La galassia di Madre - 1
L’ascensore spaziale incombeva su di lui come il futuro, in quel giorno di inizio settembre. Perché era il suo futuro, da un certo punto di vista. La porta sulla sua nuova vita, per essere più precisi. Il ponte verso un domani luminoso. Eccetera, eccetera.
Da un altro e più prosaico punto di vista, era un altissimo pilone, che svaniva nel cielo, ma Matteo Kori preferiva vederlo in una prospettiva più poetica ed epica, mentre si preparava ad abbandonare la Terra. Il suo futuro, almeno per i prossimi anni, si sarebbe svolto su Lakshmi, uno dei mondi coloniali. E poi... ma al poi avrebbe pensato poi. Prima avrebbe dovuto studiare, laurearsi e magari costruirsi una rete di contatti e conoscenze. Una manciata di contatti, se non altro. Trovare qualcuno disposto ad assumerlo, se tutto il resto fosse fallito. Nelle condizioni attuali, avrebbe accettato più o meno qualsiasi cosa, elemosina inclusa.
Matteo respirò a fondo, attendendo il proprio turno di salire. Moderatamente alto, decisamente secco e ossuto, con corti capelli di un incerto castano ramato e occhi da animale sorpreso dai fari di un’auto, non rappresentava forse l’esemplare migliore di prossimo studente universitario, ma questa non era una novità, per lui: non sentiva di aver mai rappresentato l’esemplare migliore di alcuna cosa, nel corso dei suoi diciannove anni di vita, a parte forse l’esemplare migliore di se stesso. Il che non era sempre e necessariamente un bene, doveva ammetterlo. «Ma cambierò» si ripromise per la trentaseiesima volta. «Nuovo mondo, nuova vita, nuovo tutto. È la mia grande occasione».
«Hai detto qualcosa?»
La voce di Davide lo riportò alla realtà, che per il momento era ancora il pianeta Terra. Suo fratello lo stava fissando, con una certa dose di curiosità e, sospettava Matteo, una razione abbondante di derisione. Aveva sempre riso di lui, Davide. Non con cattiveria, non nella maggior parte dei casi, ma erano comunque risate e non facevano molto bene all’autostima. Soprattutto quando a ridere era un fratello di tre anni più giovane, che spesso e volentieri sembrava però più maturo di te.
«Pensavo ad alta voce,» rispose Matteo, senza guardarlo negli occhi. Davide Kori era una brava persona, in termini generali, e a modo suo lo si poteva anche considerare responsabile, per essere ancora uno studente liceale, ma non era certo l’accompagnatore che avrebbe voluto, per il viaggio alla stazione. Si sentiva sempre a disagio, in compagnia di un fratellino che era migliore di lui in più o meno tutte le attività che non richiedessero un uso eccessivo del cervello. Non che fosse stupido, Davide: il cervello lo sapeva usare, ma era una di quelle persone orientate più verso il piano fisico e pratico, che verso quello teoretico. Inoltre, aveva pure un aspetto migliore di Matteo, che ricordava invece un topo annegato male.
Eppure Davide era lì, assieme a due degli ex compagni di scuola di Matteo, per i quali il viaggio fino all’ascensore rappresentava sia l’ultimo saluto a un amico (l’estremo saluto, come la mettevano loro, scherzando), sia l’avventura conclusiva della estate di libertà post diploma. Quattro ragazzi male assortiti, che attendevano l’ascesa verso la stazione, quarantamila chilometri più in alto. Da là, uno di loro sarebbe partito, verso un altro pianeta in un altro sistema solare. Saluti, niente baci e poi il viaggio di ritorno a casa. Ecco cos’era quella esperienza.
Davide si era accodato, pur essendo il più giovane. La madre non aveva brontolato troppo, anche perché sapeva che non sarebbe servito. Non la ascoltava mai, Davide. Non ascoltava mai nessuno, se era per quello, almeno non consapevolmente, anche se spesso si lasciava influenzare da chi gli stava attorno. Purché non fosse un membro della sua famiglia, ovviamente. E poi, la loro madre non apparteneva alla razza delle chiocce iperapprensive e iperprotettive. Non se lo poteva permettere. Al lavoro tutto il giorno, aveva sempre dovuto confidare nei propri figli e nel loro ipotetico istinto di sopravvivenza, per ritrovarli ancora vivi ala sera, quando rincasava. Finora aveva funzionato.
Poi fu il loro turno di salire e Matteo rimosse ogni altro pensiero.
I suoi bagagli erano già stati spediti e presumibilmente lo attendevano nella stiva della nave. Se non altro, in teoria sarebbe dovuta andare così e, in un suo momento di insolito ottimismo, Matteo scelse di pensare che tutto si fosse svolto a dovere. Era il turno del bagaglio umano, adesso. E di bagaglio ce n’era parecchio, almeno in quella cabina assieme a lui. Alcuni incollati ai vetri, a godersi la vista, altri seduti a leggere, ascoltare musica o altro, altri ancora seduti e basta, con gli occhi chiusi e facce da cadaveri usati. Gente che non andava molto d’accordo con le altezze, si poteva presumere.
