Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 10

Forse Davide sarebbe stato contento di sapere che, di tanto in tanto, anche il fratello aveva qualche problema, sul suo mondo lontano e in apparenza ideale. Forse avrebbe trovato incoraggiante sapere che, anche in una società che ti coccola e ti offre tutto ciò che ti serve, è possibile provare nostalgia di una società che, invece, troppo spesso ti prende solo a sputi in faccia, come quella terrestre. Forse avrebbe apprezzato che Matteo si ricordasse di casa e della sua famiglia lontana anni luce.

O forse no. Forse avrebbe soltanto alzato le spalle, bofonchiando un «Se l’è cercata lui», davanti ai problemi triviali che il fratello aveva, su Lakshmi. Perché sulla Terra c’erano ben altri problemi da affrontare, molto più seri e molto più concreti di una discussione da doposbronza. La vita di Davide si preparava a deragliare, nei giorni di inizio gennaio, e il primo passo fu in cucina, quella cucina triste e squallida della casa in cui viveva con la madre. Il primo passo fu il tonfo e la tazza rotta.

Le vacanze invernali raschiavano il fondo e Davide era rientrato da poco, dopo un pomeriggio assieme ad Amir e agli altri. Anche la madre era rientrata da poco, dal lavoro, e come al solito stava trafficando in cucina. Lavoro inutile, pensava Davide, perché tanto il risultato era sempre la stessa schifezza. Quel giorno non lo sarebbe stato. Quel giorno, mentre era sdraiato sul letto e con lo sguardo si spostava da un lato all’altro della camera, incerto se ascoltare musica o una lezione (ma con una preferenza per la prima opzione), Davide udì il tonfo, seguito o accompagnato dal rumore di qualcosa che andava in frantumi. Qualcosa come un piatto, o un altro tipo di ceramica.

«Mamma?» chiese. Nessuna risposta.

Il piatto che si rompe era un rumore familiare, in casa Kori: succedeva una volta o due al mese, più frequente in alcuni periodi, leggermente meno in altri. Doveva esserci una qualche regola nei ritmi di rottura, legata forse al ciclo delle macchie solari o roba simile. Non se ne sarebbe sorpreso. Il tonfo, invece, non era familiare. Il tonfo era una novità, un film in prima visione, e non rientrava tra le novità piacevoli: aveva una tonalità strana, preoccupante, che gli fece storcere la bocca. Che cosa aveva fato cadere, stavolta?

«Mamma?» chiese di nuovo.

Non arrivava neppure la solita litania di brontolamenti e maledizioni a bassa voce, o in quella che Larisa riteneva essere una voce bassa: un coro da tragedia greca, rito che sempre accompagnava la rottura di qualcosa, o anche un qualsiasi altro evento, che l’universo ostile le aveva buttato davanti, per puro dispetto. Non era un buon segno. Brontolava sempre, qualunque cosa accadesse. Che si fosse fatta male, stavolta?

Davide si alzò, avvicinandosi alla porta. «Mamma?» chiese per la terza volta e per la terza volta gli rispose il silenzio. No, non era normale, e le cose che non erano normali non gli piacevano. Per niente. Normale è noioso, ok, ma normale è anche sicuro. In casa la normalità era banale, certo, in alcuni casi anche un tormento, ma era soprattutto il segno che ogni cosa procedeva bene e avrebbe continuato a procedere bene. La normalità era rassicurante.

Il tonfo non lo era.

Davide uscì dalla camera, attraversò il breve corridoio, con l’occhiata che sempre lanciava verso la porta chiusa della stanza di Matteo, e raggiunse la sala. Anche lì tutto sembrava normale, classico scenario da cena in preparazione, con la tavola apparecchiata a metà e altre cianfrusaglie in giro. Una tavola per due, la cui sedia vuota sembrava assorbire sempre qualunque discussione. La sedia di Matteo, che in casa aveva la presenza di un’ameba, ma che, sparendo, sembrava aver smontato l’equilibrio imperfetto della famiglia.

La normalità si fermò sulla soglia della cucina. Dalla porta aperta, in chiara luce, vide qualcosa che normale non era, che non poteva essere normale, in nessun mondo sano. Una mano, sul pavimento. Una mano attaccata a un braccio, sempre sul pavimento. Un braccio attaccato a qualcosa che da lì non si vedeva, perché il muro lo teneva nascosto. Qualcosa che era a propria volta sul pavimento. E a che cosa poteva essere attaccato un braccio? C’erano anche cocci biancastri, vicino alla mano, di una tazza o qualcosa di simile. Una tazza che è caduta, assieme alla persona che la teneva in mano.

Assieme a sua madre.

