La galassia di Madre - 89
Nel piccolo studio che le era stato assegnato presso l’ospedale della base militare, Erika Freire riordinò per la terza volta appunti che non avevano realmente bisogno di essere riordinati, sospirò, insultò da tradizione i pochi esemplari di insetti rimasti nella teca e si preparò spiritualmente al periodico incontro col suo responsabile superiore. Che era un militare, un capitano, a cui lei avrebbe dovuto presentare l’aggiornamento sul lavoro che stava svolgendo, i risultati che aveva ottenuto, questo e quello, paccottiglia varia e assortita. Divertente come un dito nell’occhio, ma inevitabile e ormai se ne stava facendo un’abitudine. Grossomodo.
Il comando militare l’aveva requisita e portata alla base perché erano interessati in un qualche modo agli studi che aveva dovuto cominciare a svolgere su una particolare specie di insetto locale, per gli amici “pseudotafani”. Erika non aveva idea di cosa potesse esserci di interessante per l’esercito, ma era un altro paio di maniche. Meglio non fare troppe domande a gente che va in giro armata e che la natura in molti casi non ha dotato di neuroni a sufficienza per risponderti: questo era il suo modesto o non modesto parere in merito. Se erano interessati, però, era logico che volessero anche tenersi aggiornati su come proseguissero i lavori. E così si arrivava agli incontri col capitato responsabile delle sue ricerche. Fin qui nessun problema.
Il problema, o il fastidio, era che pretendevano un incontro di persona. Non sarebbe stato molto più rapido e semplice se lei avesse inoltrato una copia del materiale, magari con l’aggiunta di una breve presentazione, e poi che si arrangiassero loro? Lo aveva fatto più volte quando era ancora in città, al centro studio diretto da Thoreau, e nessuno se n’era mai lamentato. Vero, probabilmente nessuno si era mai neppure preoccupato di leggere, guardare o ascoltare i suoi rapporti e le sue pubblicazioni, che finivano sepolte a decomporsi in un cimitero digitale della conoscenza assieme a mille e mille altri anonimi colleghi, ma non era quello il punto. Il punto era che nessuno la costringeva a restare seduta davanti a un militare con espressione da bue, che le rivolgeva sì e no due domande, ascoltava apatico e in parte forse atarassico storie di insetti e delle loro mirabolanti virtù, infine ringraziava e tanti saluti. Era come essere di nuovo a tenere lezioni serali ai coloni.
Forse la volevano sorvegliare, pensava a volte in brevi attacchi di paranoia gratuita. Ma sorvegliare per cosa? Non lo sapeva. Se c’era qualcuno o qualcosa che la sorvegliava realmente, però, erano gli insetti nella teca. Ne era quasi convinta. Era paranoico da camicia di forza, ma ne era quasi convinta lo stesso. La stavano fissando anche in quel momento, tutti e sette gli esemplari rimasti. Appiccicati alle pareti di materiale trasparente, le loro teste erano puntate verso di lei, gli occhi ruotati sempre a seguire ogni sua mossa. Snervante, davvero. Ormai era riuscita a convincere anche Carla, il sergente che si occupava di lei. «Insetti di sorveglianza,» li aveva definiti, e ne aveva riso un poco nervosa.
Avrebbe riso anche adesso? Non lo aveva fatto quando Erika le aveva accennato per la prima volta a un risultato che i suoi ultimi esami degli pseudotafani avevano suggerito. Non solo non aveva riso, ma era anche sembrava un poco a disagio, disturbata. «È meglio che non ne parli a nessuno, almeno per adesso. Neppure con me,» le aveva detto. «Senti prima cosa ne pensa il capitano e poi, semmai, ne potremo riparlare. Penso che potrebbe essere una cosa piuttosto importante.»
Lo pensava anche Erika, o almeno lo sperava. Soprattutto sperava che i suoi studi fossero corretti (e non lo erano stati la prima volta, errore stupidissimo che l’aveva costretta a rifare tutto da capo), ma anche che fossero ciò che i militari volevano sentirsi dire. Chissà, se davvero aveva scoperto quello che avrebbe dovuto scoprire sugli insetti, magari poi le avrebbero permesso di tornare in città. Non che alla base stesse male, non realmente male, ma conosceva molti posti migliori, anche se nessuno o quasi si trovava su Madre. Pure, cambiare aria non le sarebbe dispiaciuto, anche solo per un paio di settimane o giù di lì. Prendersi una vacanza, insomma.
«Sogna, sogna,» sospirò, controllando ancora una volta il risultato che avrebbe presentato a breve al capitano Nash. Non sembravano esserci errori, neppure di battitura, ma la chiave era appunto quel verbo: sembrava. Sono due cose molto diverse, sembrare ed essere, ma ormai non c’era più tempo per la filosofia, neppure la più spicciola da nota colorata sul diario con tanto di cornicetta decorativa e magari un paio di fiori stilizzati. Dunque, meglio chiudere tutto e alzarsi, invece di restare ferma a contemplare lo schermo. Tempo di andare. Almeno stavolta aveva qualcosa di nuovo da presentare. Stavolta un risultato lo aveva ottenuto e stava cominciando forse a capire di più sulla natura degli insetti. E forse al capitano non sarebbe piaciuto, ma affari suoi.
