neri. Lo seguì per un poco con lo sguardo, mentre si avvicinava a un gruppetto di studiosi della sua fazione, rimasti stoicamente sul posto nonostante le prese in giro dei colleghi. Tarchnishvili si fermò accanto a loro, parlottarono, scosse la testa, alzò le spalle, poi si allontanò di nuovo.
«Padron Asanga lo avrà scacciato,» disse Inna, seguendo la scena. «Suppongo che non avrà gradito il modo in cui la sua orazione è stata accolta. Non capisco davvero cosa si aspettasse di ottenere con quella sceneggiata, ma pazienza. Speriamo che gli sia passata: non vorrei dovermi sopportare altri spettacoli come quello di oggi, mentre mangio.»
«Possiamo sempre uscire, la prossima volta che lo vediamo salire sul tavolo. Comunque non è che mi interessi quello che fa quel demente. Davvero, direi che è stata solo una crisi di nervi, perché le sue ipotesi stanno andando in pezzi e lui non lo sa accettare. Triste, ma è la vita.»
Opinione che corrispondeva in parte alla verità, da un certo punto di vista. Marijn Asanga non era proprio esaurito, anche se si trovava a una discreta distanza da un perfetto stato di salute psicofisica e non prometteva di raggiungerlo entro breve. Era stressato, stanco e adesso sapeva di non avere più l’appoggio della sua fazione, se mai l’aveva avuto davvero.
Aveva sempre ammirato e rispettato il professor Dmitrenko. Era stato il suo modello da studente e lo era diventato ancora di più quando lo avevano accettato nel centro studi di Shtoma e Marijn si era trovato a collaborare con lui. In posizione subalterna, beninteso, poco più di un galoppino, ma non aveva importanza. Aveva importanza che adesso lavorava con lui. Condivideva le sue idee, era nella sua fazione. Credeva nell’origine naturale della pietra. Era l’unica spiegazione sensata, in fondo.
Poi avevano trovato una seconda pietra su Madre, quasi uguale a quella di Agni. Origine artificiale, dicevano, il prodotto della civiltà aliena scomparsa. Dunque, per osmosi, anche la pietra di Agni lo doveva essere, giusto? E la fazione contraria alla loro aveva preso forza, alzato la testa, occupato il centro di studi col piglio del barbaro invasore, venuto a calpestare i troni ingioiellati coi suoi sandali e calzini bianchi. Bisognava fare qualcosa, era ovvio. Era necessario che qualcuno li rimettesse al posto che competeva loro. Bisognava ridimensionarli. Sminuirne il supposto trionfo. I grandi saggi della fazione ne avevano parlato più e più volte nel corso dei dieci giorni dall’arrivo del messaggio. Il professor Dmitrenko era stato tra i più accesi.
Marijn Asanga aveva arbitrariamente deciso che sarebbe stato lui quel qualcuno. In fondo era quello che si era esposto più spesso, nel corso degli anni, e non aveva mai perso occasione per esprimere le proprie idee, che gli altri le volessero ascoltare o meno. Perché non si sarebbe dovuto ripetere anche adesso? Così si era ripetuto, aveva preparato un discorso e lo aveva enunciato, in mensa.
Ma qualcosa era andato storto. Molti qualcosa. Francis Tarchnishvili gli aveva suggerito, con molta diplomazia e cautela, che un discorso breve avrebbe avuto più impatto, invece della lunga tirata che aveva in programma lui. «Parla poco, ma parla duro,» gli aveva detto. «Vai con un discorso a lancia, punta stretta ma aguzza, per perforare le loro difese. Infilza, non bastonare.» E così via.