Matteo e il suo gruppetto erano tra quelli attaccati ai vetri. O a qualsiasi cosa fosse la sostanza trasparente, che componeva parte delle pareti. Non vetro normale, immaginava Matteo, ma qualcosa di più resistente. Forse. Con tutta probabilità. Al momento, però, i vari problemi di architettura e ingegneria non erano proprio al centro dei suoi pensieri. Non con la Terra che, a poco a poco, si allargava (o si restringeva, a seconda dei punti di vista) sotto di lui. Sotto di loro.
Non era una immagine nuova. Con tutta probabilità, non esisteva bambino che non l’avesse già vista almeno una volta, su un qualche tipo di schermo, a scuola o altrove. Era una immagine familiare, la più familiare per un terrestre, tanto quanto può esserlo la propria faccia. E, proprio come la propria faccia, ritrovarsela davanti, all’improvviso, era spesso una sorpresa, non sempre piacevole. Salendo nel cielo, a una velocità che non avrebbe saputo quantificare nemmeno sotto tortura, la visuale si allargava, abbracciando sempre più terra su quel lato del pianeta.
«Si vede anche casa nostra» disse Davide. «Beh, più o meno» si corresse subito dopo.
Era vero. L’ascesa aveva ormai reso visibile anche il Mediterraneo, lassù a nord, fra sfilacci bianchi e biancastri di nuvole. E là, lingua di terra allungata nel mare bluastro, c’era anche il paese in cui vivevano. Come un piede in una pozzanghera, si poteva dire, ma si potevano anche utilizzare altre metafore, molto meno piacevoli ma, da un certo punto di vista, più appropriate. Matteo non le usò.
«Casa vostra, semmai,» rispose, con sicurezza simulata male. «La mia nuova casa sarà da tutt’altra parte, d’ora in poi.»
Davide lo guardò, sollevando un sopracciglio, in quella che Matteo considerava la sua espressione più classica e che gli aveva sempre invidiato, non essendo lui capace di imitarla. Il gene del singolo sopracciglio sollevato doveva aver seguito strani percorsi, nel genoma di famiglia. Neppure la mamma lo possedeva. Non che le interessasse, in realtà, ma quello era un altro discorso.
«Vedremo quanto durerà la tua nuova casa,» disse Davide. «Per me, tra qualche mese sarai già di ritorno piangendo, con la coda tra le gambe. Come ha detto la mamma.»
«Sarò di ritorno dopo essermi laureato, non prima. E chissà, magari non tornerò proprio,» aggiunse. «Potrei anche trovarmi bene e rimanere là a lavorare, per il resto della mia vita.»
Davide non commentò, ma lasciò che a rispondere fosse la sua espressione. Raccontava di una dose quasi infinita di fiducia nell’incapacità del fratello, unita alla certezza incrollabile che non avrebbe avuto la forza di cavarsela da solo, non ad anni luce da casa. Matteo non apprezzò e distolse lo sguardo, tornando a fissarlo sulla Terra laggiù, che fuggiva da loro.
Perché si era portato quella piattola? Aveva pensato che sarebbe partito da solo. Aveva sperato di poter partire da solo, immaginandosi nei panni eroici e melodrammatici di se stesso, ritto contro il nero dello spazio, che abbandonava la Terra da solo, senza un saluto, per affrontare l’ignoto di altri mondi, altre culture, altre civiltà. Invece aveva un fratello minore che lo derideva, due amici che si divertivano a fotografare e filmare il panorama e la convinzione, giunta da chissà dove, che la sua nuova vita stesse già partendo molto male e che non sarebbe stata migliore dalla vecchia.
La Terra, intanto, era sempre più piccola e sempre più luminosa, sotto di loro. Occupava tutto lo spazio visibile, fuori dal finestrino, ma i profili dei continenti diventavano più abbozzati, calavano i particolari, smetteva di essere una mappa, per mascherarsi da disegno di bambino. E la stazione era vicina. Matteo si guardò attorno, guardò i passeggeri che salivano assieme a lui. Alcuni sarebbero forse partiti con lui, sulla stessa nave; altri se ne sarebbero andati per i fatti propri; altri ancora erano forse lì per accogliere qualcuno, un amico o un parente che tornava. Facce, ignote e indifferenti.
Per la prima volta si sentì davvero nervoso e spaventato, all’idea di dover affrontare da solo un intero mondo sconosciuto, fatto di gente sconosciuta, anonima, come quella che si trovava nella cabina dell’ascensore. Gente che era soltanto una faccia, senza un nome o una storia, gente a cui lui non interessava, gente che lo avrebbe ignorato. Come lo avrebbero accolto, a Lakshmi? La storia gli aveva insegnato che le relazioni tra la Terra e le colonie non erano state proprio idilliache e che non lo erano neppure adesso, pur essendo notevolmente migliorate rispetto al passato. C’erano state di mezzo anche guerre, tra quelli che volevano partire e quelli che rimanevano, guerre per decidere quale dei blocchi di potere si sarebbe preso lo spazio. Guerre che avevano vinto gli altri.