Un suono, qualcuno alla porta. Era Carla, venuta a prelevarla con la sua solita puntualità. Assieme camminarono attraverso la base, sotto un cielo nuvoloso ma non troppo: non si vedevano molti altri per strada, ma quei pochi erano tutte facce note, almeno alla lontana, e si scambiarono i soliti saluti, cenni di capo, raramente mani alzate alla fronte. Quasi tutti civili, da quelle parti. Era il buco degli scienziati, dopotutto. E sempre nel buco degli scienziati, a breve distanza, sorgeva anche un edificio un poco anonimo ma ben sorvegliato, dove tutti i residenti della zona si dovevano recare per il loro rapporto periodico, proprio come stavano facendo adesso loro due.
Entrarono, salirono e il gomitolo di corridoi uguali, che ormai avevano imparato quasi a memoria, le scaricò infine di fronte a una porta bianca, su cui una targhetta grigia annunciava il “capitano R. Nash”. Niente fronzoli, niente note a margine: chi raggiungeva quella porta sapeva già tutto ciò che aveva bisogno di sapere. Chi non lo sapeva, invece, non aveva alcun bisogno di saperlo ed era quasi di sicuro finito nel posto sbagliato. Loro due sapevano. Erika entrò, il sergente Carla Hedges attese all’esterno, come da ordini e come ormai da abitudine.
Il capitano Reginald Nash sedeva alla scrivania con l’aria di chi avrebbe preferito forse una spiaggia tropicale, o anche solo il divano di casa, in mancanza di meglio. Ma era una persona moderatamente cordiale, allegra come un coleottero e in fondo poteva esserci di peggio. Certi professori al centro di Thoreau, per esempio. Gente come il professor Leitl, per esempio, causa efficiente del suo essere lì alla base militare e, dunque, anche del suo essere di fronte al capitano Nash in quel preciso istante.
Oh beh, almeno stavolta aveva appunto qualcosa da offrire. Era un inizio, avrebbe dovuto lavorarci ancora a lungo, rimanevano parecchi punti da chiarire (eufemismo: in realtà non avevano fatto altro che aumentare negli ultimi giorni e poteva aspettarsi che avrebbero continuato ancora a lungo), ma chissà, magari avrebbe scosso un poco quella espressione da bovino ruminante. Così, dopo le solite presentazioni, Erika Freire sganciò la bomba. Sperando che non si dimostrasse un petardo.
«I cosiddetti pseudotafani sono parte di un complesso sistema di studio e sorveglianza. Detta in altri termini, ci spiano e raccolgono i nostri dati, genetici e forse non solo.»
Il capitano Nash la fissò con una faccia che gli avrebbe permesso un posto sul podio ai mondiali di imitazione bovina, se mai una competizione simile fosse stata istituita (ancora non lo era stata, per quanto ne sapesse Erika, ma non si sarebbe stupita del contrario). «Sì?»
«Ho detto che gli pseudotafani, ossia quella specie di insetto locale che sto studiando e che compare tanto di frequente all’interno e nei dintorni della base, sono parte di un complesso sistema di...»
«Sì, questo lo ho capito,» la interruppe il capitano, sollevando una mano che suggeriva una sua ben scarsa dimestichezza con lavori pesanti o anche solo lavori all’aria aperta. «Il mio era solo un invito a proseguire il suo discorso e a fornirmi le opportune spiegazioni a sostegno della frase a effetto con cui ha deciso di aprire questo nostro incontro. Non la stavo invitando a ripetermi la stessa cosa, con la semplice aggiunta di qualche parola extra di poco conto. Lei ha affermato che questi insetti sono o sarebbero parte di una rete di sorveglianza. Bene. L’informazione è stata da me recepita. Vorrebbe adesso essere così gentile da proseguire il suo discorso, spiegandomi anche le modalità in cui questa supposta rete di sorveglianza funzionerebbe? Grazie.»
Erika Freire valutò se spaccargli entrambe le labbra con un bel pugno (o anche con un brutto pugno, per carità: un pugno deve essere efficace, non apprezzabile sul piano estetico, con buona pace per la nobile arte e palle varie) sarebbe stata una buona mossa per la carriera. Probabilmente no. E poi un risultato lo aveva ottenuto, giusto? Era stato il contributo più lungo al dialogo che il capitano avesse mai fornito nei loro incontri. Peccato che fosse anche un contributo da avvocato stitico.
«Sì, adesso le spiego,» disse. E spiegò.
