Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 13

Quando Matteo Kori si ritrovò a guardare in faccia il mare di Lakshmi, per la prima volta dal giorno in cui ne aveva ammirato i confini dall’ascensore spaziale, scoprì di esserne spaventato. Il fatto che ogni cosa fosse avvolta da una massa di caldo quasi solido, nonostante il peggio dell’estate fosse ormai, teoricamente, passato assieme al Muro, non servì a migliorare la prima impressione.

La spiaggia di Bishapur era una normale linea di sabbia, regolare, punteggiata di ombrelloni, lettini, ma soprattutto di esseri umani, che già a metà mattina occupavano la maggior parte degli spazi e si affollavano sul bagnasciuga, per rinfrescarsi in quel clima soffocante di fine estate. Ma questo non lo spaventò. Era normale. Era ciò che qualsiasi terrestre, almeno della zona mediterranea, si sarebbe aspettato di trovare.

Una dentiera di scogli biancastri, regolari e precisi, correva da un estremo all’altro dell’orizzonte, senza curarsi di mimetizzare la propria artificialità. Si distendeva a una ventina di metri dalla riva, e la sua presenza tagliavano il mare in due metà irregolari: la più piccola, tra scogli e spiaggia era una specie di laguna protetta, di un azzurro blando, mentre fuori, oltre la barriera, si apriva all’infinito un mare scuro e selvaggio, su cui scorrevano cicatrici bianche di onde. Neppure questo lo spaventò. Era ancora una scena normale, in base alle proprie esperienze terrestri.

L’orizzonte, dove cielo e mare si incontravano, era sfocato, indistinto, come se al largo vi fosse una nebbia costante, posata sull’acqua. Il che non era del tutto errato, data l’alta umidità della stagione, che in distanza liquefaceva lo sguardo. Sharma glielo aveva spiegato, durante il viaggio, e Matteo si era preparato a quello strano effetto. Ciò che non si era preparato a vedere, sull’orizzonte, erano le colonne d’acqua, che si alzavano in brevi spruzzi verso il cielo, là dove mare e aria si mischiavano, in un intreccio di blu e bianco. Questo lo spaventò.

Si fermò sul piano inclinato, che dalla strada conduceva alla spiaggia, borsa in spalla e bocca aperta, mentre i compagni gli passavano oltre, parlando e ridendo tra loro. Che cos’erano quegli spruzzi? A uno a uno si alzavano e sparivano, non regolari, non continui, ma disseminati più o meno lungo tutta la linea dell’orizzonte, per quel che riusciva a vedere. Potevano essere geyser, se avesse avuto senso trovare geyser in mezzo al mare (era possibile? Non ne aveva idea), ma non lo sembravano. Nel complesso, trasmettevano una impressione molto più naturale, organica.

D’improvviso, Matteo si ricordò degli scherzi di Indira, quelle battute sui pesci grossi e cattivi, che non lo avrebbero mangiato, finché restava vicino alla riva. Forse non aveva specificato che fossero proprio grossi e cattivi, forse questo lo aveva aggiunto lui, nella sua memoria, ma adesso doveva considerare seriamente l’ipotesi che non fosse uno scherzo, non del tutto. Forse c’erano davvero delle cose, in quel mare, che potevano essere ben poco ospitali con gli stranieri. E forse...

«Beh, ti sei incantato? Il caldo ti ha fuso il cervello?»

Chakra era di fianco a lui, sorridente e strafottente nella sua espressione. Una fascia sulla fronte gli teneva indietro i capelli mossi e una mano salì ad accarezzarsi il pizzetto, mentre fissava curioso il terrestre pallido sperduto, come in attesa di vedergli compiere, da un momento all’altro, qualcosa di estremamente stupido. Matteo temeva di dovergli dare ragione: era molto probabile che, a breve, lui avrebbe fatto o detto qualcosa di molto stupido. Respirando a fondo, si buttò.

«Guardavo quelli,» disse, indicando uno degli spruzzi, uno particolarmente alto, che aveva decorato proprio allora il confine tra cielo e mare. «Quegli spruzzi. Sai.»

«Sì,» rispose Chakra, dopo una pausa di osservazione. «Lo vedo anch’io. E allora?»

Dunque sono normali, pensò. «Allora... cosa sono?»

Chakra lo fissò perplesso, poi sorrise. «Ah, quelli. Non li conoscevi?»

«No.»

«E li hai scambiati per un segnale della presenza di cose mostruose, che si annidano negli abissi di Lakshmi e aspettano solo di poter divorare gli stranieri, che osano sfidare le loro acque.»

«Beh, no, mi chiedevo solo...»

«No? Peccato, per una volta che avresti avuto ragione tu... Ebbene sì, quelle sono proprio creature mostruose, annidate negli abissi in attesa di divorare esseri umani troppo avventurosi.»

«Stai scherzando, vero?»

Il sorriso si allargò. «Quasi. Sono pesci, ma nessuno ti vieta di considerarle creature mostruose, dato che, nel complesso, non sono particolarmente belle, se considerate secondo i canoni estetici di noi umani. D’altro canto, è probabile che neppure noi siamo particolarmente belli per loro, sempre ammesso che si preoccupino di guardarci e possiedano canoni estetici.»

«Pesci?»

Chakra sospirò. «Non so come siano i pesci sulla Terra e non me ne frega niente. Sono cose che vivono in mare, respirano acqua, nuotano e svolgono la maggior parte delle funzioni che, sulla Terra, sono riferite ai pesci. Dato che ne occupano più o meno la stessa nicchia, li chiamiamo pesci, ok? Se vogliamo andare più nello specifico, poi, un buon numero dei nostri pesci si nutre filtrando l’acqua marina, per assorbirne le sostanze nutritive o quel cavolo che è. Plancton e roba simile, o il loro equivalente, se ti è più chiaro. Aprono la bocca, aspirano l’acqua, la filtrano e poi la sputano fuori. Gli spruzzi che tu vedi, e che ti spaventano tanto, sono appunto l’acqua sputata dalla testa, o dalla schiena. È una scena normale, nei nostri mari, ed è meglio che ti ci abitui.»

«Bevono acqua, la filtrano e la sputano fuori?»

«Più o meno. Per i dettagli, chiedi a un biologo o a come cavolo si chiamano i tizi che studiano i pesci. Io i pesci li mangio e basta, non li studio.»

«E sono innocui?»

«La loro bocca è una specie di setaccio, o di filtro. Sei troppo grosso per passarci.»

«Ah... e tutti i pesci si nutrono così?»

«Certo che no. Molti lo fanno alla vecchia maniera, mangiando i pesci più piccoli; altri ancora si cibano delle alghe sui fondali; altri, e sono quelli che ci interessano, filtrano l’acqua e la sputano. Se l’argomento ti interessa, chiedi pure a Lin Yutang, che ha strani gusti come te. A meno che non si sia deciso a mettere la testa a posto, cosa che gli servirebbe parecchio.»

