La galassia di Madre - 15
Davide Kori attraversò l’inverno seguendo la stella polare delle riunioni. Non era un granché come stella polare, come persone più sagge di lui gli avrebbero detto, e non era certo una stella polare a cui fosse prudente affidare la propria vita, mentre si navigava in mare aperto, come altre persone gli avrebbero potuto dire. Il problema, però, era che le altre perone erano, appunto, altre persone e non Davide. Le altre persone non capivano. Lui sì.
Così, mentre il freddo stringeva il suo paese, o almeno la placida versione mediterranea del freddo, e più avanti fino a che non ebbe allentato la blanda morsa, lasciando che la primavera tornasse ad affacciarsi sulle vie, furono le riunioni degli Isolazionisti a scandire la sua esistenza, più ancora che i giorno di scuola. La scuola era solo una piccola appendice, una seccatura secondaria, che lo teneva impegnato la mattina e si trascinava nel pomeriggio, con compiti che quasi mai faceva. La scuola era soltanto il presente, i pessimi voti, il mondo ordinato e quotidiano. Le riunioni, invece...
Ce n’era una ogni settimana, adesso, di solito il mercoledì o il giovedì sera. In quei giorni, Davide usciva dopo cena, dicendo alla madre che sarebbe andato a studiare da Amir. La madre rispondeva con un cenno imprecisato della testa, che poteva essere un sì, un no, un chissenefrega o anche solo un tic nervoso, e ritornava a perdersi nello schermo. Sembrava smagrita, in volto, e poteva essere un bene oppure un male, poteva essere dieta o malattia, ma la verità era che a Davide non interessava, non controllava più neppure se prendesse con regolarità le sue pastiglie, come il medico gli aveva raccomandato. Il pensiero gli era semplicemente fuggito dal cervello, sfrattato da altri, che parevano così più importanti, ora come ora.
E poi, si diceva nei momenti di lucidità, sua madre era adulta e vaccinata, e poteva cavarsela pure da sola, alla sua età. Non aveva certo bisogno che suo figlio la controllasse. Anzi, non voleva essere controllata. Quindi, non c’erano problemi. Se ne sarebbe pentito, più avanti, ma più avanti era appunto più avanti. Ci si pente sempre, più avanti. Adesso c’erano le riunioni.
Le riunioni erano il futuro, la promessa, la speranza. Erano il cambiamento che cercava. Non gli era ancora chiara la direzione del cambiamento, ma un cambiamento ci sarebbe stato e tanto bastava, a una certa età. Così, lui e Amir Cavalli erano sempre tra i primi ad arrivare, nello scantinato della prima riunione, oppure in altri luoghi simili, a seconda di ciò che diceva l’uomo alto, alla fine degli incontri. Primi ad arrivare e tra gli ultimi ad andarsene.
L’uomo alto era quello che parlava per primo, alle riunioni, e più o meno le dirigeva. Aveva anche un nome e quel nome era Masser. Masser qualcosa, con ogni probabilità, ma tutti lo chiamavano solo Masser. Davide non aveva capito se Masser fosse il suo nome o il suo cognome, o anche un soprannome di un qualche tipo, ma non gli interessava. A ogni modo, alla fine di ogni riunione, Masser chiedeva silenzio, si alzava e annunciava il luogo della prossima. Zeke restava seduto, con le braccia incrociate e l’aria assonnata, e annuiva. Per Davide, era il suo cenno a contare davvero.
Le riunioni erano sempre le stesse. La gente si sedeva davanti al tavolo, poi arrivavano i due capi, Masser e Zeke. Prendevano posto, Masser infilava la fascia col simbolo degli Isolazionisti e quello era il segnale: da lì in poi, per due ore circa, era un flusso continuo di chiacchiere, proteste, parole e storie balbettate alla meno peggio, ma soprattutto rumore, rumore, rumore. Masser conduceva la danza e Zeke sedeva assonnato, come un vecchio segretario, che deve assistere a un convegno a cui non è interessato. Alla fine, tanti saluti e appuntamento alla prossima puntata.
Amir partecipava con entusiasmo alle chiacchiere inutili; Davide, dapprima, le aveva trovate noiose e, appunto, inutili, ma alla lunga aveva forse cominciato a scorgere un senso dietro a quella cortina fumogena di parole. Forse. Così, anche se non vi partecipava attivamente e se ne stava zitto nel suo angolo, adesso le apprezzava e riusciva anche ad ascoltarle, mentre aspettava che arrivasse la parte davvero importante della serata. E se per Amir la parte davvero importante era la riunione stessa, in cui poteva sfogarsi e annunciare ad alta voce tutto ciò che gli pareva, senza che qualcuno lo zittisse, per Davide era la fine della riunione, quando Zeke si univa a loro e tornavano insieme verso casa, come se anche lui dovesse fare quella strada e fosse un loro vicino.
Allora, e solo allora, si parlava di cose serie.