Davide fece qualche altro passo in avanti, su gambe che avevano voglia di obbedire tanto quanto avevano voglia di essere stritolate da una pressa. Obbedirono, però, e ogni passo gli svelava altri dettagli del braccio e della mano. Una mano consumata, forse non vecchia ma sciupata dal lavoro; un braccio non molto diverso dalla mano, più vecchio della sua età, avvolto in una buona dose di carne rilassata, muscoli avvolti nel grasso, che penzolavano flaccidi nella manica del maglione; una manica bianca, col gomito bucato. Dopo il gomito, ecco spuntare una testa grigia, capelli raccolti dietro la nuca. Una testa nota.

La testa di sua madre.

Larisa Elfridi, madre dei fratelli Kori e moglie del latitante Ercole Cori (latitante sul piano civile, se non proprio su quello penale), donna di mezza età e di considerevole mole, era stesa sul pavimento della cucina. Accasciata, per meglio dire, come se un colpo di fucile l’avesse abbattuta, come un bisonte delle antiche praterie americane, secondo la prima immagine che si affacciò alla mente di Davide. Un bisonte abbattuto da un cacciatore, che si accascia al suolo in una cucina polverosa, mentre il buio avvolge le strade cittadine. Le tranquille strade cittadine.

«Mamma?»

Davide si affacciò all’ingresso della stanza, non molto entusiasta all’idea di farlo, ma facendolo lo stesso. La scena era quella che aveva visto e intuito, a blocchi e spizzichi, mentre si avvicinava: sua madre a terra, svenuta o forse peggio (ma al peggio non voleva pensare, no, grazie lo stesso), con la tazza frantumata accanto alla sua mano. La mano tesa in avanti, verso la porta. La spia del forno era accesa, l’acqua scorreva nel lavandino, un bisbiglio monotono come colonna sonora della scena, e che lo stimolava blandamente ad andare in bagno.

Una scena che era brutta, sì, ma non ancora brutta a sufficienza, perché accanto alla testa c’era una traccia di sangue. Non molto, ma c’era. Ha battuto la testa cadendo, si disse Davide. Ha battuto la testa cadendo, tutto qui. Tutto qui? Sì, d’accordo, non era un bene, ma poteva essere peggio, no? Il sangue scorreva ancora, dopotutto, e questo significava che sua madre era viva, no? Giusto? Era il modo in cui funzionava, no? Vero? Lo aveva studiato a scuola, giusto? Non proprio studiato, ok, ma ascoltato sì. Ascoltato alla lontana. Giusto?

Sarebbe bastato fare gli ultimi due passi, per raggiungere il corpo, e poi avrebbe avuto la certezza, o la smentita. Due passi, allungare una mano, toccarla. Sei viva? Come stai? E poi correre a chiamare un’ambulanza, la guardia medica, l’esercito, qualsiasi cosa potesse aiutare sua madre. Non riusciva a farlo. In quel momento, Davide si accorse che i due passi erano al di là delle sue forze.

E se è morta? Cosa faccio se è morta? Non ho nessuno, qui sulla Terra!

Sulla Terra no, ma su un altro pianeta sì. Suo fratello, Matteo, che li aveva lasciati lì, in quella casa, e se n’era fuggito altrove, anni luce lontano da loro. Solo per quattro anni, ovvio, perché tanto in quattro anni cosa vuoi che cambi? Nulla! E poi sarebbe tornato, a mettere tutto a posto. Quattro anni e sarebbe tornato. Cosa vuoi che siano quattro anni? Una inezia, uno starnuto cosmico! E che cosa avrebbe dovuto fare lui, mentre aspettava che suo fratello si decidesse a tornare? Perché Matteo non aveva pensato che sarebbe potuto succedere qualcosa alla mamma, che non era giovane, era stanca e lavorava tutti i giorni? Se la mamma era morta, lui...

Scosse la testa. Era solo, adesso, e suo fratello non avrebbe fatto niente per lui. Matteo poteva anche essere morto, per quel che contava, e in un certo senso lo era, perché su un altro pianeta non serviva a niente, non a lui, non a Davide. Anche se avesse voluto tornare, non aveva certo i soldi per farlo. Dunque, basta pensare a Matteo! Adesso era solo, lì, e doveva arrangiarsi da solo. Respirò a fondo, chiuse gli occhi e percorse i due passi che lo separavano dal corpo. Frammenti di tazza cigolavano sotto la ciabatta destra. Quando riaprì gli occhi, sua madre era davanti a lui, sotto di lui. Ferma.

La fronte gocciolava ancora. Poco, ma gocciolava. Plic, una lunga pausa, plic. Come un rubinetto che perde. Davide allungò la mano e le sfiorò il collo, spostando un poco i capelli. Era calda. Non si ricordava bene dove bisognasse toccare, per sentire il pulsare delle vene, ma non aveva importanza: poteva udire il suo respiro, un lieve rantolo appena accennato. Era viva e questo contava. Era viva.

