La galassia di Madre - 22
La sede fisica dell’Ufficio per la Colonizzazione si trovava nel quartiere nuovo di New York, a due passi dall’oceano. Non che fosse più un quartiere così nuovo, ormai, perché la maggior parte degli edifici era stata costruita un paio di secoli prima, a fine guerra, ma il nome era rimasto, come spesso fanno i nomi. Quartiere nuovo, perché costruito sulle macerie della guerra, che aveva spezzato in due l’umanità: una parte era volata nello spazio, l’altra era rimasta a terra. A Terra, anche.
Forse era stato proprio questo il motivo, che aveva spinto il dottor Vito Leonardi a sceglierlo come sede per l’Ufficio che si era appena conquistato, dopo la firma dei trattati. Quel luogo rappresentava la grande cicatrice del difficile rapporto tra i due blocchi di potere e sembrava il punto migliore da cui ripartire, verso un futuro di pace, collaborazione e palle varie. O forse gli era piaciuto il posto, molto semplicemente e prosaicamente. Chi poteva dirlo con certezza? Leonardi, ok, ma lui non lo diceva. A ogni modo, il verde palazzo dell’Ufficio per la Colonizzazione sorgeva lì, guardando a est, verso l’oceano, verso l’alba e verso le terre del blocco vincitore. Ex terre, per lo più.
Dalle finestre del Direttore, così come dalle finestre di tutti coloro che avevano un ufficio sul lato orientale dell’edificio e al di sopra del ventesimo piano, la vista si schiudeva sulle acque grigie e di tanto in tanto blu dell’Atlantico. Si schiudeva anche su un altro luogo, dove sempre gli sguardi si posavano: un’isola, poco più di uno scoglio, su cui ancora si vedevano i resti di un piedistallo di marmo, circondati da una recinzione. Quell’isoletta, più ancora del quartiere nuovo, più ancora del palazzo verde, più ancora di ogni cosa, simboleggiava per il popolo della regione Nordamericana la spaccatura che aveva separato per quasi tre secoli la razza umana, nel bene e nel male.
Liberty Island, già Bedloe’s Island, dove un tempo sorgeva la Statua della Libertà e dove adesso si trovava solo il frammento di un piedistallo. Il resto era stato annichilito dal primo attacco, assieme a ciò che si trovava alle sue spalle. La prima risposta alla guerra, per decidere la strada che avrebbe portato l’umanità oltre la grande estinzione dell’Olocene. E la risposta era stata di cercare con forza di estinguersi a vicenda, come spesso succede in questi casi.
Era stata una guerra strana, in effetti. Per cominciare, era stata inutile, come la quasi totalità delle guerre. Il blocco orientale stava già abbandonando la Terra, per emigrare sulle colonie: con un poco di pazienza, nel giro di venti o trenta anni il pianeta sarebbe rimasto al blocco occidentale, che si sarebbe poi potuto estinguere come preferiva. La guerra aveva solo accelerato il processo e dato una bella spinta al conto dei morti. Così, invece di andarsene tranquilli e salutando con la manina, in pace e in armonia, i coloni se n’erano andati tra le bombe, caricando in fretta gli abitanti rimasti, e con tanti fuochi d’artificio per farsi ricordare.
Erano stati fuochi d’artificio precisi, per quanto possano esserlo in una guerra. Aveva puntato solo ai simboli, ai monumenti, come a voler distruggere tutto ciò che incarnava l’avversario. Statua della Libertà, Cristo del Pan di Zucchero, Tour Eiffel, Big Ben: era lunga la lista dei monumenti colpiti e affondati, in quella guerra bislacca. Certo, anche chiunque vivesse nei dintorni era stato vaporizzato, ma quello rientrava nei normali incidenti della guerra e poi non è che il nemico lanciasse baci, per dirla tutta: il nemico aveva mirato da subito alle persone, per cui era solo equo pareggiare un poco il conto. Il pianeta avrebbe solo ringraziato.
Alla fine, anche l’ultima arca dei coloni era partita, col suo carico di ibernati, diretti alla sicurezza delle colonie. Dietro di loro restavano rovine di città bombardate, tanto a est come a ovest, e un buon numero di morti, che facevano sempre morale. Il blocco rimasto sulla Terra, così, aveva potuto salvare l’onore: non sono stati loro ad andarsene spontaneamente, ma siamo stati noi a cacciarli. Le colonie avevano poi assorbito l’arrivo dei profughi ed era cominciata la distribuzione sui pianeti già terraformati. A poco a poco, nuovi mondi si erano aggiunti, nuovi spazi per i coloni, e così la crisi iniziale era stata superata, senza gravi problemi, o almeno così raccontavano i libri di storia.