In treno, Davide e Zeke discutevano sottovoce, mentre Amir sedeva a occhi chiusi, ciondolando dal sonno. Era con loro e non lo era, Davide lo capiva bene. Lo aveva capito fin dalla prima riunione, in effetti, quando Zeke lo aveva chiamato da parte, nella stanzetta, e gli aveva spiegato cosa fossero gli Isolazionisti, cosa stessero cercando. Amir non lo sapeva, era chiaro, ma Amir non era tanto sveglio, anche se restava un ottimo ragazzo. Non si poteva discutere di cose troppo importanti, con Amir. Lo si poteva fare con Davide, invece, che era sveglio ed era un vero sopravvivente, autocertificato. Dal suo punto di vista, dunque, non fu strano che Zeke avesse scelto proprio lui come confidente e gli raccontasse tutte quelle cose, a fine riunione. Era normale, logico. Naturale.
«Perché parlare va bene, ma parlare non basta,» diceva Zeke. «Presto o tardi bisogna anche fare, ma per fare c’è bisogno di gente che sappia. Gente che capisca, soprattutto. Puoi parlare con tanti, ed è giusto così, per raccogliere idee, spunti, suggerimenti, o anche solo per lasciarli sfogare, buttar fuori tutto ciò che si portano dentro. Poi si sentiranno meglio. Ma quando arriva il momento di passare al punto successivo, quando si tratta di accantonare il parlare e imbracciare il fare, allora sono pochi a servirti davvero. Non la massa, non migliaia di persone, ma pochi. Un piccolo gruppo, sì, un gruppo scelto, facile da controllare e facile da coordinare. Facile da preparare all’azione, soprattutto, perché li hai scelti tu e sai cosa può fare ognuno di loro. Sai cosa sa fare. E sai cosa farà.»
Davide annuiva, convinto. Parlare in tanti, agire in pochi: era logico, giusto. Le parole dovevano sì viaggiare, espandersi, raggiungere ogni angolo, ma le azioni dovevano essere precise, mirate. Come la luce attraverso una lente, così aveva detto Zeke. L’azione è un raggio di luce attraverso una lente, mentre la parola è la luce che si diffonde in tutta l’atmosfera. Era una immagine bella, che Davide aveva subito fatto propria. Lui sarebbe stato il raggio attraverso la lente, ne era sicuro. Quel raggio concentrato, che poteva bruciare.
«Ma quando agiremo, allora?» aveva chiesto spesso.
«Presto,» era la risposta di Zeke, accompagnata da una strizzatina d’occhio. «Presto.» Poi guardava il nero della galleria fuori del finestrino, guardava i passeggeri che sonnecchiavano nel vagone e per un poco taceva, come se stesse pensando, o calcolando. «E quando agiremo, avrò attorno solo gente di cui mi fido davvero. Gente scelta da me personalmente» concludeva, quando la prossima stazione era vicina. A quel punto, li salutava e scendeva, e quel punto era sempre una o due fermate prima di loro, qualunque fosse il luogo di partenza. L’ultimo tratto lo percorrevano da soli, Amir rivivendo la riunione, Davide rivivendo il dopo riunione, entrambi soddisfatti.
Fu in una notte di metà marzo, quando l’aria già profumava di primavera, che Davide capì di aver trovato finalmente la sua nuova stella polare. Dopo che Matteo era svanito sui pianeti degli Altri, e con ogni probabilità aveva già venduto loro la propria anima, come diceva Zeke, era apparsa una nuova stella nel suo cielo, una nuova figura a cui guardare, per orientarsi: la stella di Zeke.
L’avrebbe seguita, dovunque lo avesse portato.
La scuola intanto non lo portava certo in una buona direzione, scivolando sempre più verso il basso, in un rendimento che esplorava di giorno in giorno nuovi abissi dello scadente, scoprendo sempre strati inferiori, ma a Davide non interessava. Non era mai stato il genio della famiglia, o il secchione della famiglia, a seconda dei punti di vista: quello era il ruolo di Matteo e si era visto dove l’aveva portato, haha. Su un altro pianeta, in mezzo a Loro, a fregarsene della famiglia. Zeke glielo aveva mostrato in modo fin troppo chiaro.
No, a Davide non sarebbe successo. Aveva sempre pensato a galleggiare e arrivare alla fine di ogni anno scolastico, mantenendosi sopra il filo della sufficienza, ma adesso non ci pensava più, era un altro dei pensieri che aveva abbandonato. Non era una priorità. La scuola l’avrebbe potuto condurre fino a un certo punto, e poi tanti saluti: obiettivo valido per alcuni, forse, ma non per lui. Lui aveva gli Isolazionisti e loro potevano condurlo molto più in là, potevano condurlo a cambiare il mondo stesso. E questo valeva più di qualche misero voto, vero?
Per Davide, la risposta era sì. Valeva molto di più.