Davide deglutì, per respingere le lacrime. Non poteva piangere come un bambino, lui, non era più bambino! A volte, però, le lacrime arrivano e basta e c’è poco da fare per fermarle. Gli sfuggì dalla gola un suono molto simile a un singhiozzo e si voltò verso il muro, per non doverla più guardare. Non ce la faceva, ecco tutto.

Riordinò i pensieri, cercò di riordinarli, ma non era facile. Tanto valeva pescare pesci gatto a mani nude. Troppe cose intorno, troppe cose da fare, troppe scelte tra cui pescare la più urgente, la più importante. Il forno acceso, l’acqua che scorreva, la madre svenuta. La madre svenuta: qui si fermò la sua mente. La madre svenuta: il resto poteva attendere, almeno un altro poco. Doveva chiamare un’ambulanza.

Lo fece. Si sentì un po’ meglio, dopo averla chiamata, un po’ più simile a se stesso. Con attenzione, camminò accanto alla madre, sperando che si svegliasse da sola, che si rialzasse, che si giustificasse con uno dei suoi soliti brontolamenti, odiati brontolamenti. Sono scivolata, mi fate sempre lavorare così tanto, sono stanca, ho dormito male, sei sempre a darmi pensieri. Una frase qualunque, presa dalla sua lunga lista; una qualunque e Davide sarebbe stato felice, sarebbe stato meglio.

Non arrivò. Così le girò attorno, prima spegnendo il forno e poi chiudendo il rubinetto. Nel forno ci doveva essere la cena per lui, quasi sicuramente, ma mangiare era l’ultima delle sue priorità, adesso. Avrebbe preferito addirittura studiare fisica, piuttosto che toccare un qualsiasi tipo di cibo. Girò su se stesso, guardandosi attorno per vedere se ci fossero altre cose da sistemare, altri interruttori da premere, cose lasciate a metà. Niente. La cucina era la cucina che conosceva da sempre, squallida e spoglia, senza una decorazione o un abbellimento anche minimo. Se non si volevano considerare un abbellimento il gancio da cui pendevano due straccetti, usati forse per asciugarsi le mani, e macchie di umidità sull’intonaco biancastro delle pareti.

Bene, tutto era a posto. Restava solo da attendere l’ambulanza. E poi?

«E poi vedremo,» si rispose, raggiungendo la sala e lasciandosi crollare sul divano. «Poi vedremo.» Chiuse gli occhi e aspettò, col cuore che gli scandiva il tempo nel petto. Un tempo assai veloce, un tempo forsennato. Un tempo disperato. Tutumtutum-tutumtutum-tutumtutum.

Nel letto di ospedale, sua madre sembrava più piccola. Non molto, in realtà, perché neppure i letti di ospedale possono fare miracoli, ma un poco più piccola sì. Più compatta. Più corta. Forse era il bianco uniforme, a dare quell’effetto, o forse le sue guance scavate, color saponetta. Le guance di sua madre non erano mai state scavate, almeno per quanto lui potesse ricordare. Erano sempre state tonde e piene, arrossate da un reticolo di vene e di capillari che, con gli anni, si era fatto sempre più netto e preciso. Una faccia da mela, non da limone usato.

Adesso, però, Davide guardava la madre e non vedeva più la donna che aveva conosciuto per oltre sedici anni. Era una estranea, che aveva soltanto il nome della madre: Larisa Elfridi, come diceva il cartellino sulla porta, che una infermiera aveva sistemato solo due ore prima. Due ore che erano state due millenni, per Davide. Ma erano passate. Bene o male, erano passate.

Adesso Larisa dormiva, con una benda sulla fronte, e suo figlio la osservava dalla sedia nell’angolo. Il posto di chi è in partenza, come avrebbe detto lei, e Davide era in partenza: presto un’infermiera sarebbe entrata da quella porta, muovendosi adagio per non fare rumore, e lo avrebbe invitato con gentilezza a uscire. L’orario delle visite era passato e sua madre aveva bisogno di riposo. Grazie.

Anche lui, in effetti, ne avrebbe avuto bisogno, ma non si sentiva stanco. Non ancora. La stanchezza sarebbe arrivata a suo tempo e lo avrebbe abbattuto a colpi di ascia, ma adesso era ancora troppo forte la tensione, troppo vivida l’immagine di lei, a terra, in mezzo alla cucina sciatta, incoronata di frammenti di tazza. La rivedeva ogni volta che chiudeva gli occhi. A volte la vedeva anche a occhi aperti, sovrapposta alla realtà.

Proprio come sentiva la voce del medico.