Marijn non lo aveva ascoltato. Come suo solito, aveva scelto la quantità, per sommergerli sotto la massa di nozioni e idee che si sentiva ribollire nel cranio. E aveva fallito. Non lo avevano ascoltato, il che era male, ma in fondo non così inconsueto. Il problema era che lo avevano deriso. E i capi del gruppo, a cominciare dallo stesso Dmitrenko, gli avevano voltato le spalle. Avevano deciso che era un fallimento e se n’erano andati. Avrebbero speso i prossimi giorni sminuendo e prendendo tutte le distanze possibili da lui, ha fatto di testa sua, noi abbiamo cercato di fermarlo, non potete incolparci per le mattane di un povero fesso, sapete anche voi che le nostre posizioni sono ben altre, noi siamo scienziati seri, non esaltati che hanno visto troppi film di serie zeta.
Aveva puntato al colpaccio e il colpaccio lo aveva ricevuto. Sul cranio. Con una spranga di titanio. Francis aveva cercato di consolarlo, addolcire la pillola, sparare palle varie per distrarlo e ripescarlo dalla fogna in cui era caduto. Inutile. Marijn lo aveva mandato via. Meglio restare soli, per adesso.
Così sedeva nel suo alloggio, nella penombra dei vetri offuscati, mani ciondolanti tra le cosce, testa piegata di lato, occhi glassati da shock terminale o sbornia pesante. Il notiziario era un vago ronzio di sottofondo, che annunciava un attentato da qualche parte su Rudra, rallentamenti nella estrazione di terre rare, disagi sui mercati interplanetari, cose così. Solo suoni, che riempivano l’aria, tenendo un poco a distanza i pensieri. Quanto gli poteva fregare di Rudra, dopotutto? O anche di un attentato nell’allevamento di qualcosa. O dell’estrazione di questo o quel minerale. Morte X persone? Peggio per loro, pace all’anima loro, quel che vi pare. Lui aveva altro in pentola, o in padella, o giù di lì.
Aveva che a questo punto gli sarebbe toccati farsi una fazione tutta per lui. E per Francis, se ancora gli voleva rimanere attorno. Il suo gruppo lo aveva scaricato, gli altri deriso. Ma la vita continua, se non altro finché respiri, il tuo cuore batte e hai un’attività cerebrale misurabile dagli strumenti. E lui aveva tutto questo, quindi era vivo. Doveva vivere. Continuare a lavorare al centro. Come avrebbe affrontato tutti, domani? O anche prima di domani, perché a cena doveva pure mangiare.
Meglio non pensarci, adesso. Meglio non pensare, adesso. Il notiziario era passato a raccontare gli ultimi sviluppi della campagna del professor Muzafar Chang, il planetologo messia che da Svarga portava a tutti i mondi coloniali la buona novella della sua scoperta rivoluzionaria. Buon per lui. A Marijn Asanga sarebbe piaciuto molto avere una scoperta rivoluzionaria da presentare alla galassia, o anche solo ai quattro gatti che vivevano al centro studi assieme a lui. Ma non l’aveva. Aveva solo fallimenti da raccontare, se mai avesse avuto voglia di raccontarli (non l’aveva) e se mai qualcuno li avesse voluti ascoltare (molto improbabile).
Altrove, la direttrice Cheskka Macawili continuava a discutere con l’ambasciata terrestre, dove si era recata di persona. Una spedizione di studio su Madre per un gruppo di suoi ricercatori: questo si augurava di poter ottenere. Operazione difficile, a occhio, ma anche ad altri organi di senso. Ma non impossibile, il che era comunque positivo. Il dottor Leonardi non era al momento disponibile; lo era il Direttore Gemelos, ma tentennava, posticipava, non prendeva decisioni. Come poteva funzionare una organizzazione simile? Come potevano pretendere di gestire una nuova colonia, se quelli erano i mezzi di cui disponevano? Ottime domande, a cui forse era meglio non rispondere.
Pure, la direttrice Macawili non cedeva. Li avrebbe convinti, alla fine. Ne era certa. Magari sarebbe servito parecchio tempo, magari avrebbe dovuto trascurare altri impegni, ma li avrebbe convinti. E il suo gruppo di ricercatori sarebbe partito per Madre, per investigare sulla nuova pietra.
E magari avrebbe scoperto qualcosa. Qualunque cosa. Ne avrebbero avuto bisogno, per il bene del centro.