Nessuno di quegli pseudotafani era un esemplare completo, di per sé. Lo era in senso strettamente biologico, d’accordo, ma il suo sistema nervoso non sarebbe stato sufficiente a farlo funzionare, non da solo. Fin qui niente di nuovo, lo aveva già appurato con le prime biopsie. Quegli insetti parevano però capaci di comunicare anche a grandi distanze e mantenersi sempre in contatto tra loro: questo consentiva loro di creare una rete che, in un qualche modo ancora da appurare (perché da sola non ho né i mezzi né le competenze per appurarlo, era il messaggio sottinteso di Erika Freire, che però il capitano sembrò scegliere di non ricevere), consentiva loro di sopperire alle carenze strutturali ed essere così ancora più efficienti e capaci di quanto sarebbero stati se avessero posseduto un sistema nervoso completo. Forse. In base a confronti con forme di vita analoghe di altri pianeti. Ehm.
Il capitano sorrideva serafico e annuiva, braccia posate sulla scrivania e mani giunte. Erika continuò con la sua spiegazione, che adesso includeva anche le cosiddette novità, le ultime scoperte, corollari alla bomba iniziale. Se avessero incluso anche un sasso, lo avrebbe scagliato diritto in faccia al suo ascoltatore, mirando se possibile al naso.
Questo presumibilmente spiegava perché morissero con tanta facilità e velocità, quando rinchiusi in teche di un particolare tipo: non solo per la separazione dal resto del gruppo, anche se questo fattore poteva avere un suo peso, ma soprattutto perché il materiale di cui erano composte le prime teche a sua disposizione doveva possedere una qualche proprietà schermante, che isolava quegli esemplari rinchiusi dal resto del gruppo. Incapaci di comunicare e ricevere istruzioni complete, gli insetti si ritrovavano a dover dipendere esclusivamente dal proprio organismo, che era appunto deficitario e ben poco adatto alla sopravvivenza. Come risultato, morivano. Come mosche, ahaha.
«Ma anche qui sarebbero necessari studi più approfonditi e maggiori risorse, per determinare quali siano le cause precise di questo blocco delle comunicazioni, dato che al momento...»
Il capitano rimaneva serafico, ma alzò una mano e la agitò brevemente a indicare di andare avanti e non soffermarsi troppo su certe quisquilie. Erika Freire sospirò e andò avanti. Sorprendente quante informazioni potesse veicolare una semplice rotazione di polso, se la mente destinataria possedeva la giusta inclinazione recettiva e una discreta voglia di chiudere in fretta l’incontro. A dimostrazione di come lo scimpanzé a pelo corto, noto a se stesso come homo sapiens, sia fondamentalmente una forma di vita basata sulla comunicazione. O qualcosa del genere.
Comunque, la funzione principale degli pseudotafani pareva essere quella di raccogliere dati, anche se permanevano grandi misteri sulla loro natura precisa e il funzionamento come specie animale, di certo una specie molto insolita anche tra quelle scoperte nei vari pianeti colonizzati della galassia. I dati, sì, ci sto arrivando. Quale genere di dati? Gli studi erano ancora in corso, ma di certo dovevano essere inclusi sia campioni di sangue, sia probabilmente anche campioni di codice genetico del loro bersaglio. Quando un esemplare pungeva, la sua azione non sembrava mossa dal bisogno di nutrirsi, come avveniva invece per altri insetti analoghi, terrestri o meno. La puntura raccoglieva una certa quantità di sangue dalla vittima, ma il sangue non era poi assimilato: lo pseudotafano lo tratteneva in un’apposita sacca all’interno del proprio corpo e poi lo trasportava altrove.
«Trasportato dove?» chiese il capitano.
«Ancora non l’ho potuto determinare,» dovette ammettere Erika. «Penso che sarebbe necessario...»
«Continui coi fatti, la prego.»
Erika Freire continuò. Aveva compiuto alcuni tentativi di seguire esemplari di pseudotafano, quando si allontanavano dopo avere punto una persona, ma i droni utilizzati finivano sempre per perderne le tracce in una qualche zona alberata della base. Molto strano, già. A ogni modo, raccogliere il sangue e trasportarlo da qualche parte non era la sola funzione che quegli insetti sembravano svolgere. Per quanto imperfetto e incapace di sopravvivere se isolato dal resto dello sciame, il loro corpo aveva un grande numero di organi sensoriali, o almeno di quelli che sembravano corrispondere agli organi sensoriali di altre specie. Sembravano possedere una vista e un udito molto sviluppati, col che forse si poteva spiegare la loro abitudine di seguire con gli occhi i movimenti degli esseri umani: forse ad attrarli era la nostra forma, oppure una qualche altra caratteristica che...
«E in base a cosa lei dedurrebbe che ci spiino e raccolgano i nostri dati?» la interruppe di nuovo il capitano Nash, senza cambiare di un millimetro la sua espressione da mucca al pascolo.