Adesso era tornata la pace, grossomodo, e un nuovo clima di collaborazione permeava lo spicchio di galassia in cui gli umani vivevano: le antiche divergenze di opinione erano state sepolte, tutti gli uomini erano uguali, avrebbero camminato assieme verso un futuro luminoso e palle varie. Matteo si sorprese a chiedersi, con notevole ritardo, se anche sugli altri pianeti la pensassero così, o almeno se anche loro avessero ricevuto gli stessi messaggi pubblicitari, dai rispettivi governi. Poteva solo sperare di sì, a quel punto.
Perché non si era informato prima? Ottima domanda, sì, peccato solo che non avesse una altrettanto ottima risposta da dare. Non si era informato, perché non si era mai interessato molto di queste cose. Perché preoccuparsi di politica interplanetaria, quando c’era un universo letterario e linguistico ad attenderlo? Posizione piuttosto stupida, per chi progettava di andare all’estero a studiare, ma ormai era andata così ed era troppo tardi per rimediare. Alzò le spalle, concentrandosi sul panorama e sulle chiacchiere dei compagni. Non li avrebbe rivisti per molto tempo.
Poi la cabina concluse la sua ascesa e una nuova pagina di pensieri si aprì per Matteo Kori, assieme alle porte che lo separavano dalla stazione vera e propria, al vertice dell’ascensore spaziale. Non era certo di cosa si sarebbe dovuto aspettare, ma non era molto diverso da ciò che vide. O almeno, non in quel primo tratto.
La stazione si presentò come uno spiazzo immenso, o almeno estremamente grande, e in questo superava le sue aspettative. Luccicava di metallo ed era sovrastato da una cupola trasparente, che lo spazio colorava di nero. Più o meno nero: qualche punto di luce era visibile, forse stelle o forse vari satelliti artificiali. Matteo e l’astronomia non erano mai stati grandi amici e non avrebbe saputo dire quale fosse la differenza tra le due categorie, almeno alla vista: erano tutti puntini luminosi nel cielo e non rimanevano a lungo nella stessa posizione, naturali o artificiali che fossero.
Dettagli secondari. Sulla destra, emergendo dall’ascensore, la faccia variopinta e plasticosa di vari edifici sorrideva ai nuovi arrivati: il serpente dei passeggeri si dirigeva in quella direzione, a passo più o meno sicuro e convinto. Matteo giudicò che, come spesso accadeva in quelle circostante, i più esperti viaggiatori guidassero il gruppo e gli altri seguissero a gregge. Gli altri come lui, che non si erano mai staccati da terra in precedenza. Da terra o dalla Terra.
A sinistra, invece, oltre uno schermo di protezione in un materiale che non avrebbe certo saputo riconoscere, si stendeva una enorme spianata, che inghiottiva la maggior parte dello spazio di quella stazione. A intervalli regolari, erano distribuite alcune navi da passeggeri, parcheggiate in attesa del proprio cargo umano. O almeno, Matteo giudicava che dovessero essere navi da passeggeri, in base a quel poco che aveva sentito sul funzionamento del luogo. I mercantili erano sistemati sotto, nella pancia della stazione, dove le merci erano caricate e scaricate. Si augurava che non gli avessero raccontato balle.
«Qual è la tua?» gli chiese Davide, fissando le navi.
Matteo alzò le spalle. «Non lo so, dovrò informarmi all’imbarco.» Che presumibilmente era in uno di quegli edifici, verso cui tutti stavano camminando. «Andiamo!» disse, e afferrò il fratello per un braccio, trascinandolo con sé verso gli edifici della stazione. Gli altri due accompagnatori seguirono come satelliti, tra una foto e l’altra. Contava di poter trovare qualcuno, o anche qualcosa, che gli indicasse la sua nave. Sapeva di doversi presentare all’imbarco 13-C, ma non aveva la più pallida idea di cosa fosse o dove fosse. Aveva bisogno di un ufficio informazioni, o almeno di un cartello.
Fu la musica a colpirli per prima, non appena entrati nel primo e più grande edificio. Squilli di tromba, un coro di voci e un motivetto di sottofondo, del genere che non riesci mai a individuare con precisione, ma che ricordi sempre di aver già sentito da qualche parte, o almeno una qualche sua variante. Un motivetto allegro, quasi una marcia, molto vivace.
«E quelli cosa sono?» chiese Davide, ma Matteo non aveva risposte da dare. Aveva solo una bocca incredula che si spalancava, mentre gli occhi si puntavano sulla origine della musica. No, non aveva senso. Poteva essere una scena da sogno, di quelli che popolano una notte agitata, con febbre in lenta ascesa, ma non certo una realtà. Eppure lo era. L’aveva davanti agli occhi.