Matteo non si mosse. L’odore del mare gli arrivava forte, portato dalla brezza, e forte gli arrivava anche il caldo, che si accumulava attorno e addosso a lui: non più soffocante come durante il Muro, ma non certo da sottovalutare. Vedeva gli altri del loro gruppo, che li avevano sorpassati e stavano sistemando le borse presso alcuni ombrelloni liberi, più vicini alla strada che all’acqua. Indira e Sharma lo guardavano perplessi, mentre stendevano gli asciugamani; Matteo non li notò.

«Sicuro che non ci siano pericoli, vero?» chiese infine a Chakra, che ancora attendeva con pazienza, e un sorriso di scherno, accanto a lui.

«No, non ci sono. La vedi quella linea?» disse, indicando gli scogli. «Serve appunto a separare la zona di mare sicura, cioè quella vicino alla riva, dalla zona di mare non sicura, cioè quella al largo. Finché resti da questo lato degli scogli, nessuna cosa grossa e cattiva ti farà la bua. Capito?»

Non tutto, ma la maggior parte sì. Cominciava ad abituarsi all’accento di Chakra e alle parole strane che infilava spesso e volentieri nei suoi dialoghi. Al suo carattere, irritante e offensivo nel trentasei per cento dei casi, ancora non si era abituato del tutto, ma per adesso era disposto a concedergli il beneficio del dubbio. Forse non era poi così terribile, come persona. Forse c’era anche qualcosa di salvabile, in lui. «Quindi si può entrare in acqua, giusto?»

Chakra sospirò, posando la sua borsa a terra. Afferrò la testa di Matteo e la orientò verso un punto del bagnasciuga. «Vedi?» chiese. «Vedi lì sulla riva, quelle cose che entrano ed escono dal mare? Si chiamano bambini e sono una forma ridotta di esseri umani. Capisci? Li dovreste avere pure voi, sulla Terra, no? Ripeti con me: bambini. E là,» orientandogli la testa a metà strada tra riva e scogli, «ce ne sono altri, li vedi? Bambini. Ripeti con me: bambini. Sono piccoli, stupidi, rumorosi, spesso puzzolenti e del tutto incapaci di arrangiarsi da soli. Eppure, eppure, sono tutti lì, in acqua, nuotano, giocano, se ne fregano degli spruzzi. Li vedi? Ti sembrano morti o terrorizzati? Mangiucchiati?»

Sì, li vedeva. E no, non gli sembravano morti, né terrorizzati. Accaldati forse sì, bruciacchiati anche, non eccessivamente puliti ci poteva poi stare, ma parevano anche vivi, vegeti, interi e piuttosto divertiti. O almeno, le loro urla sembravano allegre e non disperate. «Sì, va bene, però...»

Chakra gli lasciò andare la testa e raccolse la borsa. «Fai come ne hai voglia, pustola umana. Il mio dovere l’ho fatto, ti ho spiegato dove puoi nuotare e dove è meglio non andare. Il resto sono affari tuoi. Se vuoi stare in spiaggia, stai in spiaggia; se vuoi nuotare, nuota. Principio di responsabilità.» «Principio di responsabilità?» chiese Matteo. «Prima mi avverti e poi cavoli miei, perché è una mia scelta e sono libero di fare come credo, se ne accetto le conseguenze?»

Chakra alzò le spalle. «Una volta avvertito e informato, la decisione è tua e la responsabilità pure. E oggi sono stato anche piuttosto chiaro, non trovi? Più di così, te lo avrei dovuto incidere dritto sulla corteccia cerebrale.» Si avviò lungo il piano inclinato e poi sulla sabbia, per raggiungere gli altri sotto gli ombrelloni. Dalla risata che seguì, doveva aver detto qualcosa di spiacevole su di lui.

Matteo rimase ancora a osservare la linea d’orizzonte, coi suoi spruzzi, e a respirare l’odore di mare e sabbia, così simile alla Terra. Le voci che salivano dalla spiaggia erano le stesse di sempre: risate, urla, brusio di conversazioni, onde contro la riva, il risucchio lieve della risacca e l’occasionale pianto di un bambino. Cambiava la lingua, ma non l’effetto, qualunque fosse il pianeta e la cultura. O così sembrava. Aveva comunque un sapore domestico e per adesso poteva bastare.

«Pensavamo che fossi morto, lassù,» lo accolse Indira, quando infine raggiunse l’ombrellone. Erano quattro, quelli occupati da loro, e a parte gli asciugamani, i lettini e i costumi da bagno, per il resto era come essere rimasti a Varshi, in università oppure in mensa. Le stesse facce, attorno, che aveva imparato a conoscere e riconoscere nei circa centocinquanta giorni spesi su Lakshmi: cinque mesi terrestri, grossomodo, anche se i giorni lakshmiti erano più lunghi, per cui l’equivalenza non era esatta. Gli sembrava molto di più, ma forse sembra sempre molto di più, all’inizio. È alla fine che ti sembrano di meno, i giorni e gli anni. Una buffa relatività del tempo, che si scosse via assieme alla maglia e alle ciabatte da mare, che gli erano già valse parecchie risate. I suoi gusti non sembravano proprio in linea con la moda lakshmita.

«Chi ha voglia di nuotare?» chiese una compagna di corso di Indira. Matteo l’aveva vista più volte e le aveva pure parlato, ma ancora non gli era entrato in testa il nome. I nomi non sarebbero mai stati la sua specialità, né sulla Terra né su Lakshmi. Mei qualcosa, forse, o Xu qualcosa. Più probabile la seconda, ma avrebbe atteso che qualcuno la chiamasse per nome, per evitare figuracce.

«Tempo di sistemarmi e arrivo,» rispose Chakra per primo.

Sharma si girò verso Matteo. Era già pronto, in costume, rivelando un fisico stranamente glabro per un maschio della sua età. «E tu? Ti unisci o fai il cane da guardia?» chiese, accennando con la testa verso gli altri, che si stavano raggruppando per andare.

Matteo guardò gli spruzzi all’orizzonte, guardò Indira poco distante, che lo fissava con pietà, pensò a Chakra che di certo ridacchiava. Pensò a Bogdan, che era rimasto a Varshi, ed era decisamente meglio così, perché la sua sola presenza lo avrebbe umiliato, sia sul piano fisico che su quello del carattere. Uno spaghetto pallido come lui non poteva reggere, accanto a uno scienziato col fisico da atleta (maledetto!). Ma un suo incoraggiamento gli avrebbe fatto piacere. «Fino alla riva vi seguo, poi vediamo,» rispose, tentando una specie di sorriso, che somigliava a una smorfia.

Li seguì e vide. E non entrò in mare.

Lo trascinarono in acqua, alla fine.