Ecco una domanda a cui ancora non aveva saputo dare una risposta, perché il suo balzo logico non si basava su dati verificabili, ma su impressioni soggettive e quindi del tutto arbitrarie. Pure, doveva essere così, giusto? Bastava guardarli, bastava viverci in mezzo per qualche ora e lo capivi, senza bisogno di dati, senza bisogno di analisi, studi, altro. Quei maledetti sgorbi non ti mollavano per un istante! Erano attorno alle finestre, nei luoghi aperti dove gli abitanti della base si radunavano più di frequente, ancora un poco e te li trovavi persino nel cibo della mensa! E certe polpette, forse... Ma come lo spieghi al bovino umanoide che ti siede di fronte? Erika Freire sospirò e tentò, speranzosa come un depresso allo stadio terminale.
Spiegò che non lo poteva provare, non ancora, non in una forma che fosse verificabile, ma gli insetti seguivano lo stesso modello comportamentale che era già stato possibile isolare e che lei aveva per il momento etichettato come “mordi e fuggi”. Termine infelice, lo sapeva, e la faccia inespressiva di quel bue del capitano Nash glielo confermava senza parlare, ma Erika non era mai stata brava con le parole, non avevi bisogno di essere brava con le parole quando studiavi insetti per vivere, ma... Oh, pazienza. Comunque dopo avere punto e raccolto sangue, gli insetti svanivano in uno dei boschetti o parchi della base. Lo stesso accadeva dopo che avevano osservato a lungo una scena, specie se vi si era svolto un colloquio tra persone: volavano via e facevano perdere le proprie tracce ai droni che stavi usando per pedinarli. Il sorriso del capitano si allargò compiacente.
«Non le pare che potrebbero semplicemente volare via per qualunque motivo abbiano gli insetti per volare via?» le chiese. «Mi sembrerebbe la spiegazione più semplice e... più razionale, sa.»
Questo glielo doveva concedere. Semplice e razionale, giusto. Ma sbagliata, anche, e se soltanto le fosse riuscito di trovare un sistema per spiegarglielo, o meglio ancora provarglielo, allora...
«Ecco, guardi! Lo vede lì nell’angolo della finestra? Ce n’è uno. Lo vede? Lì in alto.»
Il capitano Nash si girò, guardò, localizzò l’insetto, si girò di nuovo verso Erika Freire e annuì. «Sì, lo vedo. Ma siamo abbastanza vicino a una zona alberata, che come lei insegna è lo habitat naturale per questa specie. Dunque?»
«Dunque quando avrà spiato abbastanza, o raccolto informazioni sufficienti, quell’insetto volerà via verso il parco più vicino e farà perdere le tracce a qualsiasi drone che volessimo usare per seguirlo.»
Il capitano annuì lentamente. «Sì, immagino che prima o poi volerà via. Come fanno tutti gli insetti, del resto. Anche le mosche terrestri tendono a volare via, dopo un poco. Il suo punto?» Sorrise con una compiacenza tutta bovina.
«Il mio punto è che vorrei afferrare questa tua bella scrivania e vedere fino a dove riesco a infilarla nel tuo ano,» non rispose Erika. Si massaggiò invece le tempie, respirò a fondo tre volte, radunò le idee e si arrese. «Il mio punto è che il loro comportamento sembra suggerire che, oltre al sangue, stiano raccogliendo e trasportando altrove anche informazioni sul nostro comportamento. Sul modo in cui agiamo, quantomeno, il modo in cui ci muoviamo, i suoni che emettiamo, anche l’odore che sprigioniamo, per quanto ne so. Ancora non posso provarlo o smentirlo, ma sembra che...»
«A me invece sembra che lei stia lavorando troppo,» sorrise il capitano. «La ringrazio per le nuove informazioni che ha saputo fornirci sul suo campo di studi, ma per il futuro la invito ad attenersi di più ai dati e meno alle interpretazioni arbitrarie. Vedrò se riuscirò a farle ottenere una breve pausa.»
Quella sera Erika Freire sedette a lungo col sergente Carla Hedges nel loro locale preferito e ancora più a lungo si lamentò del capitano, degli insetti e più o meno di qualsiasi altra cosa fosse possibile lamentarsi prima, durante e dopo l’assunzione di quantità considerevoli di alcool. Forse le sarebbe giunta come una buona notizia sapere che l’insetto posato sulla finestra del capitano Reginal Nash, e che dall’esterno aveva seguito tutto il loro incontro, era poi effettivamente volato via, perdendosi in mezzo agli alberi del vicino parchetto. Il capitano stesso lo aveva osservato staccarsi da vetro e svanire, aveva sorriso, quindi aveva contattato il generale Petkovic.