«È stato un lieve problema cardiaco, molto leggero,» aveva detto, guardandolo negli occhi. «Niente da sottovalutare, certo, ma niente da perderci il sonno, nel suo caso. Non ti preoccupare troppo. La terremo qui per un paio di giorni, in osservazione, ma sarà di ritorno a casa molto presto, vedrai.»

Davide aveva annuito, senza parlare. Si sentiva trattato come un bambino, e non gli piaceva, ma si sentiva anche un bambino, in quel momento, e gli piaceva ancora meno. Un bambino scemo, che sorride e annuisce. Sì, dottore; va bene, dottore.

«Tua madre soffre di una forma di aritmia cardiaca, un problema che si può risolvere, ma che lei ha sottovalutato e trascurato troppo a lungo. Te ne aveva mai parlato?»

Davide aveva scosso la testa. Mai sentito nulla.

«Forse ne avrà parlato con tuo fratello maggiore, magari,» aveva continuato il medico, annuendo col suo testone da orso. «Dove hai detto che si trova, adesso?»

«Lakshmi,» aveva risposto, quasi sputando il nome. «È un pianeta...»

«Sì, sì, lo conosco. Non credo che potrà rientrare presto, giusto?»

«È là a studiare, per quattro anni.»

«Cercheremo di avvisarlo. Comunque, il problema di tua madre è il cuore, come ho detto. La sua forma di aritmia può essere soltanto l’inizio, se non si decide a curarsi come si deve. L’incidente di oggi è il primo segno ed è il segno che deve curarsi. Capisci? Il suo peso corporeo è un altro dei problemi e peggiora solamente le cose. Dovrebbe perdere dieci, quindici chili, e il suo cuore gliene sarebbe molto grato.»

Davide continuava ad annuire. Non “aritmia”, ma “forma di” aritmia. Cosa cambiava? Era più o meno grave una “forma di” qualcosa, rispetto a un “qualcosa”?

«Di questo ne parlerò con lei, non appena si sarà ripresa, ma credo che sia giusto farlo sapere anche a te. Ormai sei grande a sufficienza e immagino che tu ci tenga a tua madre...»

Davide annuì. Era diventata un tic nervoso, ormai.

«...e quindi sarà opportuno che anche tu ti impegni a controllare che lei segua le raccomandazioni che le darò. I genitori devono prendersi cura dei figli, ma a volte tocca anche ai figli prendersi cura dei genitori. Perché sai, a volte un genitore si rifiuta di capire, o accettare.»

Stavolta annuiva convinto. Lo sapeva bene, Davide, ed era d’accordo col medico. Su questo punto, aveva ragione da vendere. Non era solo un problema dei genitori, ma in quella circostanza specifica lo era. Problema di sua madre, più precisamente. Non voleva accettare.

«L’ideale, in questi casi, sarebbe un intervento chirurgico, per correggere il difetto, ma credo che lo potrà decidere solo tua madre. È un intervento abbastanza costoso e posso capire che molte persone preferiscano risparmiarselo, finché possono evitare. In ogni caso, le lascerò anche una prescrizione di pillole, da assumere ogni giorno. Sarebbe bene che controllassi anche tu che le prenda davvero.»

Davide aveva annuito di nuovo. Era sempre più facile e gli risparmiava fatica. Gli risparmiava le parole, che sarebbero servite più avanti. Per adesso, bastava tacere e ascoltare.

«Bene. Per il resto, direi che...» C’erano state altre due o tre raccomandazioni, a cui Davide aveva annuito con diligenza e serietà. Certo, certo, lo farò. Dopo l’uscita del medico, lui si era seduto di nuovo ad attendere, fino a che una infermiera non gli aveva dato il permesso di entrare, ma senza fare rumore. Sua madre stava riposando, ne aveva molto bisogno. Un altro sì, con un cenno della testa. Era entrato.

Il volto di Larisa era tranquillo, smunto ma tranquillo, e questo era bene. Era molto bene, per chi si sentiva già orfano e abbandonato, come Davide. Prima il padre, che se n’era andato alla sua nascita, poi il fratello, che faceva la bella vita su un altro pianeta (non aveva certezze sulla bella vita, ma lo immaginava così), studiava roba inutile e forse neppure ricordava di avere una famiglia sulla Terra. Era il turno della madre? No, non era possibile. Non lo avrebbe permesso, per quanto poteva. Per quanto non la sopportasse, lei era tutto ciò che gli restava. Per adesso, per chissà quanto.

L’infermiera doveva averle pettinato i capelli, che adesso erano raccolti in ordine e non più sparsi a grappoli, come gli erano apparsi sul pavimento della cucina. Capelli di un colore castano scuro, oggi ingrigiti dagli anni, che anche lui aveva ereditato. Matteo, invece, aveva i capelli del padre, quell’uomo che lui non aveva mai visto al di fuori delle vecchie immagini. E non solo i capelli, pensò Davide. Matteo ha ereditato tutta la stupidità di nostro padre e poi ci ha aggiunto la sua. E adesso sono spariti tutti e due, proprio quando sarebbero serviti. Tante grazie!