Ci vollero in sei, a tirarlo per le braccia e spingerlo dalla schiena, e alla fine Chakra il capobranco lo dovette prendere per le gambe, sollevandolo di peso, ma la missione fu compiuta: il terrestre era stato alfine battezzato, tra le risa degli altri e gli sguardi incuriositi dei bagnanti.

«Ci assumiamo la responsabilità di averti fatto muovere il culo e magari svegliare un po’,» dichiarò Chakra con tono solenne, pugni sui fianchi e viso rivolto all’orizzonte, accompagnato dagli applausi dei compagni. Matteo riemerse dalle acque, sputacchiando e brontolando, non entusiasta ma vivo e vegeto, nonostante le paure, e giurò vendetta a tutti con lo sguardo più bieco e spietato che sapesse produrre. Ne ricavò altre risate.

«Allora, sei morto?» gli chiese Indira, ancora ridendo. Un ciuffo di capelli le si era appiccicato al centro della fronte, in modo molto curioso, e le dava un’aria che Matteo non sapeva definire, pur essendo certo che esistesse una parola, almeno nella sua lingua natale. In lakshmita... chi lo sa?

«Potrei anche esserlo,» le rispose, finendo di sputare l’acqua che aveva bevuto. Sembrava un poco meno salata, rispetto al mare terrestre, ma faceva schifo lo stesso, e il pensiero che fosse stata tutta bevuta e sputata già da quei robi là fuori, quelli che spruzzavano, non migliorava il suo umore. Non sarebbe andata molto meglio, se avesse pensato anche a tutte le altre cose che i pesci, solitamente, fanno dentro l’acqua, ma quel pensiero fortunatamente non lo sfiorò, al momento. Sarebbe arrivato durante la notte, però, spingendolo in bagno a vomitare.

«Se vuoi, sono certo che Chakra ti farà fare volentieri un altro giro,» commentò Sharma, sorridente. Non aveva partecipato al lancio del terrestre, ma alle risate sì, e anche agli applausi. Spettatore non innocente, dal punto di vista di Matteo.

«Non ti rispondo, perché non conosco le parole che mi servirebbero,» disse, puntandogli contro il petto un dito a grissino, gocciolante. «Ma te le lascio immaginare.»

«Che piattola!» esclamò Indira, allargando le braccia. «Finiscila di brontolare, su, e vieni a farti una nuotata con noi. Si sta meglio in acqua che fuori, con questo caldo!»

Vero, ma cedere adesso voleva dire darla vinta ai “lanciatori” e fare la figura dell’asino, che deve farsi trascinare al fiume e infilare il naso nell’acqua, prima di decidersi a bere. Anche restando fuori, però, avrebbe in un certo modo dato ragione a loro, dimostrando di essere così stupido da farsi due ore di viaggio, in una estate afosa, per poi non mettere neppure piede in mare. Se però lui avesse...

«Basta seghe mentali e nuota!» gli ordinò Indira. Matteo lasciò in stand-by ogni altra riflessione su onore e politiche interpersonali, per nuotare assieme agli amici. O almeno immergersi in acqua con loro, accompagnato anche dal proposito meno nobile ed edificante di ammirare più da vicino alcuni costumi da bagno. Tenendo però un occhio sempre rivolto agli scogli, e agli spruzzi che si levavano verso l’orizzonte, laggiù.

All’ora di pranzo, e nel primo pomeriggio, il caldo era ancora eccessivo per restare in spiaggia, o in un altro luogo aperto; si rifugiarono così in uno dei tanti locali sul lungomare, distribuiti sulla linea di separazione tra spiaggia e strada, per pranzare e chiacchierare un poco, al fresco. Fuori, sembrava non esserci più vita e gli ombrelloni attendevano deserti, carichi di asciugamani e magliette: pochi si erano curati di vestirsi, per la pausa pranzo. Matteo ne fu stupito, all’inizio, ma poi si ricordò che anche sulla Terra succedeva spesso di vedere gente in costume, che girava tranquilla nei bar e nei negozi attorno alla spiaggia. Inoltre, non si poteva lamentare del panorama.

«Strano posto, il vostro mare,» osservò, mentre sorseggiavano una bibita fresca a fine pranzo. Era al tavolo con Indira e Sharma; Chakra era al tavolino accanto, assieme a due compagne di corso e via via tutti gli altri, a riposarsi e chiacchierare, in attesa che il caldo calasse.

«Strano e in gran parte inesplorato» gli rispose Sharma «Potrebbero spuntare cose ancora più strane, quando le nostre conoscenze si saranno allargate, soprattutto in profondità.»

«Che significa, scusa?» La poca tranquillità che Matteo aveva conquistato, quella mattina, si stava già sciogliendo dentro di lui. Aveva cercato di escludere dalla sfera della coscienza ogni pensiero di mare aperto e spruzzi all’orizzonte, ma le parole di Sharma li riportavano indietro.

«Significa solo che, del nostro mondo, ne sappiamo ancora ben poco,» rispose Indira. «Viviamo qui da duecentocinquant’anni circa, secondo le vostre unità di misura, e non possiamo certo sapere cosa ci sia in ogni misero buco della sua superficie. Oppure sotto la superficie, se è per questo. Il mare di Bishapur è noto ed esplorato, per cui risparmiati pure il costume da bagno fino alla prossima occasione, non c’è bisogno che te la fai subito addosso, ma gli oceani in larga parte non lo sono. Non oltre una certa profondità, almeno. Per cui...»

«Per cui non sappiamo cosa potrebbe esserci,» concluse Sharma. «Ma qui intorno lo sappiamo, stai tranquillo. Il mare di Bishapur è una baia, larga ma dall’imboccatura stretta, ed è facile controllare tutto ciò che vi entra. Non saremmo stati così stupidi da costruire un centro balneare in un posto che non conosciamo, ti pare?»

A Matteo pareva che fosse possibile, anzi molto umano, ma lo tenne per sé. Avrebbe preferito lasciar cadere il discorso e passare ad argomenti più lievi e lieti, ma in apparenza non era ancora il tempo.

«Se la cosa ti può consolare, comunque, è quasi impossibile che esistano anche qui creature simili ai fantastici calamari di Varuna,» aggiunse Indira, ridendo.

«Calamari di Varuna?»

«Mai sentiti? Sei proprio un verme di terra, eh? Hai presente almeno Varuna, la colonia?»

Più o meno, sarebbe stata la risposta corretta, ma Matteo optò per un sicuro «Certo che la conosco, secondo te», che non sembrò convincere molto Indira.

«Mettiamola così, vabbè. A ogni modo, pare che negli abissi oceanici del pianeta viva una vera e propria civiltà di calamari intelligenti, o di cose che assomigliano a calamari. Testa grossa, corpo affusolato, un mucchio di tentacoli e roba simile, ok?»

«Ok.»

«E sono intelligenti, almeno secondo gli exologi di Varuna.»

«E per intelligenti intendi...»