Nell’ampio salone di ingresso dell’edificio, dalle pareti insonorizzate e riflettenti, si svolgeva uno spettacolo che Matteo credeva estinto da un paio di secoli almeno, da quando anche l’ultimo circo aveva chiuso l’attività, trasformandosi in curiosità per antiquari e, talvolta, archeologi. Dieci o più persone, vestite da angeli, camminavano su trampoli molto lunghi, la testa a sfiorare quasi il soffitto dell’atrio. Dietro di loro, altri angeli sui trampoli si muovevano, col passo leggero e aereo che puoi ottenere soltanto in luoghi a bassa gravità, come era appunto la stazione. Ai lati, uomini con strani costumi medievali sollevavano trombe dorate e le suonavano in perfetta armonia, mentre da qualche parte doveva essere nascosto un coro, che intonava un canto gregoriano: lo sentivano, ma non lo vedevano. Giochi di luce e di colori avvolgevano lo sfondo, per proiettare la scena in una irrealtà completa, vertiginosa, come vertiginose erano le acrobazie del gruppo di giocolieri che si spostava da un lato all’altro, su quel palcoscenico improvvisato, lanciando e poi riprendendo con notevole coordinazione oggetti di ogni forma e colore. Più indietro ancora, rivolti in direzione di un secondo ingresso, c’erano altre persone, sempre in abiti antiquati, impegnate in qualche attività che si poteva vedere solo a tratti, nascoste com’erano dal movimento degli angeli.
Matteo si guardò attorno, perplesso, e fu sollevato nel vedere la stessa perplessità anche sui volti di altri viaggiatori, probabilmente novellini come lui, che assieme al suo gruppetto avevano viaggiato in ascensore e che adesso, sempre assieme a loro, erano entrati in quell’edificio. Qualunque cosa fosse, non era l’unico a non conoscerla. Soltanto quei passeggeri con l’aria da veterani sembravano non essere interessati e si allontanavano in fretta, dopo aver concesso allo spettacolo uno sguardo distratto e niente più. Forse lo conoscevano già, o forse non li riguardava.
«Che cos’è?» chiese di nuovo Davide.
«Non ne ho idea,» rispose Matteo. «Magari è uno spettacolo per i nuovi arrivati, oppure un qualche tipo di pubblicità, non saprei...» Lo stesso dubbio si rifletteva sul volto degli altri due compagni di viaggio, che aggrottavano la fronte e scuotevano piano la testa, davanti allo spettacolo.
Non sapeva cosa fosse, ma sapeva che non gli piaceva. Era assurdo, era sbagliato. «Vieni, andiamo a cercare il mio imbarco» disse, afferrando di nuovo il fratello per un braccio. «Qualunque cosa sia, di sicuro non mi riguarda.»
Per qualche metro dovette trascinarlo, poi Davide si decise infine a seguirlo di propria spontanea volontà, o quasi. Si girava ancora a guardare lo spettacolo, di tanto in tanto, almeno fino a che non ebbero girato un angolo e tutto fu nascosto alla loro vista. Matteo ne fu sollevato, anche se non si sapeva spiegare il perché. Era una scena che trovava sgradevole, tutto qui.
Un uomo in divisa grigia, poco più avanti lungo il corridoio, si appoggiava alla parete, con l’aria di chi si sta prendendo una breve pausa da un lavoro poco gradito. Portava una targhetta sul petto, che lo identificava come impiegato della stazione, di nome G. Roux. Si diressero verso di lui, sfidando la sua lieve smorfia di fastidio, e Matteo gli chiese informazioni sul misterioso imbarco 13-C.
«È il mercantile per Lakshmi, da quella parte,» rispose G. Roux (Giovanni? George? Gilles?), con la mano destra che puntava verso un corridoio. «Sotto di un piano, poi seguite gli avvisi luminosi sulle pareti. La partenza è tra quarantasette minuti, credo.»
«Grazie,» rispose Matteo e si sarebbe avviato subito verso l’imbarco, ma Davide liberò il braccio dalla sua presa e si rivolse al signor G. Roux. «Cos’è quello spettacolo con gli angeli, là all’ingresso della stazione? Un modo per accogliere i passeggeri?» gli chiese.
G. Roux sorrise storto. «No, non è roba nostra, per carità! È una pubblicità voluta dall’Ufficio per la Colonizzazione. Secondo loro dovrebbe invogliare la gente a emigrare su Madre, la nuova colonia, ma è la solita storia, un modo per mangiare un po’ di soldi,» e si strinse nelle spalle, con una smorfia. «Il Teatro di Oklahoma, è così che lo chiamano. Pubblicità, niente di che. Ad alcuni piace, altri lo trovano stupido.»
Davide fissava ancora l’inserviente e forse avrebbe fatto altre domande, ma Matteo lo afferrò di nuovo e sbuffò. «Andiamo, o perdo il volo!» Davide fissò il fratello, poi scollò le spalle a propria volta. «Andiamo pure, ok. Piattola che non sei altro.»