Ce l’avrebbe fatta. Ancora non sapeva bene come, ma ce l’avrebbe fatta, questo sì. Perché forse il caro Matteo era quello intelligente, quello che capiva al volo ogni cosa e non aveva mai bisogno di ammazzarsi di studio per una misera sufficienza, certo, era così bravo da aver mollato la Terra, una mossa saggia, per carità, una mossa che avrebbero fatto in molti. Matteo era intelligente: non certo coraggioso o forte, ma intelligente sì. Nessun dubbio.

Quello sveglio, però, era Davide. Quello che se la sapeva cavare anche contro tutte le probabilità, e non aveva bisogno di un progetto preciso, nei dettagli: gli bastava una bozza, uno scarabocchio, e il resto lo improvvisava a orecchio, strada facendo. Se c’era uno che poteva cavarsela, quello era lui, ma non aveva fretta di verificarlo. Meglio aiutare la mamma, meglio rimetterla in forma e contare su di lei, almeno per un’altra manciata di anni. Poi, forse, ci sarebbe stata un’altra madre per lui.

Ci sarebbe stata Madre, la colonia terrestre.

Mai come in quel momento, davanti alla madre che dormiva, in un letto di ospedale, si era sentito così soffocato dalla Terra, dal pianeta, dalla sua società, da tutto. Era una gabbia, una gabbia da cui bisognava fuggire, al più presto, il più lontano possibile. E sarebbe fuggito. Alla prima occasione, se ne sarebbe andato da lì. Su Madre, sulla nuova colonia della Terra. Ma... dopo.

La porta si aprì, pian piano, e si affacciò il volto giovane e serio di una infermiera. Si batté due dita sul polso della mano sinistra, antico gesto per indicare l’orario, sopravvissuto agli orologi stessi. Davide capì e si alzò, con un ultimo sguardo alla madre.

«Potrai tornare domattina, dalle ore otto,» gli disse l’infermiera, dopo aver chiuso la porta. «Adesso dobbiamo proprio sospendere le visite, per la sera. A parte casi speciali.»

Casi di moribondi, aggiunse tra sé Davide, annuendo. Era un bel gesto, un gesto sempre utile in un ospedale, come aveva scoperto quel giorno: finché annuivi, tutti erano cortesi e ti trattavano bene. Era un peccato che non funzionasse anche nel mondo fuori da quelle pareti. Salutò l’infermiera con un altro cenno del capo e si avviò verso l’uscita, tre piani più in basso. Casa sua era lontana cinque fermate della metropolitana, ma potevano essere anche mille: era un altro mondo, un modo vuoto, dove non c’erano luci accese per lui e nessuna cena lo attendeva. Doveva arrangiarsi da solo, già. Si arrangiò, per quel poco che riuscì a mangiare.

Quella notte sognò il pavimento della cucina e pianse.

«Ricordati le tue pillole, mi raccomando. Poi controllo.»

«Senti, non sono io il bambino, qui dentro!»

No, ma ti comporti proprio così, a volte, pensò Davide, guardando la madre. L’avevano dimessa il giorno prima, con una prescrizione di pillole e il consiglio di farsi operare, per risolvere il problema al cuore. Lei aveva accettato le pillole, con un entusiasmo da lavori forzati, e rifiutato l’operazione. Costava troppo e non serviva a niente, diceva lei. Davide era d’accordo sul primo punto, in linea di massima, ma non sul secondo. Fissazioni da vecchia, scuse da vecchia. Per scappare.

Sua madre e gli ospedali erano poli magnetici con la stessa carica: si respingevano, e forse lei ne aveva anche un po’ paura. Molta paura, più probabilmente. La sua espressione nella stanza dove era stata ricoverata, in quei giorni, era la stessa di un vitello che attende di essere macellato. O almeno così immaginava Davide, che non aveva mai visto né un vitello, né un macello, e neppure come i due potessero interagire. Non molto bene, presumibilmente. Sua madre non aveva brontolato, là, ma recuperava adesso con tanto di straordinari.

«Tu pensa a prenderle,» le disse. Era quasi ora di uscire, per Davide, ma esitava. Sia perché aveva già perso alcuni giorni di scuola e il ritorno non sarebbe stato piacevole, sia perché aveva l’assurda paura (assurda ma non troppo, diciamolo) che, se lui fosse uscito, sua madre sarebbe stata male di nuovo. Stavolta, rientrando da scuola, l’avrebbe trovata sul pavimento della sala, oppure del bagno, con un braccio allungato davanti a sé, come un annegato che chiede aiuto.