«Che avrebbero sviluppato un qualche tipo di civiltà subacquea, o almeno così sostengono spesso gli exologi di Varuna.»

«Ma... è anche vero?»

Indira scrollò le spalle. «Mistero! Tutto ciò che hanno trovato, finora, è la carcassa parziale di uno di questi calamari. Come tutti gli scienziati, poi, si sono scatenati in seghe mentali a non finire, con tutte le fantasie che potevano infilarci.»

«Ah...»

«Non sei molto interessato, vero?» commentò Sharma.

«Non sono proprio un amante di questi argomenti, ecco, per cui preferirei che passassimo ad altro, se è possibile.»

«Fifone...» lo derise Indira.

Alla fine, però, il discorso cambiò, mentre sedevano nel locale, attendendo che il caldo peggiore passasse. Dal mare e i suoi strani abitanti, si tornò a parlare di scuola ed esami, di prospettive per l’autunno e dei nuovi corsi che avrebbero seguito; parlarono di Bogdan assente e di ciò che si era perso, quel fesso studioso; parlarono dei fatti propri, delle ultime novità, pettegolezzi vari su questa o quella persona. Matteo ascoltò tranquillo, quasi sonnecchiando, fino a che la gente nel locale non cominciò ad alzarsi e imboccare la porta, prima alla spicciolata, poi in una mareggiata. L’ora d’aria era giunta.

«Andiamo anche noi, dunque,» disse Indira, già alzandosi. I capelli le si erano asciugati e avevano recuperato la naturale pettinatura mossa, anche se il modo in cui si ingarbugliavano sulla sua testa non era naturale per niente: aveva l’aria di chi si fosse appena svegliata da un sonno molto agitato e Matteo dovette evitare di fissarli, per non scoppiare a ridere. Per sua fortuna, non fu difficile trovare alternative da fissare, nei dintorni. Sospettava che vi fosse più di un lato feticista, nella sua curiosità vagamente morbosa di esaminare, in costume da bagno, quelle persone che lui era solito vedersi attorno in abiti normali, ma al momento preferì non indagare troppo. Potevano esserci cose molto spiacevoli, annidate nella psiche umana.

«Certo che andiamo!» rispose Chakra, alzandosi a propria volta, di scatto. Le compagne di tavolo lo imitarono subito, come fecero via via tutti gli altri della loro comitiva. «Se resto ancora un po’ qui dentro, mi viene il culo piatto.»

Solo Matteo non si alzò. Si guardava intorno a disagio, le mani che stringevano i braccioli della sedia, con una bibita a metà e una pasta locale ancora da mangiare. Una pasta molto buona, di cui aveva scoperto di essere particolarmente vorace, nelle ultime ore. Non sembrava avere molta voglia di alzarsi, in generale. Non sembrava neppure di avere particolare voglia di vivere, al momento, ma quello era il suo aspetto abituale.

«Resterò qui ancora un poco,» disse. «Vi raggiungerò dopo.»

«Ancora questa storia? Sei una spina al culo, davvero!» esclamò Chakra, allargando le braccia. Dai tavoli vicini, qualcuno si girò a guardarli. Si sentirono risatine.

«Finisco di mangiare e poi arrivo, tutto qui.»

Sharma e Indira erano già alla porta e non lo aspettarono. Chakra lo guardò ancora una volta, poi alzò le spalle. «Tanto in acqua ci finisci lo stesso, anche se hai appena mangiato. Ti toglierò la tua stupida paranoia, prima che sia finita la vacanza.» Poi si avviò insieme agli altri, lasciandolo solo in quel locale. Matteo li guardò allontanarsi e si rilassò.

Non è che volesse restare lontano dal mare, sia chiaro. Non è che avesse qualcosa contro i costumi da bagno delle compagne (e i costumi da bagno in generale), sia ancora più chiaro. Era solo che... beh, non gli veniva in mente una scusa buona e sensata, ma era sicuro che ce ne fossero a migliaia, lì nei paraggi. Bastava trovarle. Intanto, se ne sarebbe rimasto seduto ancora per un poco lì dentro, al fresco, a mangiare la sua pasta.

Sì, quello era un buon punto di partenza, per un serio e utile esame di coscienza. Mangiare la pasta, rilassarsi e soprattutto non pensare agli abissi marini inesplorati, in cui poteva annidarsi di tutto. E ai fantomatici calamari di Varuna, maledizione a Indira! Aveva sempre nutrito scarso amore per le grandi masse d’acqua, anche sulla Terra, e tutte le cose strane che aveva già visto lì, su Lakshmi, non facevano che peggiorare la situazione. Meglio stare all’asciutto, per adesso. E pensare.

Perso nelle proprie riflessioni e indaffarato a guardare storto il mare, fuori dalle vetrate del locale, si accorse soltanto all’ultimo momento che qualcuno si era fermato in piedi accanto a lui. Qualcuna, per essere più precisi. Una visitatrice inaspettata, per essere ancora più precisi.

«Ciao, ti spiace se mi siedo?»

Matteo si girò infastidito, pensando che fosse qualche amica di Indira, spedita come avanguardia per trascinarlo fuori, ma si sbagliava. La ragazza alta e abbronzata, in piedi accanto a lui, non era né un’amica di Indira, né qualcuna che avesse già visto. Decisamente no: se la sarebbe ricordata. I suoi lineamenti mostravano una origine cinese, ma era parecchio alta, forse addirittura quanto Chakra, e i suoi occhi non avevano un taglio cinese, proprio per nulla.

Occhi da gatto, li avrebbe potuti definire, con un affettato richiamo a quella letteratura che spesso consumava e un richiamo molto più scarso alla realtà, che spesso non guardava. Occhi a mandorla? No, mai e poi mai. Non c’entravano proprio. Nel complesso, quella ragazza sembrava appartenere a una categoria di persone che, in quasi vent’anni, non si era mai avvicinata per prima a lui, né lo aveva mai guardato volontariamente per più di due volte, ma più spesso neppure una volta: in breve, una bella ragazza sconosciuta.

«Ah... ciao,» rispose Matteo, con la calma di un condannato a morte. Che fosse l’inizio di una fantomatica e inimmaginabile avventura estiva, mai sperata fino ad allora? «Siediti pure, sì.» Spinse una sedia più vicina a lei, tirandogliela quasi in un ginocchio. La ragazza la bloccò in tempo.

«Grazie,» e si sedette. «Mi chiamo Kemala Kexin, scusa il disturbo.»

«Ah, piacere. Io mi chiamo Matteo Kori,» le rispose, stringendole la mano e sapendo già che non sarebbe mai riuscito a pronunciare bene il suo cognome. Keschìn? Kecsìn? Kjesìn? Qualunque cosa fosse, era al di là delle sue capacità, ma forse il nome sarebbe bastato: Kemàla, molto più facile.