Così, una sera di fine aprile, fu al tempo stesso spaventato ed eccitato, quando Zeke lo chiamò nella stanzetta, durante una riunione del gruppo. Davide lo raggiunse, strisciando contro il muro, e sorrise quando la porta si aprì davanti a loro due. Dall’altra parte, la stanza era la stessa della prima volta, identica in ogni dettaglio a come la ricordava, ed era giusto così. La cantina era diversa, ma non la stanza, perché... Beh, perché aveva senso, no? È logico che in una cantina ci sia sempre un luogo riservato, come quello, e soprattutto in una cantina scelta da congiurati, come loro. Potevano esserci stanze identiche in mille altre cantine della città, per quanto ne sapeva, e ognuna era la tana, anzi il rifugio di Zeke. Il rifugio del capo. Era davvero un grande, come aveva detto Amir, mesi prima. E lui che l’aveva scambiato per un vecchio pederasta, all’inizio...
All’interno, le voci degli altri non si sentivano più: chiusa la porta, chiuso anche il loro baccano, che poteva essere ottimo come copertura, ma ogni tanto era davvero seccante. Forse il momento di agire era arrivato, o almeno era abbastanza vicino da poterne parlare, da poter pianificare il come, il dove e il quando. E forse, quella sera, Zeke lo avrebbe invitato formalmente a farne parte.
«C’è una cosa di cui ti volevo parlare,» cominciò Zeke Boodie, fissando con indifferenza il tavolo e giocherellando con un foglietto che vi si trovava posato. «Ma non qui.»
Davide trattenne il respiro, per l’emozione. «E dove, allora?»
«Stasera, quando avremo finito, lascia andare a casa il tuo amico da solo. Lui non ci serve, per ora. Più avanti sì, ma adesso sarebbe soltanto una seccatura. Adesso ho bisogno di qualcuno che capisca, qualcuno che sia un cervello e non un braccio, se ti è chiaro cosa intendo dire. Qualcuno come te.»
A Davide era chiaro, o almeno credeva che fosse chiaro. Amir andava bene per la parte pratica del piano, ma non per progettare il piano e prendere decisioni. Per quella parte, invece, serviva appunto qualcuno come lui, Davide. Significava che, dopo tanto parlare, il momento di agire si avvicinava e lui ne sarebbe stato parte. Il presto sarebbe diventato molto presto, per poi trasformarsi in adesso.
«Andremo da qualche parte?» chiese. «A incontrare qualche persona, magari...»
Zeke scosse la testa. «No, per adesso no. Per adesso, tutto ciò che faremo noi due sarà parlare. Camminando, certo, camminando verso casa tua, ma parleremo. E progetteremo. Perché ci sono alcune cose che tu devi sapere, prima di poter decidere se vorrai davvero partecipare all’azione. Non dovranno esserci dubbi, in quel momento, per cui è bene che tutti i dubbi siano chiariti adesso. Non ti pare?»
A Davide pareva, anche perché qualche ultimo dubbio lo aveva davvero. Niente di serio, niente che lo potesse frenare o trattenere, quando le cose sarebbero cominciate, ma come diceva Zeke era più saggio preparare il terreno e assicurarsi che non ci fossero buche, prima di correrci sopra alla cieca. Beh, non era proprio così che diceva, ma era più o meno il senso, per quanto ne aveva capito lui.
E chissà di cosa discuteremo, si chiese. Chissà quale sarà il progetto. Ma non aveva certo bisogno di domandarselo o pensarci in astratto: tra un paio d’ore al massimo lo avrebbe saputo in concreto. O almeno, così sperava.
Alla fine della riunione, mentre gli altri defluivano, Zeke Boodie lo prese da parte. Salirono assieme le scale e assieme uscirono nella via stretta e deserta, che costeggiava l’edificio. Amir e il resto del gruppo erano usciti dall’altro ingresso, quello principale, e da lì non si vedevano. Neppure il suono di passi e voci si sentiva, mentre si avviavano verso la metropolitana o verso i fatti propri. La città era silenzio
, lì, attorno a Davide e Zeke; silenzio, e aria fresca, di primavera.«Andiamo,» disse Zeke. «Avremo molto da camminare, noi due, ed è meglio non perdere tempo a guardare le stelle. Anche perché non se ne vedono molte,» aggiunse con un mezzo sorriso.
Di riflesso, Davide alzò lo sguardo al cielo. Già, non se ne vedevano molte, lì. Il nero della notte era sbiadito dalle luci cittadine e la luna quasi piena contribuiva a nascondere le stelle. C’era soltanto la luce fissa di qualcosa sopra di loro, forse un satellite, una fabbrica o altro. Non si era mai interessato granché all’astronomia o al cielo notturno. La notte, preferiva divertirsi.
«Abbiamo già parlato degli Altri e dei Trattati, ma ne abbiamo parlato soltanto da una prospettiva,» riprese Zeke, mentre camminavano. «Se vuoi davvero partecipare alle nostre azioni, è giusto che tu veda le cose anche sotto altre prospettive. Capisci? Noi vogliamo risvegliare la Terra e guidarla alla luce, alla libertà dagli Altri, e non possiamo farlo se noi stessi siamo ciechi e non cogliamo cosa sia stata davvero la nostra amicizia con loro. Cosa ci fosse prima dei Trattati e cosa sia arrivato dopo i Trattati. Capisci?»