Davide scosse la testa. No, basta pensare a queste scemenze. Sua madre era lì, seduta sul divano, e stava bene. Non benissimo, certo, ma bene. Il suo viso era ancora pallido e le sue guance avevano il vago aspetto di un limone succhiato, proprio come quando era in ospedale, ma sarebbero tornate in fretta come prima. O magari non proprio come prima, magari più magre, tanto di guadagnato per la sua salute, ma erano dettagli. L’importante era che sua madre stava bene, era a casa e tutto il resto poteva aspettare.

«Pensa ad andare a scuola, che è meglio. E studia,» gli rispose lei.

Sì, questa era già molto più simile a sua madre. Per quanto insolito apparisse vederla seduta lì, tranquilla, con le mani in grembo, invece di oscillare da una stanza all’altra, ad agitare l’aria, il suo modo di parlare stava tornando come prima. Il resto lo avrebbe seguito, prima o poi. «Allora vado,» disse, infilandosi la giacca. Guardò ancora una volta la madre e infine andò, verso la scuola che non rivedeva da parecchio. Non ne aveva sentito la mancanza.

Mentre scendeva verso la fermata della metropolitana, cercò di prepararsi mentalmente alla nuova e più fastidiosa prova che lo attendeva: il ritorno tra i banchi. L’incidente alla madre aveva prolungato di quasi una settimana le sue vacanze invernali, e questo da un certo punto di vista non era male, ma lo era da un altro punto di vista. Le assenze supplementari non avrebbero migliorato le cose, né gli lo avrebbe aiutato il rendimento scolastico, che con un certo ottimismo si poteva definire scadente. I prof avrebbero banchettato con lui, non appena rimesso piede in classe.

«Pazienza, l’importante è uscire in fretta,» disse a bassa voce. Non abbastanza bassa, forse, perché l’uomo che procedeva davanti a lui, verso la stazione, si girò a guardarlo male, prima di spostarsi di qualche passo sulla destra. Guarda pure, pensò Davide, tanto lo spettacolo è uno schifo.

E Matteo non si era fatto sentire.

All’ospedale lo avevano contattato? Forse sì, forse no, ma lui lo aveva contattato di sicuro. Da uno dei terminali dell’ospedale, il giorno dopo il ricovero della madre. Aveva aspettato che non ci fosse nessuno in zona, poi si era collegato e aveva spedito il messaggio, recitandolo col tono di voce più basso che gli fosse possibile. A scuola funzionava, riuscivi a fare di tutto a scrocco, ma finora non aveva mai provato a spedire un messaggio su un altro pianeta. Avrebbe funzionato? Davide pensava di sì, non c’era motivo per cui non dovesse funzionare, anche se non gli era del tutto chiaro in che modo ci si regolasse per le comunicazioni interplanetarie. Siccome però esistevano, e di questo era certo, doveva anche esserci un modo per compierle.

Aveva spedito il messaggio, dunque, ma Matteo non aveva risposto.

Poteva aver avuto mille buone ragioni per non rispondere, poteva anche non avere neppure ricevuto il messaggio, poteva trovare mille altre spiegazioni, ma per Davide erano secondaria: non aveva risposto e quello era il punto. Non una parola, non un segno di vita. Sua madre, nostra madre, era all’ospedale e lui non aveva aperto bocca. Era possibile che non lo avesse neppure saputo, non lo poteva accusare per qualcosa che, magari, Matteo neppure aveva ricevuto, ma senso e logica erano elementi che poteva lasciare da parte, al momento. Appartenevano al mondo normale, regolare, in cui uno studente delle superiori non trova la propria madre moribonda in cucina (ok, moribonda era un poco eccessivo, ma l’idea restava).

Suo fratello non aveva risposto.

Continuò a rigirare, ruminare e rimuginare quelle parole per tutte e tre le fermate che lo separavano dalla scuola e probabilmente avrebbe continuato anche per tutta la durata delle lezioni, se non fosse successa un’altra cosa, un altro di quei microscopici eventi che ti cambiano la vita, a volte in modo impercettibile a occhio nudo, a volte scagliandoti su un palco sotto il fuoco incrociato di fari che ti abbagliano. Quel genere di eventi che, spesso, noti soltanto molto tempo dopo, quando ti guardi alle spalle e cerchi una spiegazione per ciò che appare insensato. A volte la trovi, la spiegazione, ed è in uno di quegli eventi, appunto.

Nel caso di Davide, fu lo scarabocchio di Amir.