«Lo sapevo!» rispose lei, sorridendo. «Tu sei terrestre, vero?»

Ah, ecco. Adesso capiva perché una bella ragazza gli si fosse avvicinata. Non perché era interessata a lui (improbabile, d’accordo, ma un uomo ha pur diritto di sognare), ma perché era interessata alla sua origine. Un terrestre era una rarità, su Lakhsmi, come aveva già scoperto all’università e come gli aveva confermato Bogdan. «Sì, sono terrestre. Immagino che sia il colore dei capelli, giusto?»

Kemala alzò le spalle. «Capelli, colore, lineamenti: si vede che non sei di qui. Nome e accento me lo hanno solo confermato, ma lo avrebbe capito chiunque. Sei qui per motivi di studio, vero?»

«Ah... sì, ma...»

«Sei con un gruppo di studenti di Varshi, già, quelli usciti poco fa. E poi, in questo periodo, la gente qui arriva quasi tutta da Varshi, studenti o personale universitario, prima dei corsi autunnali. Anche io studio lì, ma non ti avevo mai visto,» aggiunse.

«Beh, forse seguiamo corsi molto diversi,» Matteo balbettò in risposta. Non si sentiva a disagio, ma non si sentiva neppure interamente ancorato al pianeta. La sua testa era leggera, come se gli dovesse volar via da un momento all’altro. Tutta colpa del suo profumo, si disse, e in parte era vero. La pelle di quella ragazza emanava un profumo intenso, simile ai fiori che crescevano nel giardino della sua residenza universitaria. Doveva essere per forza artificiale, un estratto di quelle piante, che magari...

«Può darsi,» disse lei. «Ho sentito che nel quartiere degli scienziati ci sono alcuni terrestri, che sono venuti qui a studiare planetologia, fisica e altra roba del genere, come i motori interstellari, ma non sono mai riuscita a incontrarli. Da me, poi, non ce ne sono proprio.»

«Ah». Non era soltanto colpa del profumo, si disse. C’era anche qualcos’altro in lei, qualcosa che gli impediva di formulare pensieri lucidi e coerenti. Doveva essere colpa del campo gravitazionale anomalo che la circondava, forse l’effetto di un microscopico buco nero, un buco nero psicologico, che risucchiava il suo cervello. Ogni volta che cercava di guardarla negli occhi, la sua attenzione si abbassava di una ventina di centimetri circa, poco sotto il collo, e da lì non riusciva più a staccarsi. Un campo gravitazionale anomalo, già, era l’unica spiegazione. Nonché più grande della media, per quanto poteva ammirare dal costume. Ma non era il momento giusto per pensarci, no, era semmai il momento di concentrarsi, ragionare, mantenersi lucido, e poi...

«Anche tu sei uno di quegli scienziati? Credo di no, perché i tuoi amici non hanno la faccia di chi studia materie scientifiche. Anche se alcuni, forse, potrebbero pure esserlo. Nel complesso, però, mi sembrate più che altro un branco di umanisti, o qualcosa di simile.»

«Sì, io... letteratura!» disse, con uno sforzo estremo. «Studio letteratura. Abito nel quartiere sud, di lettere e filosofia, insomma.» Ecco, la ragione stava pian piano tornando al solito posto, cioè quello dietro la fronte. Forse poteva opporsi al campo gravitazionale, anche se gli occhi non erano dello stesso parere. E non soltanto loro, in effetti.

«Letteratura? Insolito. Non ho mai sentito di un terrestre che venisse su uno di questi mondi, per studiare letteratura. Non ne avete già abbastanza, da voi?» Kemala lo guardava incuriosita, come se fosse il più anomalo degli esseri viventi. O dei microorganismi, forse.

«Beh, sì, ne abbiamo abbastanza,» rispose, cercando di guardarla soltanto in faccia. «Secoli e secoli di letteratura, se è per questo, ma non abbiamo quella che cerco io.»

Per un attimo Kemala sembrò sorpresa, poi sorrise. «Sì, questo lo capisco. È più o meno quello che succede anche a me, adesso.»

«Cosa studi, tu?» Cominciava a sentirsi più padrone di se stesso, ora, anche se il profumo restava forte. Il profumo delle notti di primavera su Lakshmi, o così gli appariva: profumo di fiori e piante ignote a lui, che riempivano l’aria con una intensità da stordirlo. E forse anche il suono di insetti misteriosi, che aggredivano animaletti pelosi di passaggio.

«Archeologia» gli rispose. «E come puoi immaginare anche tu, per un’archeologa questi mondi non hanno molto da offrire. A parte Agni, d’accordo, ma su Agni abbiamo solo una pietra, per adesso. È un’altra la nostra terra promessa.»

«La Terra?»

Kemala alzò le spalle. «Indirettamente. Quello che sogno io è Madre.»

«Le rovine aliene, già.» Ovvio. Era stata l’unica scoperta che, negli ultimi secoli, avesse riportato di moda l’archeologia, in un’epoca di acuto declino, dove tutto sembrava già stato trovato, sulla Terra, mentre gli altri pianeti non avevano antiche civiltà da riscoprire. Erano paradisi per altre discipline, come le scienze naturali in generale, ma non per l’archeologia, che ormai sembrava aver concluso il proprio scopo ed essersi avviata verso una serena vecchiaia in pantofole, davanti al camino.

Prima che arrivasse Madre.

«Le rovine aliene, sì,» confermò lei. «E il mio sogno è proprio quello di lavorare su Madre, dopo la laurea. Lavorare alle rovine, aiutare a riportarle in superficie, contribuire prima alle simulazioni di restauri, per vedere come fossero quei luoghi una volta, tre milioni di anni fa, e poi eventualmente ai restauri veri e propri, se mai cominceranno. Voglio conoscere i popoli che le abitavano, la loro cultura, ciò che ci hanno lasciato e ciò che è andato perduto, e perché qualcosa è andato perduto. Capisci? È esistita una intera civiltà, una civiltà come la nostra, nata, cresciuta e morta quando noi eravamo scimmioni, primati primitivi. Loro non hanno mai conosciuto noi e noi non abbiamo mai conosciuto loro, ma adesso possiamo resuscitarli, in un certo modo. Possiamo entrare in contatto con loro, o almeno con quello che ci hanno lasciato. Ed è questo che voglio. Capisci?»

Sì, più o meno capiva. Capiva soprattutto quanto lei fosse ossessionata dall’idea. Non aveva mai visto un lakshmita gesticolare così tanto, mentre parlava, ed era anche raro vederli arrossire a quel modo, per quanto ne sapeva lui. Eppure il volto di Kemala era quasi paonazzo, nella sua cornice di capelli neri e lisci, e le mani avevano mancato di poco il bicchiere di Matteo, sottolineando a gesti certi passaggi del discorso. Era anche la prima volta che lui riuscisse a percepire con distinzione che alcune parole erano pronunciate in corsivo. Inquietante. Capiva l’ossessione e, forse, capiva anche perché quella ragazza stesse cercando un terrestre. O almeno, ne aveva una mezza idea.