Andarono. Per Matteo la storia del teatro di Oklahoma si sarebbe conclusa lì, qualunque cosa fosse, e a lungo se ne sarebbe dimenticato, nei suoi primi mesi su Lakshmi. Per Davide, tuttavia, lo stesso non si poteva dire. Ci avrebbe pensato ancora, e molto. Ma dopo, in un futuro che al momento non poteva immaginare. Per adesso, c’era solo il fratello in partenza e lui ad accompagnarlo, assieme ad altri due. Lo accompagnò, continuando però a guardarsi attorno, per assorbire tutte le novità che lo assalivano da ogni angolo. Non era proprio contento che Matteo partisse e non era contento che gli avessero impedito di osservare tutto lo spettacolo, ma a quello avrebbe pensato poi. Rimaneva pur sempre il viaggio di ritorno, almeno per lui, e lì Matteo non ci sarebbe stato.
Se lo spettacolo fosse stato ancora in corso, lo avrebbe guardato a volontà.
Il turismo interstellare non rappresentava proprio un settore fiorente dell’economia terrestre. Per essere più precisi, non si poteva neppure dire che rappresentasse un settore, date le sue trascurabili dimensioni: troppo alti i prezzi per un cittadino normale, era un bene di extralusso, accessibile solo a un numero esiguo di terrestri, i quali peraltro non parevano particolarmente interessati a visitare altri sistemi solari. Chi partiva per una colonia, di solito, lo faceva per studio o per lavoro, o in rari casi per emigrare in via definitiva, e nessuno di questi poteva essere definito turista. In un futuro più o meno vicino, forse, le tariffe si sarebbero abbassate e un turismo vero e proprio sarebbe nato, ma quel futuro pareva ancora alquanto distante, quando Matteo ebbe raggiunto la sua nave.
La nave in questione era un mercantile, scelta quasi inevitabile per la maggior parte dei viaggiatori terrestri, o dei migranti terrestri. Il prezzo era ragionevole, o quantomeno era accessibile alle sue tasche (ma aveva dovuto lavorare durante tutte le estati del liceo, e talvolta non solo in estate, per poterselo permettere), e qualunque nave in partenza teneva sempre un certo numero di cabine libere, per viaggiatori comuni. Era una specie di servizio pubblico: se eri disposto a sopportare spazi più stretti del normale, compagni di stanza non necessariamente gradevoli e varie altre scomodità, avevi a tua disposizione un mezzo per raggiungere il tuo nuovo posto di lavoro, di studio, o anche la tua nuova casa. E l’armatore aggiungeva qualche spicciolo extra alle entrate, che è sempre positivo.
Il viaggio interstellare, turistico o meno, era un settore ancora primitivo per la Terra, o almeno per quei terrestri che erano rimasti a vivere sulla Terra. Il discorso cambiava per i primi coloni, ma il discorso cambiava sempre per loro. Era una vecchia storia e le ferite non erano ancora del tutto risanate, anche se sul piano ufficiale si era ormai tutti amici. Formalmente non esistevano differenze tra Terra e colonie, ma in pratica erano mondi a parte. E non solo sul piano astronomico.
Il viaggio interstellare era la soluzione alla crisi ecologica che alcuni paesi avevano messo a punto, circa tre secoli prima, quando l’estinzione di massa dell’Olocene si stava trasformando da minore a maggiore, spazzando il pianeta, e l’unica via pareva quella di fuggire come topi dalla nave che affonda. Altri paesi, che invece volevano risolvere la crisi con un drastico intervento chirurgico sulla struttura stessa del pianeta, per ricostruirlo a misura d’uomo, non avevano apprezzato quel tipo di soluzione, ritenuta anche un pericolo sul piano della sicurezza nazionale. Via dello spazio o via del risanamento terrestre: sul piano economico, se ne poteva sostenere solamente una. A decidere quale, era stata una guerra tra i due blocchi.
Aveva vinto il primo gruppo di paesi, che si era così lanciato in un progetto di colonizzazione ad ampio raggio, che in un modo o nell’altro era riuscito, anche se a prezzi schifosamente alti, sia sul piano economico che umanitario. Il secondo gruppo era rimasto, cercando di rimettere assieme i cocci del pianeta e campando con gli avanzi. Una seconda guerra, quasi un secolo dopo, aveva poi siglato una scissione in apparenza definitiva nella razza umana, tra chi era partito e chi era rimasto, con scambi ridotti al minimo tra i due blocchi. La Terra si era tenuta stretta il suo sistema solare, sfruttandolo in ogni forma possibile, e dei viaggi interstellari non si era più parlato. Per un po’, almeno.
Oggi il discorso era cambiato. Era trascorsa ormai una cinquantina d’anni dal disgelo definitivo tra le colonie e la Terra, i rapporti erano passabili, se non proprio buoni, e il viaggio interstellare era di nuovo accessibile a tutti. Il governo terrestre aveva cominciato a lavorare a un progetto per nuove colonie, le vecchie colonie si comportavano da fratelli maggiori, relativamente benevoli e un poco condiscendenti, e tutti si incamminavano felici verso un luminoso futuro. Grossomodo.
Per questi e altri motivi, il prezzo di un biglietto per un mondo coloniale era schifosamente alto e la qualità del viaggio era alquanto bassa. Per questi e altri motivi, Matteo fissava ora il portello di un mercantile, preparandosi a salire a bordo, mentre Davide lo filmava e sogghignava.