Davide annuì. Sì, fino a lì lo seguiva. Conosci il nemico o qualcosa del genere, insomma. Lo aveva già sentito da qualcuno, forse addirittura da Matteo.
«Bene. Immagino che l’avrai già studiato a scuola, ma...» Si fermò, vedendo Davide scuotere piano la testa. «No? Non l’avete studiato? Strano...»
Davide guardò verso la strada, arrossendo un poco. «Beh, diciamo che non l’ho studiato io. Non è il mio forte, la scuola.»
«Capisco, capisco. Niente di grave, te lo spiegherò io direttamente. Almeno non troverò bugie da scardinare. Dicevamo, dunque, la Terra prima dei Trattati. Tu non c’eri, Davide, e forse non lo puoi capire bene, ma io sì. Sono un vecchio relitto, lo ammetto, e sono stato bambino prima della firma dei Trattati. So com’era la Terra allora, e lo so perché me lo ricordo, e me lo ricordo perché c’ero. Sì, ero solo un bambino, ma ho vissuto quell’epoca. Capisci? L’epoca prima dei Trattati.»
I suoi occhi da pesce, per un attimo, brillarono di una emozione che poteva essere rimpianto, o forse nostalgia, malinconia, o una qualsiasi cosa non proprio felice. Emozione da vecchi, pensò Davide, ma non disse nulla; attese che il suo amico ricominciasse. Anche se, più che un amico, sembrava un nonno in poltrona, adesso, con le pantofole ai piedi e un panno sulle ginocchia.
«Non si stava bene,» disse Zeke. «Non so cosa ti abbiano raccontato e cosa ti racconteranno, ma la verità è questa: non si stava bene. Eravamo messi male, anzi, perché le risorse calavano e noi no; le risorse calavano e il sistema solare sembrava così piccolo, così miserabile... Perché erano miserabili le nostre conoscenze, capisci? Le nostre tecnologie. Il sistema solare era ancora ricco di materie prime, ma noi non sapevamo come estrarle. Perché la nostra tecnologia era rimasta molto indietro. Dopo le due guerre contro gli Altri, la nostra tecnologia era un malato grave. Un moribondo, quasi. Come lo era anche la Terra, in fondo. Senza i Trattati, forse saremmo morti. Capisci?»
Davide lo guardava attento. La sua voce e i loro passi erano gli unici suoni che si sentivano, lì fuori, ed era come se l’intera città si fosse addormentata, o come se si fosse messa tra parentesi, nascosta dietro le quinte, per lasciare il palcoscenico a loro. Oppure era come se la città dormisse, il che in gran parte era probabilmente vero, data l’ora. Siamo la vita della città, stanotte, pensò.
«Dici che sto esagerando, eh? Come tutti i vecchi. E invece no, è la verità. Anche Leonardi, quello che una volta era Direttore dell’Ufficio, ti direbbe la stessa cosa, perché anche lui c’era, anche lui ha vissuto quel periodo. Senza i Trattati, saremmo tornati al Medioevo, come minimo. O forse sarebbe stata la guerra per le ultime risorse a sterminarci, chi lo sa. In ogni caso, i Trattati sono stati buoni, sono stati la mano che gli Altri ci hanno teso, per salvarci dalle sabbie mobili. Capisci?»
Davide faticava a crederci, sulla base di tutto ciò che aveva sentito nel corso di quei mesi alle varie riunioni, ma doveva essere vero. Lo diceva Zeke.
«Il problema sono state le conseguenze dei Trattati, capisci? Abbiamo firmato la pace con loro, le porte dei nostri mercati si sono aperte ai loro commerci, le nostre università hanno accolto con gioia i loro insegnanti e i nostri giovani sono stati accolti con gioia sui loro pianeti. Tutto bene, tutto bello, tutto perfetto: la Terra comincia a risollevarsi, arrivano le materie prime, impariamo come ricavarle noi stessi da riserve che, una volta, non sapevamo neppure di possedere e, un passo dopo l’altro, ecco che torniamo a galla. E per noi, che l’abbiamo vissuta, è stata davvero una cosa buona, te lo assicuro. È stato come vedere la luce, dopo anni di buio. O vedere la luce per la prima volta, come nel mio caso. Capisci?»
Davide annuì.
«Ed è stato proprio allora che hanno cominciato ad approfittarsi di noi. Non ci hanno salvati gratis, è ovvio, e sarebbe dovuto essere ovvio a tutti, anche ai nostri capi. Ma loro no, non ci pensavano. A loro bastava essere salvi, più ricchi, più tranquilli. Non pensavano che gli Altri ci avevano salvati soltanto per riprendersi la Terra. La Terra da cui li avevamo scacciati, quasi due secoli prima.»
«È stata una vendetta, insomma?»