Che fantasia che avevano certi scienziati! Sempre che si potessero chiamare scienziati quelli che per tutto il giorno giocavano con gli insetti, come bambini dell’asilo. Il generale ne rise, scherzò un po’ di questo e quello, fece una battutina, lo ringraziò per l’ottimo lavoro, gli raccomandò di continuare a tenere sotto controllo quell’elemento, infine chiuse con un poco rassicurante «Al resto penseremo noi, se mai dovesse essere necessario pensare a qualcosa». Il capitano salutò e tolse il contatto.
Insetti che li spiavano! Davvero, molto fantasioso. Reginald Nash, Reggie per gli amici, si domandò di nuovo se fosse stata una saggia idea permettere a quella tizia di continuare i suoi studi nella base, o se invece non sarebbe stato più semplice e indolore ringraziarla, suggerirle di proseguire il proprio lavoro in altri campi, magari sugli insetti marini, e dimenticarsi di tutto. D’altra parte, l’idea non era di certo stata sua, per cui non sarebbero neppure state un problema suo le possibili conseguenze. Un problema molto più suo, semmai, era che in un modo o nell’altro quegli pseudotafani continuassero a causare fastidi di ogni tipo. Troppi, per i suoi gusti.
C’erano stati gli studiosi lakshmiti, quasi tre anni prima. Alcuni insetti li avevano punti e poi erano morti, in apparenza per sostanze che quei tizi avevano assimilato in anni di dieta lakshmita e ancora non avevano avuto il tempo di smaltire del tutto. Ne erano rimaste tracce nel sangue e quelle tracce non erano andate d’accordo con l’organismo degli insetti che li avevano punto. Sfortunato, certo, e in parte fastidioso, ma nulla di grave. Ai piani alti si erano dovuti inventare la quarantena, i rapporti tra i due pianeti erano stati tesi per un poco di tempo, ma adesso tutto sembrava risolto: c’erano altri esami da fare ai visitatori lakshmiti, era necessario purificare il loro sangue oltre alle vaccinazioni e agli altri trattamenti sanitari standard, ma ne spuntavano sempre di nuove quando avevi quasi una dozzina di sistemi solari e ancora più ecosistemi a cui pensare, e i visitatori si abituavano presto alle richieste più strane del personale medico nelle stazioni orbitali.
Il capitano Nash sospirò. Sapeva a cosa servissero quegli insetti e sapeva anche a chi (se si poteva poi parlare di un “chi”) portassero quei campioni. Non era ancora abbastanza in alto per conoscere tutti i dettagli, ma molto di ciò che non sapeva lo poteva dedurre, mettendo assieme i risultati che il suo reparto riceveva dai vari studiosi della base. Sapeva anche perché gli insetti sparissero proprio nei parchi della base e cosa ci fosse sotto ai nove parchi della base, un numero che appariva spesso stranamente alto a chi vi arrivava per la prima volta. Ma erano nove per una buona ragione, o forse per una ragione meno buona, ma pur sempre valida. Quel che facevano gli insetti era perfettamente legale, in linea con l’accordo che l’allora Direttore Leonardi aveva siglato al termine della oramai leggendaria seconda spedizione. Pochi conoscevano l’accordo, ma erano sempre pochi a conoscere i dettagli di qualsiasi accordo: questo non li aveva mai resi meno validi.
Spiare, tuttavia, non rientrava nell’accordo. Non per quanto ne sapeva lui, almeno: non poteva certo escludere che Leonardi avesse aggiunto clausole extra, note solo a lui e forse al ministro Hass, i due presenti in quella particolare occasione in fondo ai pozzi, ma se clausole c’erano, di certo non erano vessatorie per la Terra. Non sarebbe stato nello stile del vecchiaccio. Il capitano sorrise.
Tamburellò un poco le dita sulla scrivania, gli occhi persi in contemplazione della finestra. Non che ci fosse granché da contemplare, là fuori, e infatti lui non contemplava: aveva comunque bisogno di un punto su cui lasciar vagare gli occhi mentre pensava, e la finestra era una superficie buona come un’altra, nonché migliore di parecchie. C’era solo uno scorcio di strada, là fuori, dritta dritta tra due file di edifici uguali. Nessun passante, non adesso. Nessun insetto, non in vista.
Insetti, già. Sulla Terra una forma di vita inutile, buona solo da spiaccicare contro un muro o il vetro di una finestra. Pure, su altri pianeti non erano così inutili. Svarga ne aveva fatto quasi una specie di attrazione turistica, vanto del pianeta assieme ai suoi due soli (che poi, due soli era molto generoso: era stato su Svarga, lui, e avrebbe semmai parlato di un sole e una piccola luna lontana, ma valli tu a capire quei tizi), ma gli insetti che avevano loro erano intelligenti, da un certo punto di vista. Non li avrebbe definiti una cultura, come pretendeva un’altra sparata svarghiana, ma possedevano una loro vaga attrattiva, volendo. Per certi osservatori. Quelli di Madre, invece...