«Beh, non dovrebbe essere difficile, no?» le disse. «Mi pare che su Madre ormai ci lavorino degli archeologi di tutti i pianeti, non solo terrestri, giusto? Puoi sempre fare richiesta anche tu e magari ti accetteranno, se sei qualificata per il lavoro.»

Kemala sbuffò. «E credi che non ci abbia provato? Ho spedito curriculum, piano di studi e anche la presentazione del mio docente di riferimento, ma nulla! Non mi hanno accettata. Dicono che ci sono già membri esterni a sufficienza e che, adesso, la priorità va ai ricercatori terrestri. Ci sono anche limiti artificiali a ciò che gli esterni sono autorizzati a vedere e studiare, mentre per i terrestri questi limiti non ci sono! Ti pare giusto? È soltanto per questo che mi hanno scartata: non perché non sono qualificata, ma perché non sono terrestre. Non ho il passaporto giusto!»

«Ma... non è un centro interplanetario?» chiese Matteo, perplesso. «Cioè, lo so che Madre è colonia terrestre, ma pensavo che le zone archeologiche fossero state considerate come una zona franca, per così dire, un’area aperta a tutti i pianeti.»

«Un patrimonio dell’umanità, se vogliamo essere precisi. E sì, lo sono, formalmente. Peccato che il governo del pianeta sia terrestre e che il pianeta sia una colonia terrestre. Indovina un po’ chi ha la precedenza, tra gli archeologi terrestri e quelli degli altri mondi.»

«Beh, ma...»

«È già un miracolo che ci abbiano accettati, otto anni fa. Otto anni standard fa, per capirci: gli anni del tuo pianeta. Prima erano solo terrestri, poi si sono piegati alle proteste di tutti gli altri pianeti e ci hanno concesso di affiancarli negli scavi. Un poco alla volta, con appositi pass da richiedere al loro governo, il vostro governo, e la procedura per ottenerli è un incubo. Anche adesso, i non terrestri al lavoro sono il quindici per cento scarso del totale. Forse. Dipende da chi fa le statistiche.»

«Sì, va bene, capisco, ma...»

«A fine inverno sarò laureata, e dopo? Il presidente degli scavi, che guarda caso è terrestre, ha già fatto sapere che non accetterà altri lakshmiti, perché il loro numero ha raggiunto il tetto massimo. E io cosa dovrei fare? Capirei essere scartata perché non sono abbastanza competente, ci può stare, è un giudizio sul merito e lo accetto. Ma essere scartata perché non sono del pianeta giusto? Ti pare che abbia senso?»

«No, non pensavo neppure che ci fosse una regola del genere,» rispose Matteo, cercando di arginare la slavina di parole, che la ragazza gli rovesciava in testa. Sentiva molto meno il suo profumo, ora, e anche il campo gravitazionale sembrava essersi attenuato, tanto da riuscire a guardarla in faccia, in un modo quasi naturale. Peccato che la pura massa della sua rabbia lo stesse soffocando di parole e proteste. «Ma io cosa c’entro?» le chiese, cercando di puntare verso la razionalità.

Kemala sospirò. «Sei un terrestre, ecco cosa c’entri.»

«Sì, ma guarda che io non ho alcun potere sul mio governo, non è che...»

«Ma lo so, figurati,» lo interruppe lei, agitando una mano a spazzare via le obiezioni. «Non sono qui a chiedere un appoggio politico a uno come te. No, ho già tentato ogni via in quella direzione, sia da sola, sia coi docenti, sia anche con l’università stessa, e il risultato non è cambiato. Ci dispiace, ma i posti concessi a Lakshmi sono esauriti. Punto. È un muro di gomma, più protesto e più mi fanno rimbalzare lontano. No, di lì non si passa. Potrebbero però esserci altre porte, capisci? Altre strade che portano su Madre.»

«Ed è per questo che cercavi un terrestre?»

Alzò le spalle. «Non lo cercavo espressamente, ma speravo di incontrarne uno. L’ho incontrato qui, proprio quando non me lo sarei aspettata. Fortuna, destino, caso: non importa. Ti ho trovato.»

«Guarda,» disse Matteo, spingendosi un poco indietro con la sedia, «io non sono mai stato su Madre e non mi sono mai informato su come andarci. Non mi interessava proprio. Madre è un pianeta che cominciano adesso a costruire e a me non serviva. Mi serviva un pianeta già finito, come i vostri.»

«Perché su Madre non c’è letteratura, sì. E allora? No, non hai ancora capito cosa ti sto chiedendo.»

«Credo proprio di no.»

«E allora ascoltami. Non importa se ti sei espressamente informato su come andare su Madre, ma tu ti sei informato sui viaggi spaziali, giusto? Se sei venuto qui, avrai almeno dovuto fare tutte le varie documentazioni, chiedere i permessi, vaccinarti e tutto il resto, giusto?»

«Beh, sì, anche se degli aspetti più burocratici si è occupata la scuola. Il Ministero dell’Istruzione, credo, o forse l’Ufficio stesso, non saprei. Io ho presentato la mia domanda, è stata accolta e poi al resto ci hanno pensato loro. Non avrei saputo da dove cominciare, io...»

«D’accordo, ci hanno pensato gli altri. Ma Madre è una vostra colonia, giusto? E in questo periodo è in fase di espansione e di terraformazione, giusto? Immagino dunque che sarà molto pubblicizzata sul pianeta, con presentazioni dei progetti, inviti e magari centri di reclutamento per coloni. Di certo vi vorranno spedire lassù a vagonate, no?»

«Beh...» L’immagine che aveva visto nella stazione orbitale della Terra, quello spettacolo di angeli sui trampoli, trombettieri e giocolieri, gli si affacciò alla memoria. Quella era di certo una pubblicità programmata dall’Ufficio, lo stile era il suo. E non era l’unica. Nell’estate prima della partenza non era uscito molto, troppo impegnato a prepararsi con la lingua e altro, ma aveva visto anche in città alcuni manifesti e pubblicità, che invitavano a “scegliere la via delle stelle” e roba varia. Non vi aveva badato, al momento, perché tanto la sua via era già decisa, ma li aveva visti, questo sì. «Beh, sì, ci sono pubblicità e inviti alla colonizzazione, in effetti,» ammise.

«E qualunque terrestre può andare su Madre, giusto?»

Adesso sì che aveva capito. E non gli piaceva molto. «Beh, immagino che ci siano test di idoneità, o visite mediche, cose del genere. Però sì, in linea di massima possiamo dire che l’invito era rivolto a tutti i terrestri, senza distinzioni specifiche. Ma si sa, la pubblicità...»