Zeke scosse la testa. «Non proprio. È stata soprattutto una rivincita: noi li avevamo scacciati, perché non approvavamo le colonie e la filosofia che portavano con sé. Noi siamo terrestri e la Terra sarà per sempre la nostra casa, così dicevamo allora. Sbagliavamo. Sono gli errori dei nostri antenati che ancora stiamo pagando, oggi. Capisci? Gli Altri avevano ragione, la strada giusta era il cielo, era lo spazio, ma noi non lo abbiamo capito in tempo. E così abbiamo perso il treno. Dovevamo seguirli, allora, dovevamo partire anche noi per lo spazio, ma farlo a modo nostro. Invece siamo rimasti qui e così, dopo due secoli, abbiamo dovuto pregare gli Altri di aiutarci. E loro lo hanno fatto. Ci hanno aiutati, al ritmo del “visto, che avevamo ragione noi?”. Perché era vero: avevano avuto ragione loro. Capisci? Gli Altri avevano fatto la scelta giusta e noi quella sbagliata.»
Davide annuì, come gli era ormai normale fare.
«Allora hai capito anche chi è il nostro vero nemico, oggi come allora. Non gli Altri, ma coloro che ci governano. Gli Altri sono i nostri rivali, non i nostri nemici. Capisci?»
«Sono quelli con cui dobbiamo confrontarci e competere, sì,» rispose Davide. «Gareggiare con loro, migliorarci per essere migliori di loro. E chi vincerà, si prenderà la galassia.»
«Giusto! Giusto. È questo che vogliamo, noi Isolazionisti: non distruggere gli Altri, ma sfidarli, con le nostre capacità e i nostri mezzi. Non combattere con le loro armi, ma usando le nostre armi, che noi stessi ci siamo prodotti. E dimostrare che noi siamo migliori di loro, se è davvero così. E se non lo è, onoreremo chi ci avrà battuti. Capisci? Ma prima dobbiamo distruggere il nostro vero nemico, altrimenti resteremo per sempre schiavi.»
«E il nostro vero nemico è chi ci governa,» concluse Davide. «Chi vuole venderci agli Altri, vederci assimilati a loro.»
«Chi vuole farci diventare come gli Altri, già, mentre noi dobbiamo rimanere noi stessi, terrestri, e come terrestri competere per la galassia. E il primo ostacolo, il più grande ostacolo, è l’Ufficio per la Colonizzazione. Una tana di amici degli Altri, terrestri assimilati, che scavano come un tumore nei tessuti della nostra società. Sono loro che dobbiamo colpire e distruggere, capisci?»
«Quando l’Ufficio non ci sarà più, potremo costruire la nostra indipendenza dagli altri e cominciare la sfida con loro. La sfida nella galassia,» disse Davide. Si sentiva sicuro, con quelle ultime risposte: erano un terreno noto, esplorato già molte volte. Sapeva di non sbagliare.
«Esattamente. Se gli Altri ci sfruttano, oggi, se cercano di assimilarci e cancellare la nostra identità di terrestri, è perché noi glielo permettiamo. È perché l’Ufficio glielo permette, in cambio di ciò che ottiene dagli Altri: potere, ricchezza, conoscenze, le solite cose. Gli Altri fanno soltanto il proprio lavoro, ciò che anche noi faremmo al posto loro e ciò che anche noi abbiamo fatto a noi stessi, in passato. Il problema è il governo terrestre, che gli permette di sfruttarci, invece di opporsi. E noi lo dobbiamo sostituire. Capisci?»
Davide annuì di nuovo. Capiva.
«Adesso che questo ti è chiaro, adesso che hai capito perché dobbiamo combattere il nostro nemico, adesso che hai capito chi è il nostro nemico, possiamo procedere col progetto. Il progetto per liberarci del nostro nemico e riottenere la posizione che ci spetta, nella galassia.»
Avevano camminato a lungo, nella fresca notte di aprile, incrociando soltanto poche persone. Nulla di insolito, a metà settimana, ma a Davide sembrava strano lo stesso. È un segno del declino, pensò. Un segno che dobbiamo fare qualcosa, e in fretta. Ci sarebbe più vita, se fossimo un pianeta libero e forte. Molta più vita, in strada.
Ma lo sarebbero stati. Lo sarebbero tornati.
Lungo la strada che li separava da casa, Davide ascoltò ancora a lungo le parole di Zeke, il progetto di Zeke. Ascoltò e approvò. Avrebbero cambiato la Terra, che la Terra lo volesse o meno.
«Sono pazzi. Sono un branco di stupidi macachi decerebrati. Sono inutili rimbambiti, sono l’ultimo liquame che si aggrappa alle fogne, quando cerchi di scrostarle, sono...»
Il Ministro Hass fissò il dottor Leonardi, poi sospirò e scosse la testa. «Non sono pazzi, lo sai anche tu. Il problema è che sono bambini, ma non sanno di esserlo. Peggio ancora, sono solo palloncini, gonfiati dalle scemenze sparate da qualche leader: galleggiano, per i gas che li riempiono. Ma è solo aria, nelle loro teste.»
«Per me, sono pazzi. Molto più pazzi di quelli che si facevano chiamare Isolazionisti, trent’anni fa. Loro almeno avevano una idea, un progetto. Avevano un senso. Totalmente idiota, certo, ma era pur sempre un senso. Questi poveri burattini, invece,» e agitò una mano, arricciando il naso, per quanto la pelle rifatta glielo consentisse. «Perdiamo solo tempo. Cancelliamoli tutti e chiudiamola qui. È per il loro bene, davvero.»