Li studiavano in molti, ma nessuno li capiva, perché a tutti mancava una informazione piccola, ma fondamentale: il dovere di loro militari, come il generale Petkovic ripeteva più spesso di quanto una persona di buonsenso avrebbe voluto sentire, era di assicurarsi che quella informazione continuasse a mancare. Soprattutto quando si parlava degli pseudotafani, i messaggeri personali di ciò che stava in fondo ai pozzi. Chiamala Madre, chiamalo pianeta, chiamalo come ti pare: erano parole e parole insufficienti per descrivere una realtà così grande. Grande e incomprensibile.
Al capitano Nash quella storia cominciava a non piacere più. Mettila come ti pare, ma loro stavano lavorando e collaborando con una intelligenza che di umano non aveva nulla: aliena, nel vero senso della parola e senza l’antiquata paccottiglia di dischi volanti, antenne e buffonate varie. Era sotto di loro, per adesso, ma lo sarebbe anche rimasta? E se sì, per quanto? E perché? Il generale Petkovic si poteva anche fare tutte le battutine che voleva, ridere e vantarsi, strombazzare la superiorità umana e il genio del dottor Leonardi, che aveva fregato questo e quello e conquistato per la Terra un alleato potente e ineguagliabile. Forse. Con molto ottimismo.
Con più realismo, quelli ai piani di sopra avevano agganciato la Terra a una intelligenza non umana, di cui poco sapevano e ancora meno capivano. Poteva solo augurarsi che tutto gli sembrasse tanto poco positivo perché poche erano anche le informazioni che gli avevano concesso. Più in alto sulla scala, forse, ne sapevano e capivano di più. Almeno alcuni di loro, se non tutti. Ma forse la colpa era soltanto del tarlo che quella tizia gli aveva infilato in testa.
Se Erika Freire, alias quella tizia, lo avesse potuto vedere adesso, non avrebbe trovato neppure una molecola muccosa nella sua espressione. La faccia tonta funzionava contro gli studiosi della base, i tizi sempre pronti a lagnarsi e cercare soldi, tempo, fondi, mezzi. Quando rimaneva da solo, invece, poteva anche concedersi il lusso di essere se stesso, pensare, ragionare. E il ragionamento che stava facendo adesso non gli piaceva granché. Ragionava che erano seduti su un alleato sconosciuto, che forse faceva molto più di quello che aveva promesso di fare e lo faceva per ragioni diverse da quelle che aveva dichiarato di seguire. E nella base viveva anche la sua famiglia.
Quante possibilità aveva di ottenere un trasferimento sulla Terra, se mai qualcosa avesse cominciato ad andare storto? Vi avevano appena spedito un tenente fresco di nomina, che aveva speso quasi tre anni in una missione sotto copertura, o così si diceva. Lo avevano spedito a casa come premio, ma anche perché non sapeva più di quanto fosse bene per lui sapere. Nash invece era in un reparto che doveva sapere anche troppo: a volte era un bene, ma a volte poteva anche diventare un male. Tipo in quel momento? Forse, magari, chi lo sa.
Ma forse era solo suggestione. Meglio non pensarci, meglio riposare, meglio lasciar passare un po’ di tempo e tornarci, semmai, a mente fresca e leggera. Tutto gli sarebbe apparso di un altro colore e magari sarebbe stato anche un bel colore. E gli pseudotafani trasportavano solo materiale genetico, che Madre raccoglieva e utilizzava per i propri esperimenti, mille chilometri sotto la superficie. Non ne era del tutto convito, ma per il momento gli doveva bastare.
Poi venne finalmente l’ora di abbandonare l’ufficio, rientrò a casa, suo figlio corse urlando verso di lui e gli abbracciò come sempre le ginocchia e tutti gli insetti volarono via, lontano dalla sua mente. Sarebbero tornati in futuro, ma il bello del futuro è che puoi fingere che non abbia niente a che fare col tuo presente, almeno per un poco, e almeno per un poco, a volte, è tutto il tempo che desideri.
Il generale Petkovic meditò a lungo su quella storia degli insetti spioni. Non gli piaceva. Ma proprio per niente. Col capitano Nash aveva minimizzato, attribuendo l’idea a una paranoia da novellina che deve misurarsi con le prime difficoltà di un incarico importante, l’ambiente diverso, paura di fallire, eccetera eccetera, e in effetti poteva essere proprio così. Forse. Ma potere è diverso da essere e una possibilità era qualcosa che il generale non gradiva mai, perché poteva sempre essere una possibilità negativa. O anche positiva, d’accordo, ma nella sua posizione Petkovic riteneva che fosse sempre e comunque opportuno partire dal peggiore dei casi e risalire gradualmente verso il migliore, se avevi una buona ragione per salire. E lui l’aveva? Al momento non lo sapeva dire.