«Sì, sì.» Di nuovo agitò la mano. «Il punto è che qualsiasi terrestre può raggiungere Madre, come colono, mentre soltanto pochissimi lakshmiti possono raggiungerla, come archeologi. Capisci? Per questo speravo di incontrare un terrestre. Perché le vie di Lakshmi mi sono precluse, ma le vie della Terra potrebbero essere aperte, capisci?»

Matteo si spostò ancora un poco più indietro, allarmato. «Vuoi diventare terrestre? Non mi sembra un metodo molto pratico e, beh, credo...»

Kemala sospirò di nuovo, passandosi una mano tra i capelli. «Non voglio diventare terrestre, anche se potrei tenerlo presente come ultima possibilità. Se volessi diventare davvero terrestre, il sistema più semplice e rapido sarebbe di sposare un terrestre e, credimi, non sono ancora così disperata, per cui puoi stare calmo, non è per questo che ne cercavo uno. No, la mia idea è diversa. Prima andare da Lakshmi alla Terra e poi dalla Terra a Madre, per aggirare il blocco. Capisci?»

«Uhm... in linea generale sì, capisco il concetto, ma non capisco come vorresti metterlo in pratica. Il nostro Ufficio sarà anche disposto a spedire di tutto su Madre, ma sta cercando terrestri e...»

«E il punto è questo. Terrestri. E se io mi infiltrassi in mezzo a loro, credi che mi riconoscerebbero come lakshmita? Ti avverto che ho studiato la vostra lingua e la parlo meglio di quanto tu parli la nostra. Credo di poterla perfezionare, restando per qualche tempo in mezzo ai terrestri, e in questo modo non dovrei aver problemi, quando mi presenterò per... arruolarmi, giusto?»

Matteo compresse le labbra. Era pazza, su questo non aveva dubbi. Fuori come un balcone, come un terrazzo, come una intera strada panoramica, come un ascensore orbitale. Voleva andare sulla Terra e fingersi terrestre, per poter partire coi coloni? «Il tuo aspetto non è molto terrestre,» le fece notare con gentilezza, quasi stesse parlando a una bomba inesplosa. «Tu mi hai riconosciuto per il colore, no? Succederebbe lo stesso a te, sulla Terra. Non sono tratti comuni, oggigiorno.»

«Bene,» e gli afferrò le mani. «Allora dimmi come dovrei diventare, per sembrare terrestre. Capelli? Occhi? Pelle? Lineamenti? Cosa dovrei modificare?»

Matteo scuoteva piano la testa, incredulo. No, non era fuori come una strada panoramica, molto di più: era fuori come una intera catena montuosa. Era una pazza completa, quella ragazza! Furiosa, forse. Ecco perché si era avvicinata a lui, adesso sì che aveva un senso. Non solo perché lui era un terrestre, ma anche perché lei era completamente svitata.

«Non credo ci sia bisogno di mezzi così... beh, così drastici,» cercò di risponderle. «Come... come pelle la puoi mascherare con l’abbronzatura, più o meno. Il tipo orientale non è più così diffuso da noi, dopo tutte le colonie, ma qualcuno sì, lo si trova ancora, e puoi fingere di essere una di loro, al limite. Giapponesi, per esempio. E poi, beh, il trucco. Con un buon trucco te la dovresti cavare e...»

Kemala lo guardò negli occhi. «Pensi che io sia pazza, giusto?»

«No,» mentì Matteo. «Cioè, magari un po’ ossessionata, ecco, un po’ troppo ossessionata, ma se per te è davvero così importante...»

«Per me è davvero così importante. Ho costruito la mia vita attorno a questo sogno e non lascerò che me lo portino via solo perché non sono del pianeta giusto. Tutto ciò che mi serve è un modo per arrivare su Madre, poi riuscirò a farmi ammettere tra il personale. Ci riuscirò. E se l’unica via per andare su Madre è quella di fingermi terrestre, mi fingerò terrestre, durante il viaggio. Poi, quando sarò arrivata là, saprò farmi accettare per quella che sono: un’archeologa lakshmita, che chiede solo di poter lavorare assieme a loro agli scavi delle rovine aliene. Tutto qui. Sei disposto ad aiutarmi?»

Matteo non resse il suo sguardo, ma stavolta gli occhi non furono attirati verso la solita direzione. Il tavolino, poi la vetrata e il mare più in là, l’orizzonte da cui si levavano gli spruzzi misteriosi verso il cielo: ecco cosa guardava, ecco su cosa cercava di concentrarsi. Non su Kemala, la ragazza che ancora gli teneva le mani e lo fissava speranzosa. Non riusciva a guardare lei.

Era totalmente matta, quella tizia, e il suo piano aveva così tante falle, che potevi usarlo per scolare una quintalata di pasta, come minimo, eppure... era un tipo di pazzia che lui poteva capire. Non era forse una parente stretta della mania, che aveva portato lui lì, anni luce lontano dalla Terra, solo per studiare una materia tanto insulsa e negletta come la letteratura dei mondi coloniali, una materia che sulla Terra riceveva lo stesso interesse del vomito di un cane? No, forse non così simile, perché la sua non conteneva elementi illegali, ma avevano qualcosa in comune, da un certo punto di vista.

Sì, questo sì. Magari la pazzia era seconda cugina, magari ancora più remota, ma era pur sempre una mania analoga. Fratelli di pazzia, pensò, e trattenne un sorriso amaro. «Farò quello che posso,» le disse, arrendendosi.

«Sai allora indicarmi un mezzo sicuro per viaggiare dalla Terra a Madre? Un mezzo che vada bene anche per me, per una lakshmita che deve fingere di essere terrestre. Poche domande, ma soprattutto niente indagini accurate, sai com’è. Qualcosa per i coloni dovrebbe bastare, credo.»

«Dovrebbe essere una cosa mezza clandestina, insomma.»

«Non proprio, però... sì.»

Matteo pensò a Bogdan Stratos. Il suo amico sarebbe tornato sulla Terra a fine inverno, dopo aver concluso la specializzazione, e lo attendeva un posto all’Ufficio per la Colonizzazione. Un posto da studioso, d’accordo, ma forse avrebbe potuto lo stesso organizzare in modo che un passeggero...

No, lui no. Non Bogdan. Magari ce l’avrebbe fatta, per carità, ma il punto era un altro. Non era giusto, non era corretto. Non poteva dipendere da lui in tutto e per tutto. Prima o poi, avrebbe pure dovuto fare qualcosa da solo, con le proprie forze, invece di appoggiarsi sempre al fratello maggiore virtuale. E poi... doveva ammettere che l’idea di presentargli un’altra bella ragazza, col rischio che si interessasse a lui, lo infastidiva. Atteggiamento poco onorevole, d’accordo, e anche poco maturo, ma non poteva farci molto.