Andrea Hass, Ministro della Difesa, chiuse gli occhi e contò fino a dieci, prima di rispondere. Era la tecnica più utile, quando dovevi parlare col dottor Vito Leonardi, già Direttore Leonardi e già mille altre cose, ma mai una persona simpatica e disponibile al confronto. E se non lo era mai stato da giovane, come riferivano le memorie sul suo conto, era facile immaginare quanto potesse esserlo adesso, alla bellezza (o bruttezza) di centootto anni circa. Una discussione con lui era piacevole come un gavettone di vomito, quando sei appena uscito dalla doccia, eppure ogni tanto succedeva. Di dover discutere con Leonardi, sia chiaro: il gavettone non era mai successo, almeno non ad Hass. E per discutere, servivano molta pazienza e una buona preparazione. Andrea Hass sapeva di averle. Ci aveva lavorato parecchio.
«Quello che suggerisci tu, adesso, è la stessa cosa che abbiamo fatto trentadue anni fa. O meglio, la stessa cosa che avete fatto: a quell’epoca io ero un semplice ufficiale, impegnato ad addestrarmi per il comando di navi interstellari e, credimi, stavo molto meglio così. In ogni caso, il punto è questo: la tecnica del “cancelliamoli tutti e chiudiamola qui” non ha funzionato allora, come puoi vedere, e non funzionerebbe ora.»
«Questo lo dici tu. Gli Isolazionisti veri erano una forza armata, avevano l’appoggio di milioni di persone, non me li puoi paragonare a quei quattro gatti pezzenti che ci troviamo oggi. Lo dovresti capire anche tu, no? Questi sono quattro idioti, che usano un nome per sentirsi grandi. Se sono capaci di allacciarsi le scarpe da soli, c’è già da baciarsi i gomiti!»
«E proprio per questo sarebbe sbagliato trattarli da grandi,» rispose il Ministro Hass. «Arrestiamoli tutti quanti con una manovra spettacolare, mandandoci magari l’esercito, e la gente si farà domande. Chi sono gli Isolazionisti? Cosa vogliono? Perché il Governo si è impegnato tanto? Sono persone normali, non hanno appoggi, niente: perché facevano tanta paura? No, così li trasformeremmo tutti in martiri e, secondo me, è proprio ciò che vogliono loro, o almeno ciò in cui sperano i capi. Sanno di non poterci fare nulla e sperano che ci penseremo noi stessi a rafforzarli: sacrifica oggi una manciata di marionette, lasciando che sia il governo a recitare la parte del cattivo, e domani potresti avere un esercito di marionette nuove, che ti appoggiano perché sì. Come tu dovresti sapere bene, il governo terrestre vanta già una lunga tradizione, in fatto di masochismi vari e assortiti.»
Vito Leonardi fissò il volto liscio e rasato del Ministro, sbuffando. Era una delle poche persone che potesse contraddirlo, senza rischi personale, ed era anche l’unica persona ancora viva che si potesse permettere di dargli del tu, tutte le altre essendo ormai morte di vecchiaia. E perché? Per il viaggio che avevano compiuto su Madre, vent’anni prima. Per il viaggio e per ciò che avevano condiviso, negli abissi del pianeta. Ciò che avevano accettato. «Cosa vorresti fare, allora?» gli chiese.
Hass sorrise. «Nulla, per adesso. I miei uomini, quelli che ti ho prestato, continuano a sorvegliarli e a raccogliere informazioni. Lasciali fare. Sono un ottimo reparto, sono addestrati e sanno cosa fare e cosa non fare. Abbiamo identificato diciotto cellule nordamericane e undici mediterranee: piccole, e organizzate da incompetenti. Nessuna, di per sé, è pericolosa. Nessuna si è spinta più in là di piccoli e insignificanti incidenti, in qualche attività a favore della colonizzazione. Preparano qualcosa? È possibile, forse probabile, ma non sappiamo cosa. Un certo numero di dati ci suggerisce che ci siano preparativi in atto, ma è possibile che sia solo un falso allarme, o peggio ancora un’esca.»
«Fingono di preparare qualcosa, per spingerci ad agire e poi accusarci di essere un governo fascista e antidemocratico?»
«Possibile. È quello che forse farei io, se avessi a disposizione soltanto quei quattro scarti che hanno loro. Non escludo però altre ipotesi.»
«E quindi? Vuoi dare loro corda e lasciare che ci si impicchino?»