Guardò verso la finestra e là, in un angolo, c’era proprio uno di quegli pseudotafani. Coincidenza, è ovvio. Insetti di quel tipo si vedevano spesso nella base, i nove parchi ne avevano in abbondanza e in abbondanza ne dovevi trovare di sicuro anche sotto i nove parchi, ma adesso ne aveva uno fermo in un angolo della finestra, attaccato al vetro esterno come un normale moscone terrestre. Ma non lo era, né normale, né moscone, né terrestre. Era tuttavia possibile che Madre avesse scelto di produrre insetti con quella particolare forma, proprio perché passavano meglio inosservati agli umani. Se...
Ma era paranoia, ovvio, e una persona nella sua posizione non si poteva concedere certe paranoie da bambino. Poteva concedersi paranoie di livello superiore, quando le circostanze lo richiedevano, ma ancora le circostanze non lo richiedevano, dunque gli insetti erano solo insetti e tutto il loro lavoro cominciava e finiva con la raccolta di materiale genetico per Madre. Punto. Requisire la ricercatrice per farli studiare meglio era stata una perdita di tempo: sarebbe stato molto più redditizio indurla a trovarsi un altro argomento e dimenticare l’intera faccenda.
Solo che.
Il generale Petkovic guardò di nuovo verso la finestra e l’insetto era sempre là. Quanti suoi colloqui e incontri si erano svolti con un qualche esemplare di pseudotafano sulla finestra? Saperlo! Quando mai fai caso agli insetti all’esterno della tua finestra? Mai. È normale che ce ne siano ed era ancora più normale nella base, se avevi un parco nelle vicinanze. Se poi sapevi a cosa servissero gli insetti in questione, scivolavano semplicemente nel tuo angolo morto.
Con un sospirò richiamò sullo schermo la relazione che quella Freire aveva consegnato al capitano Nash. Sistema nervoso troppo primitivo, incapaci di esistenza autonoma, compongono una rete che permette loro di svolgere funzioni, biologiche e non, superiori a quelle che potrebbero svolgere coi mezzi di cui sono dotati individualmente. Potrebbe servire anche a raccogliere e trasmettere vari tipi di informazioni. Eccetera eccetera, il tutto infiocchettato di termini che il generale non capiva e che non aveva neppure intenzione di capire. Quello era il lavoro di gente come il capitano Nash.
Nessuna prova, ma allusioni e ipotesi in abbondanza. Non era bene. Petkovic conosceva la storia del primo gruppo di esploratori, almeno tutta la parte che era stata possibile ricostruire. Quella celebre prima spedizione, in seguito alla cui scomparsa era stata inviata la seconda spedizione, di cui lui era stato parte. Per il comandante Salo e gli altri della prima spedizione i contatti erano cominciati dagli insetti. Non era chiaro quale specie, ma l’ipotesi dominante tra chi aveva accesso alle informazioni era che si trattasse proprio degli pseudotafani, in apparenza messaggeri preferiti di Madre. Avevano punto almeno un membro della spedizione, che era poi stato male per shock anafilattico, o magari qualche reazione allergica. Vallo a sapere. Nessun medico lo aveva mai potuto visitare: difficile, se il qualcuno in questione era disperso da oltre trent’anni.
Potevano davvero avere anche altri ruoli? Controllori, per esempio? Occhi e orecchie del pianeta in superficie, mandati a verificare che gli umani rigassero dritto?
Il generale continuò a pensarci ancora per un poco, poi mandò all’inferno tutto quanto e per il resto del giorno non ci pensò più. Aveva altro lavoro, più urgente. Quel gruppo di ricercatori in arrivo da Agni, che non erano proprio un problema dei militari, d’accordo, ma Leonardi esigeva che lui se ne occupasse, perché non si fidava di quella D’Antona, vicegovernatore e archeologa capa, e così lui se ne sarebbe occupato, sempre pronto a obbedire, signorsì comandi. Doveva predisporre per loro una discreta ma continua sorveglianza, assicurarsi che si mantenessero sempre in aree ben delimitate del pianeta, che guardassero solo quello che erano autorizzati a guardare, che insomma se ne restassero il più possibile fuori dalle palle e tornassero a casa senza sapere nulla più di quando erano arrivati.
Un lavoro che non rientrava tra le sue responsabilità. A lui era assegnato il controllo dei pozzi, non dei movimenti di civili in altre aree del pianeta: quella rottura di scatole toccava a Staplewood, che era pure comandante in capo e a maggior ragione avrebbe dovuto spalare l’immondizia peggiore, si sa: noblesse oblige o quello che è. Ma Staplewood apparteneva alla fazione sbagliata, lui era dalla parte del ministro Hass e il ministro Hass aveva idee assai diverse da quelle di Leonardi su come si dovessero gestire gli accessi al pianeta, quindi Leonardi non si poteva rivolgere a lui, ma lo doveva ordinare a Petkovic, che invece apparteneva alla fazione giusta, e poi tutto cominciava a incasinarsi davvero ed era meglio fare retromarcia. Potevi perderci il cervello, lungo quella strada.