Amir Cavalli era il suo compagno di banco, in quel periodo. Non lo sarebbe rimasto a lungo, perché già era in programma di dividerli, ma per quello scampolo di gennaio lo era ancora. Era stato strano, durante le vacanze e poco prima, ma essere strano non era poi così strano per lui. Era strano il modo in cui era strano in quel periodo. Strano per Amir.

Davide sapeva che l’amico aveva qualcosa per la testa, qualcosa di cui avrebbe voluto parlare, ma che non sapeva come affrontare. In casi simili, di solito bastava dargli tempo e così Davide aveva fatto, aiutato in un certo modo anche dai problemi della madre, che gli avevano riempito gli ultimi giorni, allontanando tutto il resto dalla sua mente. In casi simili, qualunque fosse l’argomento, gli bastava dare tempo ad Amir e, prima o poi, ciò che aveva in testa sarebbe colato fuori. Successe in uno scarabocchio, durante l’ora di fisica.

Invece di prendere appunti, o di fingere di prendere appunti, Amir aveva tracciato più e più volte uno strano simbolo, con esiti sempre peggiori in termini di precisione. Un cerchio, disegnato da una mano non molto salda, e una linea che lo tagliava in diagonale, scendendo da sinistra verso destra. Simbolo di cui Davide non sapeva nulla, anche se aveva la sensazione di aver già visto qualcosa di simile da qualche parte: le scienze sono piene di scarabocchi ed era possibile che ci fosse anche quello. Trovava improbabile, però, che Amir si fosse divertito a ripetere così tante volte un qualche simbolo fisico, chimico o altro. Non era certo quella la spiegazione.

«Che roba è quella che stai disegnando?» chiese Davide, dopo averlo osservato per un certo tempo. L’amico non sembrava del tutto presente, come se stesse disegnando in trance o col cervello altrove, il che era abbastanza normale per lui. Aveva un cervello che amava assentarsi, Amir.

Amir si girò, con una fantastica interpretazione di “animaletto peloso, sorpreso dai fari di un’auto in piena notte”. Abbassò lo sguardo su ciò che aveva disegnato, lo alzò di nuovo verso Davide, storse la bocca, alzò le spalle e infine rispose. «Niente.»

Davide sospirò. Niente, certo, come no. «È un cerchio con una linea in mezzo, dai. Cosa significa? È il simbolo segreto di qualcosa?»

Lo aveva detto per scherzo, quasi ridendo, ma la faccia di Amir gli disse che c’era andato molto vicino, forse aveva addirittura fatto centro. L’amico abbassò gli occhi, chiaramente a disagio, e fece per cancellare i suoi scarabocchi, con un imbarazzo che potevi affettare e infilare in un panino.

«È davvero lo stemma di una società segreta?»

Amir si contorse sulla sedia. «Non è proprio una società segreta...» borbottò a voce bassa.

Davide si guardò attorno. Nessuno badava a loro, nella classe, e dubitava che l’amico fosse davvero invischiato in qualche società segreta, tuttavia... sì, meglio tenere basso il volume. Per sicurezza, per fare contento Amir, che probabilmente ci credeva davvero, per non sembrare ancora più pazzi di quanto già fossero sospettati di essere. Voce bassa, ok. Anche perché, almeno teoricamente, era in corso una lezione, lì attorno.

«Che cosa è, allora?»

Altri contorcimenti di Amir. «Mah, niente...»

Davide aspettò. Ci voleva pazienza, sempre pazienza in quelle discussioni. «Sono gli impegni che avevi durante le vacanze, quando non potevi uscire?» chiese infine.

«Anche tu non potevi uscire...»

«Sì, ma tu lo sai il perché. Mia mamma era in ospedale. E tu perché non potevi uscire? Che impegni avevi? Con... con la gente di quel simbolo?»

«Beh... te lo volevo dire, è solo che...»

«Dimmelo adesso, nessun problema.»

Amir si guardò attorno. La faccia della prof diceva che era stanca di sentirli parlottare e, se avessero continuato, la loro vita da compagni di banco sarebbe finita molto prima di quel mese. E in un modo non indolore, sul piano scolastico.

«Facciamo dopo? Dopo le lezioni?»

Davide accettò. Amir avrebbe parlato, ormai il frutto era maturato a sufficienza per cadere dal ramo.

Glielo disse nell’intervallo, in un angolo del corridoio. Non fu un discorso molto chiaro e, prima di essere giunti a metà, Davide aveva già capito che neppure Amir sapeva bene cosa fossero di preciso questi isolazionisti, di cui l’amico parlava. Erano un gruppo, ok, e avevano idee che ad Amir erano piaciute. Uno di loro era un amico del padre e lui era entrato così, per gioco all’inizio e pian piano sempre più serio. Erano interessanti, avevano idee buone, potevano fare qualcosa. E quel cerchio tagliato da una diagonale era il loro simbolo.