«Più o meno. Tutto dipende da cosa stiano preparando, ma questo non lo sappiamo ancora. Quando lo sapremo, sapremo anche come agire. Se si tratta di qualcosa di davvero pericoloso, come un virus mutante da diffondere nell’atmosfera o nelle acque, oppure attentati esplosivi su larga scala, allora agiremo noi, prima che possano farlo loro, ma dopo che si saranno preparati ad agire. Così facendo, potremo dimostrare che sono terroristi, pazzi criminali o quello che ci verrà in mente e la nostra azione sarà stata per il bene comune, non per soffocare dissidenti: avremo agito per fermare una minaccia vera, concreta, documentata, e la gente ci crederà, perché sarà la verità. Se invece non sarà qualcosa di pericoloso, ma solo qualche attentato da nulla, come un petardo contro una delle nostre sedi, un tentativo di assassinare qualche personaggio di basso livello, e così via, allora li potremmo arrestare nel momento stesso in cui lo metteranno in atto. O anche dopo, volendo.»
Il dottor Leonardi rimase in silenzio, tamburellando le dita sulla scrivania. Trrup, trrup, trrup. La bocca, segnata dagli anni, era chiusa nella smorfia di chi ha appena mangiato qualcosa di aspro, le sopracciglia si arricciavano sopra il naso, una palpebra si contraeva a spasmi irregolare. «Non mi piace, ma fai pure come ne hai voglia,» disse alla fine. «Pezzenti sono e pezzenti resteranno, anche se li vuoi trattare da persone serie. Basta che spariscano tutti, prima di fare danni. A ogni modo, non è di loro che voglio parlare,» aggiunse, alzando una mano. «Non con te, almeno.»
«E di cosa vorresti parlare?» chiese Hass, piegando di lato la testa.
«Di Madre.»
«Ah.» Ovvio, non poteva essere che Madre. Era la cosa che più avevano in comune, loro due, e che li legava davvero. Madre, la seconda spedizione che Hass aveva comandato e a cui Leonardi aveva partecipato come coscienza, ma soprattutto le conseguenze della missione e il futuro che le loro scelte avevano aperto. «È successo qualcosa?»
«Per quanto riguarda il progetto, la risposta è no,» disse Leonardi, smettendo di tamburellare. «Ma se ci riferiamo alla colonia, allora la risposta è sì. Almeno in parte.»
«Niente di grave, spero?»
«Grave no, fastidioso sì. Inoltre, tutto ciò che riguarda Madre ha le potenzialità per diventare grave, lo sai anche tu. Basta solo che qualcosa si infiltri in un pozzo...»
«I pozzi sono al sicuro,» lo interruppe Hass. «Ci pensano i miei uomini a proteggerli e i miei uomini sanno fare il proprio lavoro. Lo sai anche tu. Il comandante Staplewood sa che cosa deve proteggere e lo proteggerà. Punto. L’ho scelto personalmente e tu lo hai approvato.»
Leonardi agitò la mano, a spazzare via le parole. «Non me ne frega niente, non è questo il punto. Ci sono quarantacinque pozzi su Madre, cinque gruppi da nove pozzi ciascuno, e sono solo quelli che abbiamo trovato. Sì, certo, è difficile non trovare un pozzo largo un chilometro, lo so bene, ma non abbiamo monitorato ogni singolo centimetro quadrato del pianeta e non possiamo sapere che non ce ne siano altri, magari microscopici. I tuoi soldati proteggono i pozzi, va bene, ma non significa che Madre sia completamente sotto controllo. C’è proprio bisogno che te lo venga a dire io? Quindi risparmiami le storie sul comandante Staplewood e i soldatini che sanno tutto e vedono tutto.»
Hass si morse le labbra e inspirò a fondo, trattenendo l’aria. Poi espirò, lentamente. Ancora non aveva trovato un sistema più efficace per resistere all’impulso di strozzare quella mummia, ma ci stava lavorando. Per adesso, poteva solo sopportare, sopportare e sopportare. Non sarebbe vissuto in eterno, quell’individuo. Giusto? Plastica e rattoppi a parte, prima o poi sarebbe pure dovuto crollare, no? «Va bene, non abbiamo la certezza che tutto sia sotto controllo,» rispose poi. «È questo che sei venuto a dirmi? Mi auguro di no, perché tu sarai anche in pensione, ma io non lo sono e ho altro da fare. Sono pur sempre un ministro, nel caso non te ne fossi accorto.»
«Quei maledetti archeologi stranieri devono essersi portati qualche accidente dai loro pianeti, ecco il problema,» rispose Leonardi, incrociando le braccia sul petto scarno. «Gli insetti non hanno preso bene la novità. Ne sono già morti parecchi e Madre si è lamentata.»
«Insetti.» Il Ministro Hass corrugò la fronte. «Vuoi dire quegli insetti? Credevo che non avessero problemi di infezioni o di... concorrenza, per così dire.»
«Credere è bello, ma è una perdita di tempo. Molto meglio pensare. Pensavamo che non avrebbero avuto problemi, perché così pensava Madre, ma anche Madre si può sbagliare, perché non conosce la biologia degli altri pianeti. Ed ecco quanto. Gli insetti hanno assaggiato alcuni archeologi e non li hanno graditi molto. Non li hanno graditi per niente. E sai cosa significa?»
«Archeologi di quale pianeta?»
«Lakshmi, pare. O almeno, sono gli unici ad aver lamentato punture.»