Il punto era che il generale Petkovic si doveva occupare di quegli studiosi agniani. Di nascosto. E se si doveva occupare di quegli studiosi agniani, in arrivo a breve, non aveva tempo di occuparsi anche di qualche tafano, che in fondo non facevano niente di male. Forse. Probabilmente. Poteva tuttavia nominarli alla lontana nel prossimo messaggio per l’Ufficio e lo avrebbe fatto, certo. Giusto come il più en passant degli en passant, una nota a margine per dare colore agli eventi, una curiosità, tanto per togliersi il pensiero e poter dire eventualmente, a posteriori e alle facce da posteriore, che lui li aveva avvisati, eccovi le prove, e se poi loro non avevano ascoltato, beh, mica era colpa sua, no?
Sì, avrebbe fatto così. Lo scaricabarile era sempre la soluzione migliore ai problemi che non sapevi come affrontare, risolvere o dissolvere. Se poi non sapevi neppure se fossero un problema reale o un problema immaginario, tanto di guadagnato: ci avrebbero pensato altri. L’importante era che i pozzi fossero e rimanessero tranquilli e sicuri e al momento erano entrambe le cose: tranquilli e sicuri.
Quando poi il generale ricevette la notizia che il gruppo di Agni era arrivato alla stazione orbitale, il pensiero degli pseudotafani abbandonò definitivamente la sua mente conscia, senza lasciarsi dietro neppure la più lieve traccia di esistenza. Anche nel suo caso sarebbe ritornato, più avanti, ma anche nel suo caso più avanti era appunto più avanti, luogo fantastico e in parte mitico che si colloca nelle lande più sconosciute e inesplorate del futuro, dunque remoto a sufficienza dalla via presente da non costituire una reale preoccupazione. Non sempre, almeno, e non per tutti.
Nel suo piccolo studio aggregato all’ospedale della base militare, Erika Freire proseguiva intanto le
ricerche sugli pseudotafani, quei meravigliosi, orrendi insetti che le erano stati rifilati contro la sua volontà ma che da un certo punto di vista avevano cominciato a interessarla, in una prospettiva del tutto accademica e molto distante. Avrebbe preferito interessarsene a una certa distanza, magari due o tremila chilometri o anche un altro pianeta di un diverso sistema solare, ma in mancanza di meglio le toccava conviverci e tenersene sempre una teca (speciale, per non bloccare le trasmissioni) nello studio. A volte la copriva con un lenzuolo, quando proprio non ne poteva più dei loro sguardi, ma di solito la doveva tenere scoperta, per osservarne le attività.
Come se ce ne fossero. Ricordando quello che era accaduto in città col terrario di scarafaggi anfibi, si procurò per vie traverse qualche insetto di specie diversa e provò a collocarlo nella stessa teca dei suoi non amati pseudotafani. I nuovi arrivati ne sarebbero stati influenzati in un qualche modo? Lo sperava e in parte se lo aspettava, ma per qualche ragione non accadde: le due specie si ignoravano, continuavano a svolgere le proprie attività abituali e non pareva esserci alcun segno che si fossero anche solo accorte di avere compagni di cella. Esperimento fallito.
Un cambiamento però lo aveva notato, che rafforzava (ma non provava, maledizione) le sue ipotesi su una possibile trasmissione di dati da un esemplare all’altro. Di tanto in tanto sulla finestra dello studio si posava uno pseudotafano: di solito in un angolo, quasi mimetizzato sullo sfondo, simile a un lieve alone sul vetro. Quando accadeva, uno degli esemplari chiusi nella teca si spostava sul lato della finestra e restava immobile per alcuni minuti, rivolto verso il collega all’esterno. Poi l’insetto sulla finestra volava via e tutti quanti tornavano a fissare lei e i suoi movimenti. Erika aveva filmato la scena più di una volta, contando di poterla portare come testimonianza al successivo incontro col capitano Nash, ma ancora non l’aveva usata. Perché?
Perché era una scena stupida, doveva ammettere a se stessa. Poteva avere un senso soltanto se tu, in partenza, eri già pronta a darle proprio quel particolare senso che ti interessava. Se la guardavi da un angolo più obiettivo e imparziale, invece, un insetto che si spostava per osservare un proprio simile poteva avere molti altri significati, d’accordo, e magari poteva anche indicare notevoli capacità di riconoscimento, spirito gregario, quel cavolo che ti pare, ma nessuno avrebbe pensato che stessero scambiando informazioni come carcerati. Per convincere qualcun altro che costituivano a modo loro una rete di sorveglianza servivano prove, prove oggettive, e di prove oggettive ancora non ne aveva sapute trovare. Solo indizi, per chi era già predisposto a volerli vedere.
Ma avrebbe continuato a cercare. Non aveva molto altro da fare, no?