«Bene. Questa è la nave per Lakshmi,» disse Matteo, consapevole che quella frase non sarebbe mai entrata fra i detti famosi di uomini celebri e nessuno in futuro l’avrebbe mai citata. Non proprio la partenza eroica che aveva fantasticato per sé, ma al momento aveva altri problemi e l’eroismo si poteva accomodare in fila e aspettare il proprio turno. Toccava alla crisi di panico, adesso.
Il mastodonte metallico che aveva di fronte gli spediva scariche di paura come se non ci fosse un domani, quel panico particolare che coglie prima di un grande debutto, dietro le quinte, in attesa che venga il proprio turno per salire sul palcoscenico. O almeno quello che Matteo immaginava potesse colpire un attore, o un qualche altro professionista serio. Non voleva accettare che fosse il panico di un bambino che ha scoperto, all’improvviso, che la riva è lontana e sotto ai propri piedi c’è soltanto altra acqua.
Ridicolo! Non c’era niente di cui aver paura, al momento. Niente di particolare, niente di strano, niente di speciale. Era solo uno studente, che partiva verso la nuova università: un poco più lontana del vecchio liceo, ma niente che meritasse una crisi di panico. A parte il fatto che l’università era su un altro pianeta, a quindici anni luce dalla Terra, e in una società completamente diversa dalla sua; un pianeta dove si parlava una lingua incomprensibile, che lui aveva studiato per più di un anno su vari tipi di manuali e corsi, ma che, adesso, quasi non ricordava più, neppure una parola, neppure il discorso di presentazione che aveva preparato e imparato a memoria durante gli ultimi due giorni a casa. Sì, forse dopotutto un certo panico era giustificato. Un poco.
«Bene,» disse ancora, fissando la nave. «Bene.»
«Bene cosa?» chiese Davide, fissandolo. Alzò anche un sopracciglio, ben consapevole che il gesto infastidiva sempre il fratello. Tutta invidia, perché non ne era capace.
«Bene. Adesso salgo a bordo e, beh, parto, no?»
«Sali a bordo e parti, buon viaggio. Ti abbiamo accompagnato apposta, no? O hai cambiato idea?»
«Non ho cambiato idea. È solo che...»
«Ti stai cagando addosso, giusto?»
«Sto riflettendo sulle asperità del viaggio e su ciò che mi attenderà all’arrivo,» lo corresse Matteo.
«Bene, allora rifletti a bordo, prima che parta senza di te. Non voglio averti di nuovo in mezzo alle palle, a casa.»
Matteo inghiottì la risposta che gli si stava formando dietro la fronte. No, sarebbe partito con dignità e decoro, per quanto ancora gli fosse possibile. Si schiarì la voce, salutò fratello e compagni, diede un ultimo sguardo alla stazione, o quanto meno allo spicchio che lo circondava, e si incamminò a passi lenti verso l’imbarco, dove un tizio dall’aria annoiata attendeva che le varie procedure fossero completate. Matteo gli presentò il biglietto, l’uomo annuì e lo lasciò passare.
Si girò ancora una volta, appena prima di attraversare il portello di ingresso, e vide Davide che lo fissava, serio, dietro la barriera che delimitava l’area di imbarco. Alzò una mano a salutarlo e lui gli rispose, con un sorriso. Poi entrò nella nave e non lo vide più.
Vide invece un uomo robusto in divisa gialla, forse un membro dell’equipaggio, che lo accolse con poca grazia e gli indicò con due gesti il percorso verso la cabina che gli era stata assegnata. Non era lontana e Matteo ne fu contento: orientarsi non era il suo forte e temeva di perdersi almeno un paio di volte, lungo la strada, prima di trovare la porta giusta. Forse sarebbe successo così, su una vera nave passeggeri; su quel mercantile, invece, le cabine erano poche, raggruppate assieme e limitate in una stretta porzione di nave: per non ostacolare i lavori, forse, o forse per altre ragioni che lui, da perfetto novellino e ignorante in campo scientifico, non sapeva immaginare. Pareva che cabine e umani fossero un sovrappiù, aggiunto all’ultimo momento, a tappare un buco. Poco lusso, poche comodità, il tipo di viaggio che si era aspettato e a cui si era preparato. Lo tranquillizzò.
Mentre raggiungeva la cabina, sentiva il panico ritirarsi, abbandonare la morsa, lasciarlo respirare. Si andava a rifugiare nella sua tana, ben scavata dentro Matteo, e sarebbe tornato all’attacco di sicuro, più tardi, magari non appena la Terra fosse svanita dagli schermi, oppure alla comparsa della stella attorno a cui ruotava Lakshmi. Il panico arrivava spesso, in quei giorni, l’orribile sensazione di non essere all’altezza, di aver esagerato, di essersi infilato in qualcosa di troppo grande per lui. E forse, alla lunga, avrebbe imparato a conviverci, in pace; forse, alla fine, lo avrebbe anche superato, dopo aver visto in faccia il pianeta nuovo, la gente nuova, la società nuova e la città universitaria dove avrebbe vissuto. Forse. Per adesso, Matteo Kori camminava verso la cabina e non pensava.