«Vedremo di imporre una misura di quarantena sugli arrivi da Lakshmi. Potremmo anche bloccarli, in effetti, almeno fino a quando non si sarà risolto il problema.»
«E i trattati? Libera circolazione e libero scambio tra tutti i pianeti, giusto?» chiese Leonardi, con un mezzo sorriso. «Tutti a braccia aperte, come fratelli?»
«Alcune parti possono essere sospese temporaneamente, se si tratta di salvaguardare l’ecosistema di un pianeta, lo sai meglio di me. Il Ministro dell’Ambiente si inventerà qualcosa, e non avrà bisogno di inventare troppo, perché gli insetti morti ci sono davvero, giusto? A quel punto, poi, potremo limitare tutti i contatti tra Madre e Lakshmi, per un breve periodo. Filtrarli attraverso la Terra, nel caso, per poter eventualmente controllare quale sia la causa del problema.»
«Una misura impopolare, ma purtroppo necessaria in queste circostanze,» commentò Leonardi. «È la cosa più saggia da fare e sono certo che anche il governo lakshmita capirà. La protezione degli ecosistemi deve essere sempre al primo posto, in questa età illuminata.» Sorrise. «A proposito, tra non molto dovremmo ricevere da Lakshmi un nostro nuovo planetologo, un giocattolo per tenere occupato Vihersalo. Lo metteremo subito in quarantena, servirà a rafforzare la scusa e migliorerà la nostra immagine. Anche i nostri dipendenti si devono sacrificare, per il bene del pianeta. Ottima pubblicità, la quarantena. Mi piace.»
«Resta il problema degli insetti,» osservò Andrea Hass.
«Resta il problema degli insetti, sì, e questo sarà più difficile da sistemare,» disse Leonardi, senza il sorriso che lo aveva accompagnato prima. «Toccherà al nostro... ambasciatore pensarci. Abbiamo già provato a spiegare a Madre di lasciar perdere gli stranieri, perché quelli non ci interessano, ma il risultato non è stato dei migliori, come puoi vedere anche tu. Sembra avere qualche difficoltà a operare distinzioni tra i gruppi e le categorie di umani. Ma magari questa volta lo avrà capito, con la fine che hanno fatto gli insetti.» Sospirò, girandosi a guardare verso la finestra del suo ufficio. Il sole la illuminava, ma i vetri polarizzati ne assorbivano la luce: poteva fissarlo diritto al suo centro, senza il minimo problema. Anche grazie al filtro supplementare degli occhi artificiali, in effetti, ma era il prezzo da pagare all’età elevata. Qualche ritocco, qualche riparazione, qualche rattoppo: nel complesso, ne aveva ottenuto più vantaggi che svantaggi. Come da Madre, del resto.
«E i coloni come procedono? Aumentano o diminuiscono? Mi servirà una rapporto completo, al più presto, per sapere se ci sarà bisogno di rafforzare la guarnigione,» gli disse Hass.
Leonardi tornò a fissarlo. «Leggero aumento, negli ultimi due viaggi. Meno di quanto sperassimo, ma più di quanto ci aspettassimo. Le prospettive sono buone e la nuova pubblicità dovrebbe portare a un incremento sensibile del materiale umano. Sì,» aggiunse, dopo una breve riflessione, «forse a breve sarà necessario rafforzare la guarnigione, anche per una migliore presenza sul territorio. I satelliti sono un ottimo aiuto, non lo nego, ma per certe cose io continuo a preferire i metodi di una volta. Ci vogliono mani, per tastare il polso della situazione.»
«Per le zone di scavi?»
«Anche per le zone di scavi, ma ritengo che una presenza militare sarà di aiuto anche presso i nuovi insediamenti civili. Servirà a farli sentire tranquilli e sicuri. Hanno attraversato trenta anni luce di vuoto, per giungere lì, e vedere che la Terra è al loro fianco porterà di certo benefici al morale.»
«Penso che molti non gradiranno vederci, ma comprendo il punto.» Sorrise. Erano sempre di più i terrestri che sceglievano l’autoesilio su Madre, per fuggire alla giustizia, proprio come secoli prima si fuggiva nel nuovo mondo. Loro non avrebbero apprezzato i militari. Pazienza. «E poi, i rinforzi ci saranno utili anche in altri campi. Più gente c’è e meglio è, giusto?»
«Giusto,» gli sorrise in risposta il dottor Leonardi. Pensò alle proteste di Thoreau sull’equilibrio dei mari di Madre, minacciati dai pesci terrestri. Scemenze. I pesci di Madre erano capaci di cavarsela da soli, anche senza il loro intervento, ma questo Thoreau non lo avrebbe mai capito. Molto meglio lasciare che lo scoprisse da solo: dopotutto, era lui a occuparsi della terraformazione, giusto?
Giusto, si rispose Leonardi. Tutto procede bene, tutto procederà bene. Non avrebbero perso la loro occasione, non un’altra volta. Non avrebbero perso l’alleanza con Madre.
Era la più grande arma che ci fosse, per conquistare il futuro.