«Mi hanno detto che è meglio se non lo faccio vedere in giro, il simbolo, però... mi piaceva e così l’ho disegnato. Mi annoiavo, a lezione...»

Davide annuì. Amir era un bravo ragazzo, a modo suo, ma il cervello non era il suo forte. Se questi isolazionisti gli avevano permesso di unirsi a loro, insegnandogli anche un marchio, che era meglio non mostrate in giro (così dicevano), allora non dovevano essere una cosa seria. Potevano prendersi sul serio, questo sì, ma non erano una cosa seria. Una buffonata di società segreta, probabilmente un gruppo di sfigati, giovani e vecchi, che si fingevano importanti, per rendere più sopportabile una vita meschina. Si sentì più tranquillo. Era un gioco, niente di più,

«E ti hanno lasciato entrare così?» chiese infine.

«Beh, uno era amico di mio papà, ma poi li avevo già visti, dalle parti della sala. Passano ogni tanto di lì a cercare gente, ma non li avevo mai ascoltati. Non li caga nessuno, fanno anche un po’ pena. Poi ne ho visto uno a casa mia, sai, e... boh, ero un po’ curioso. Mi ha spiegato un po’ la roba che fanno, le loro idee, la politica, quelle robe lì. E non sono sfigati, anzi! Sono grandi! Io no ci capisco molto, ok, ma vogliono fare cose che sono giuste. Che servono davvero. Sono pochi e sembrano un po’ degli idioti, vabbè, però hanno ragione. Davvero! Secondo me ti piacerebbero.»

Davide aveva qualche dubbio, ma non parlò. Dovevano essere il solito gruppo di maniaci e mezzi matti, che ogni tanto spuntano dalle fogne e cercano di fondare un partito popolare, o di raccogliere gente che gli desse ragione, solita storia. A volte ce n’era qualcuno con idee buone, valide, che con un sostegno più dignitoso si potevano anche presentare al Governo regionale, o almeno al governo provinciale. Idee su come migliorare la condizione di vita in una certa zona del paese, per esempio, o come gestire meglio le risorse in un’altra. Iniziative locali, insomma, a volte giuste.

Amir però parlava di cose che volevano fare con la Terra, che non è la stessa cosa. Doveva essere un gruppo di esaltati, allora, uno di quelli che campano quanto una falena: nascono, sparano un po’ di scemenze da megalomani, si fanno ascoltare da quei quattro o cinque gatti e muoiono quando i quattro o cinque gatti hanno trovato di meglio da fare. Una perdita di tempo, insomma, una roba che solo il suo amico poteva prendere sul serio.

«Davvero, dovresti venire anche tu!» insisteva Amir. «C’è una riunione la settimana prossima, vieni con me che ti presento al capo. Se glielo chiedo io, ti accetta di sicuro. È una brava persona.»

Sì, e gli asini volano, pensò Davide. Aveva voglia di assistere a quella riunione tanto quanto aveva voglia di farsi una vecchia gastroscopia, di quelle col tubo, ma sapeva che alla fine sarebbe dovuto andare. Non per il gruppo, ma per vedere in cosa si fosse infilato Amir. Se era una cosa innocua, lo poteva lasciar divertire per un po’ e aspettare che gli passasse. Se invece non era innocua, avrebbe almeno tentato di tirarlo fuori. Se poi non ci fosse riuscito, avrebbe tagliato i ponti e tanti saluti. Gli sarebbe dispiaciuto, ma aveva già abbastanza problemi nella vita, senza andarne a cercare altri. Era una regola di base della sopravvivenza, per lui, e lui alla sopravvivenza ci credeva davvero. Davide il sopravvivente, ecco chi era lui, almeno nelle sue fantasie solitarie.

«Verrò,» rispose Davide. «Basta che mi ricordi quando c’è e mi ci accompagni, perché non so dove sia il posto e non so neanche se mi faranno entrare. A te ti conoscono, a me no,» aggiunse con un sorriso. Un sorriso che era in realtà una vaga derisione, ma che Amir non colse. Tanto meglio.

«Non ti preoccupare, faccio tutto io. Tu seguimi e basta!»

Ritornarono in classe, con un paio di minuti di ritardo e una punizione ad attenderli come sempre, e come sempre non vi badarono molto. Sarebbe stata una giornata ancora lunga e Davide si scoprì a pensare alla madre, da sola in casa, a riposo forzato. Avrà preso le sue pillole? O avrà fatto come sempre, fregandosene del medico e scegliendo di testa propria? Avrebbe controllato al ritorno.

Una settimana dopo, Davide seguì Amir alla riunione degli isolazionisti. E anche se non lo sapeva e non l’avrebbe scoperto ancora per diversi mesi, fu un altro punto di svolta della sua vita.