Aveva tutto il tempo che voleva, davanti a sé.
Anche Davide aveva tutto il tempo che voleva, davanti a sé, adesso che il fratello si era imbarcato e la sua nave era partita.
Aveva osservato in silenzio l’operazione e ne era rimasto in parte deluso. Si era immaginato una scena molto più vivace, torrenti di fuoco che spingevano nello spazio l’enorme sagoma di metallo; si era immaginato motori rombanti, così potenti da assordarlo e da far tremare la barriera dietro cui osservava; si era immaginato più o meno tutto ciò che nella realtà non era accaduto, nella parte di nave che i suoi occhi potevano vedere. Una piccola parte, in effetti, che si era staccata dalla stazione con la lentezza triste di un vecchio, per acquistare a poco a poco velocità, mostrarsi prima completa, per poi restringersi, diventare più luminosa e allontanarsi nel nulla. Alla fine, il nero dello spazio l’aveva inghiottita, senza rumori, senza fiammate, senza niente. Bah.
Si incamminò lungo il corridoio assieme agli altri due accompagnatori, in silenzio. Una manciata di persone camminava assieme a loro, forse amici o parenti di passeggeri imbarcati con Matteo, o su altri voli, o chissà cosa, ma Davide non li guardava. Non erano interessanti. Più interessante era il silenzio, che pareva avvolgere tutto, lì, dentro la stazione. Poi riemersero nell’area di ingresso, dove erano già passati quasi un’ora prima, e una tromba squillò.
Davide alzò la testa. «Il Teatro di Oklahoma» mormorò tra sé, ricordando quel dettaglio che quasi aveva dimenticato, nei lunghi minuti di attesa, prima che il fratello partisse. Era ancora lo stesso spettacolo di prima? Ne dubitava. Molto più probabilmente si esibivano a intervalli di tempo, ma al momento non era un particolare rilevante. Era rilevante poterlo rivedere per intero, senza qualcuno a trascinarlo via: questo solo contava. Accelerò, puntando sulla zona in cui li aveva visti prima.
E là, quando la raggiunse, ritrovò gli angeli sui trampoli, i giocolieri, i suonatori di tromba; sentì il mormorio del coro, nascosto chissà dove: tutto ciò che aveva già visto, ma fu con piacere sincero che lo accolse di nuovo. C’erano alcune persone, ferme ai margini dello spettacolo, forse viaggiatori in arrivo o in partenza: guardavano a bocca aperta, con l’espressione di chi è affascinato ma non sa bene il perché. Incantati, ecco la parola giusta. E incantato era anche Davide.
Teatro di Oklahoma! Chissà perché quel nome? Forse provenivano da là, da quel vecchio stato nella Regione Nordamericana, che forse esisteva ancora o forse era stata cancellato, il suo territorio di competenza assorbito in una delle tante riorganizzazioni amministrative. Davide non lo sapeva, ma neppure gli importava: era un nome e un nome non doveva per forza avere un significato, per lui.
Lo spettacolo era bello e questo contava. Chissà a cosa serviva, però. Vide una donna con l’aria da segretaria, o inserviente, o quel che era, che portava una fascetta sul braccio destro, punteggiata di stelle; volgeva le spalle ai trampolieri e parlava con una coppia, abbastanza giovane. Forse spiegava qualcosa, perché sorrideva e gesticolava. Come la guida di un museo, pensò Davide, e si avvicinò al gruppetto con molta indifferenza, per ascoltare.
«...dovrebbe rappresentare?» stava chiedendo la ragazza, sottobraccio al marito, al fidanzato, o quel che era. Davide aveva perso la prima parte della domanda, ma la seconda parte gli bastò. Stavano parlando dello spettacolo, era chiaro, o almeno così decise di pensare.
«Che c’è una possibilità per tutti,» rispose la donna con la fascia al braccio. «Perché è questo che per noi rappresenta la colonia: una nuova possibilità per tutti. La nostra colonia.»
«Ma, voglio dire, è cominciato da poco, no? Non ci sarà ancora niente, credo. Sarà un po’ troppo duro, per due come noi,» disse il ragazzo. Adesso che lo vedeva da più vicino, non era poi così ragazzo come sembrava da lontano. Poteva avere trenta, trentacinque anni. La ragazza però era a tutti gli effetti una ragazza, forse coetanea di Matteo, forse di poco più vecchia. Doveva avere strani gusti, per interessarsi a un tizio simile, ma in fondo erano affaracci suoi.