Restava però un’altra cosa, di cui Bogdan gli aveva parlato durante il viaggio, e che lui stesso aveva visto, al momento della partenza: lo spettacolo alla stazione. Secondo il suo amico, era un modo per pubblicizzare la colonia e attirare eventuali pionieri. Gli aveva anche spiegato come funzionasse, a grandi linee.

Poteva essere la scelta giusta? Matteo aprì la bocca, esitò, la chiuse, poi la riaprì, esitò ancora e alla fine lo disse. «C’è il Teatro di Oklahoma.»

Più tardi, Matteo osservava il tramonto sulla riva del mare. O meglio, osservava il mare cambiare colore in accordo con la luce, mentre il sole calava; il tramonto vero e proprio era nascosto dai rilievi che formavano un braccio della baia, a ovest. Lì, attorno a lui, il sole era già sparito, ma c’era luce in abbondanza, diffusa su ogni superficie. Fin troppa luce, in effetti: avrebbe preferito che gli spruzzi fossero nascosti, giusto per sentirsi un poco più tranquillo. Invece li vedeva, all’orizzonte, dove basso sedeva anche lo spettro biancastro di Parvati, il satellite minore.

«Allora, come ti è sembrato il posto?» gli chiese Sharma, avvicinandosi lungo la spiaggia. Gli altri erano già rientrati in albergo, o almeno negli alloggi temporanei che, sulla Terra e su altri pianeti più convenzionali, sarebbero stati chiamati alberghi: sulla spiaggia restavano solo loro due, ora. «Non ti sei fatto vedere molto, nel pomeriggio. Hai avuto qualche problema? Chakra ha già giurato che domani non ti farà uscire dall’acqua, a costo di affogarti nella bava dei pesci.»

Matteo sorrise. «Farò del mio meglio per affogarlo per primo, allora. Almeno il mio sacrificio sarà servito a qualcosa, per il bene supremo dell’umanità.»

«Ancora preoccupato per i nostri pesci? Non c’è niente da temere, davvero, almeno finché rimani su questo lato degli scogli. Dall’altro lato potresti fare incontri poco piacevoli, è vero e non sarebbe corretto nascondertelo, ma lo stesso è valido anche per il mare terrestre, giusto? Vicino alla riva non ci sono problemi, ma lontano dalla riva potrebbe sempre accadere qualcosa.»

«Più o meno. La differenza è che là so cosa aspettarmi e dove aspettarmelo. Qui no. Ma non stavo pensando a quello, adesso.»

«A cosa, allora? Se si può dire, è ovvio.»

Matteo pensava a Kemala, allo strano incontro del primo pomeriggio. Le aveva suggerito il Teatro di Oklahoma, glielo aveva grossomodo descritto, per quel che ne sapeva e per quel che gli aveva detto Bogdan, e alla fine se n’era andata convinta. Contenta, quasi. «Ci sentiremo,» gli aveva detto, e si erano scambiati i contatti. L’avrebbe sentita di nuovo? E avrebbe tentato davvero quella pazzia di infiltrarsi su Madre, spacciandosi per terrestre? A questo pensava, ma non lo disse. Davvero non se la sentiva. Chissà come si sarebbe inserito l’evento, nell’etica lakshmita della responsabilità?

«Niente di particolare,» rispose. «Stavo facendo una specie di bilancio, pro e contro dell’esperienza su questo pianeta, cose così. Il mare al tramonto mi ispira sempre i bilanci,» aggiunse convinto. «È il mio modo di essere filosofo, sai.»

«Aspetta un altro paio di anni, prima dei bilanci. Due stagioni sono troppo poche, per avere una idea di come sia la vita qui. Credimi, non te ne basterebbero cento, perché anche noi dobbiamo ancora capirlo. Per adesso, tiriamo a campare e cerchiamo di arrangiarci alla meglio. Scriviamo le regole strada facendo, di passo in passo. La vita nelle colonie è così, fondamentalmente.»

Matteo lo guardò. «Cosa intendi?»

Sharma si strinse nelle spalle, mostrando un sorriso più incerto del solito. «Mondo nuovo, gente nuova. Le nostre radici non sono ancora affondate abbastanza in profondità, noi non siamo diventati davvero parte del pianeta, non come lo siete voi sulla Terra. La Terra vi ha prodotti, ci ha prodotto, mentre noi qui siamo arrivati come ospiti, forse non desiderati. È un mondo preso in prestito, per adesso: ecco la sensazione che mi trasmette, ogni volta che ci penso. E ci penso spesso, sai: sono un filosofo, dopotutto. Ancora non abbiamo deciso cosa farne e ancora lui non ha deciso cosa fare di noi. Quando entrambi lo sapremo, allora sarà davvero il nostro mondo e noi saremo il suo popolo.»

«Quanto hai bevuto, oggi?»

«Meno di quanto serva per fare questi discorsi» gli rispose Sharma e strizzò l’occhio. «O almeno, se ci si limita alle bevande che alterano il normale funzionamento del cervello. Scherzi a parte, è vero. Il mondo da scoprire è ancora tanto e questo mare ne è solo un esempio. Conosciamo le sponde, ne abbiamo addomesticato i primi venti metri, ma tutto il resto è ancora selvaggio.» Con la mano puntò all’orizzonte, dove gli spruzzi si alzavano. Sarebbe stata una scena molto poetica, nel complesso, se solo Sharma avesse avuto un aspetto più eroico: visto così, invece, sembrava solo un brutto esempio di cartello stradale vandalizzato.

«Non sono l’unico a cui il mare al tramonto fa strani effetti, dunque. Da un certo punto di vista, è una consolazione, davvero.»

Sharma sorrise. «Ma io sono un filosofo, sai, non un letterato.»

«Giusto. Un professionista della masturbazione mentale, come direbbe Indira.»

«Indira in certi casi userebbe un linguaggio un poco più fiorito, anche se non ai livelli di Chakra, ma in questo caso direi che possiamo accettare anche il termine “masturbazione”, per quieto vivere.»

Rimasero in silenzio a fissare il mare, uno accanto all’altro. Il sole era sparito del tutto, le ombre si allungavano e le acque si tingevano di scuro. Una brezza fresca li accarezzava, con un odore intenso di pesce e di salmastro. Odori del mare, per Matteo. Sulla Terra o su Lakshmi, certi odori parevano essere gli stessi, o quantomeno simili a sufficienza da ingannare la memoria. Un tratto comune, tra tante differenze. Un appiglio per la sua mente.

«Beh, vi siete addormentati, voi due? Strana coppia!»

La voce di Indira li riportò alla realtà. Ferma sul piano inclinato, che dalla strada conduceva alla spiaggia, li chiamava con larghi gesti delle braccia. Matteo e Sharma si scambiarono un sorriso, poi si incamminarono verso di lei. Il dovere li reclamava a sé, la compagnia pure. Tempo di salutare le paturnie e riabbracciare la compagnia festante.

E forse, da quello, qualcosa di buono ne sarebbe uscito, un giorno.