«E invece no,» rispose la donna con la fascia (che stava facendo un qualche tipo di promozione, era ovvio), «è proprio il posto giusto per due come voi, due ragazzi che si vogliono costruire un futuro su misura, invece di accettare quello che altri hanno preparato per loro. Stiamo parlando di un intero mondo, tutto da modellare! Questa è una colonia! È lo spirito dei vecchi pionieri, che torna a vivere anche ai nostri tempi! Continenti deserti, che aspettano solo di essere forgiati dall’uomo! La società ancora in fasce, poco più che neonata, e nessun ruolo già assegnato, anzi! Mille e mille posti vuoti, che vi attendono! Significa lasciarsi alle spalle il nostro mondo, la sua struttura, tutti i suoi livelli sociali, e ripartire da zero! È la pura libertà! Costruire tutto e costruirlo così come piace a noi! Ecco perché,» e tese un braccio verso gli angeli sui trampoli, che volteggiavano nella bassa gravità della stazione, «il nuovo mondo è il paradiso! Madre, il pianeta da cui nascerà il nostro futuro!»
C’erano più punti esclamativi, in quel discorso, di quanti una persona sana di mente sarebbe stata disposta ad accettarne, ma a Davide non importava. Era un pensiero da Matteo, quello, non un suo pensiero. Non era lui, in famiglia, quello fissato col bello stile, i linguaggi, la letteratura e tutte le altre scemenze. Lui guardava la sostanza delle cose, non la loro forma. O almeno, ciò che a lui appariva come sostanza, a torto o ragione. Sentiva di non essere il solo.
La coppia sorrideva, guardando lo spettacolo. Il coro sembrava spingere la scena, quel volteggiare leggero, verso un reame metafisico di splendore, e le trombe davano maestà al tutto, a sottolineare le parole della donna, forse un’addetta pubblicitaria dell’Ufficio per la Colonizzazione. E sì, le sue parole sembravano giuste, suonavano giuste. Davide non le seguiva più, perché aveva saputo ormai ciò che gli interessava, ed era perso anche lui nelle coreografie dello spettacolo, come altre persone lo erano, ferme all’ingresso dell’edificio. Non aveva mai visto dal vivo la danza a bassa gravità, non ne conosceva l’armonia e, a dire il vero, era a malapena consapevole della sua esistenza, ma adesso sì, adesso ne aveva una idea abbastanza precisa. Se le parole della donna erano vere anche solo la metà di quanto lo spettacolo era bello...
Davide conosceva Madre, era un argomento entrato in ogni scuola, un argomento di cui ogni giorno si parlava nei notiziari, a volte anche per strada. Da un certo punto di vista, Madre era la prima vera colonia della Terra; da un altro punto di vista, era l’ultima. Ultima perché, nei tre secoli precedenti, altre colonie erano state fondate, dai paesi che avevano scoperto il volo interstellare e poi vinto le due guerre, ma quelle colonie erano state a lungo nemiche, per cui non contavano più. Madre era dunque la prima colonia che fosse veramente terrestre, per chi sulla Terra viveva ancora.
Fosse come fosse, quel pianeta ospitava da quasi vent’anni gli insediamenti terrestri, o degli attuali terrestri. Una base militare, prima di tutto, assieme ad alcuni siti archeologici, perché era il primo pianeta su cui fossero state scoperte tracce di una civiltà precedente, dopodiché a soldati e scienziati si erano aggiunte anche persone normali, terrestri che si trasferivano là, come i coloni del passato, a lavorare per costruire un mondo. «Un giorno anche voi potreste essere assieme ai coloni, e decidere di abbandonare la Terra per un nuovo pianeta,» aveva detto un rappresentante dell’Ufficio, che era venuto nella loro città per parlare alle scuole, durante un’assemblea, «ed è una cosa giusta, perché Madre rappresenta il nostro futuro. Così come hanno fatto altri prima di noi, la via che dobbiamo seguire è quella dello spazio. Espanderci, ingrandirci, rafforzarci. La Terra sarà il fiore, che spargerà il suo polline nella galassia.»
Aveva continuato con altre frasi retoriche e noiose, che Davide non aveva ascoltato allora, ma che ora ritrovava nelle parole di quella donna con la fascia al braccio. Sì, ecco cos’era quello spettacolo: una pubblicità per attrarre la gente, per spingerla a partire e colonizzare Madre. Uno spettacolo per strappare gli uomini dalla Terra e spingerli verso il cielo. Sorrise. Poteva essere interessante, poteva aver voglia anche lui di provarci, fra qualche anno. A Matteo non interessava, voleva studiare in un mondo già pronto, ma lui era diverso dal fratello, lui poteva realmente andarci. Un giorno.
E perché no? Non sarebbe rimasto per tutta la vita sulla Terra, a raschiare il fondo come sua madre, e lavorare per la gioia di altri. Ancora non sapeva cosa fare, in futuro, ma di certo non la vita della madre. Quella no, assolutamente no. Nel Teatro di Oklahoma, invece, poteva trovarsi il suo futuro. Un futuro lontano da quel pianeta, così vecchio e soffocante.
Ci penserò, si disse. Me ne ricorderò. E mentre pensava e ricordava, Davide Kori uscì dall’edificio della stazione e si diresse verso l’ascensore, assieme agli altri due compagni del fratello. Tempo di scendere, tempo di ritornare. E anche tempo di cominciare sul serio a pensare al domani, qualunque cosa includesse per lui.