Sulla Terra, invece, il momento critico non era mai stato superato. Chi era rimasto aveva occupato le aree lasciate libere da chi era partito, si era allargato, aveva respirato, ma le risorse erano poche e non bastavano mai. Non bastavano neppure quando ebbero raggiunto il resto del sistema solare, per avviare l’opera di sfruttamento degli asteroidi e dei pianeti inabitabili. A poco a poco, sembrava avvicinarsi un nuovo Medioevo tecnologico, senza speranze.
Lo avevano scacciato i trattati, e subito dopo i trattati era sorto il palazzo verde dell’Ufficio. Quello stesso palazzo in cui, ai primi di agosto, Bogdan Stratos entrava, stretto in un elegante completo con tanto di cravatta in coordinato, come nuovo dipendente, un neoassunto planetologo al servizio del professor Vihersalo, celebre e illustre a modo proprio.
Il viaggio era stato tranquillo e comodo, certo molto più di quello verso Lakshmi, quando aveva incontrato Matteo. Non gli erano piaciute molto le voci, captate qui e là, che circolavano tra gli altri passeggeri e che l’equipaggio non aveva saputo o voluto negare. Storie sulla quarantena, ma anche sui rapporti più tesi tra Terra e Lakshmi; storie a cui lui si sarebbe probabilmente dovuto abituare, lavorando all’Ufficio, ma che non gli piacevano lo stesso. Bogdan aveva fatto finta di niente, stando il più possibile a distanza da chi ne parlava.
Della quarantena sapeva già parecchio e quel che aveva saputo non aveva contribuito a migliorare il suo umore. Il professor Vihersalo, planetologo capo dell’Ufficio, lo aveva contattato qualche giorno prima della partenza, per spiegargli cosa gli sarebbe successo e come comportarsi. Un pro forma, un semplice pro forma per lui: un paio di controlli all’arrivo in stazione, una spruzzata di disinfettante, che faceva sempre scena, poi via verso New York, dove avrebbe speso qualche giorno in una clinica collegata all’Ufficio. Ecco la sua quarantena.
Visite? No grazie. Esami? E a cosa servono? Lo avrebbero parcheggiato in una stanzetta riservata, connessa all’Ufficio e con tutte le comodità necessarie, per far credere che la quarantena servisse davvero. «Ma è solo pubblicità,» aveva aggiunto Aaron Vihersalo, «Sappiamo bene che non ci sono malattie infettive su Lakshmi e che niente potrebbe contaminare la Terra, ma a volte è necessario utilizzare soluzioni politiche di questo tipo. Lo capirai e ti abituerai, non ti preoccupare.»
«Sì, immagino che mi abituerò,» aveva annuito lui, simulando una convinzione che non sentiva.
Bogdan non si era mai preoccupato per la quarantena e non se ne preoccupava adesso, dopo quello che gli aveva raccontato il suo futuro capo, ma la storia non gli piaceva. Intrighi planetari, rapporti di forza tra governi, giochetti di stringere qui per allentare là: erano tutte cose che non gli erano mai interessate. Lui voleva solo proseguire i propri studi di planetologia e il testo della galassia poteva pure prendersi cura di se stessa, come aveva fatto per miliardi di anni. Per proseguirli, però, doveva entrare nell’Ufficio e l’Ufficio era... beh, lo sapevano tutti cosa era, ormai.
Se anche all’inizio era stato una organizzazione scientifica, almeno per la maggior parte, adesso il suo raggio di azione si era allargato di parecchio e l’Ufficio per la Colonizzazione aveva mani più o meno ovunque, sulla Terra. O meglio, il dottor Leonardi aveva mani più o meno ovunque: il resto dell’Ufficio si lasciava portare al guinzaglio da lui, come un cane stanco. Entrando in quel palazzo verde (che strana scelta di colore), Bogdan Stratos sapeva che sarebbe diventato presto una pulce su quel cane vecchio e stanco. E lo accettava.
Basta che mi lascino fare quello che mi interessa e poi facciano pure quello che vogliono, pensò. Il che non era forse una buona filosofia, una filosofia responsabile, ma presentava molti vantaggi, in casi come il suo. Aveva studiato planetologia e si era specializzato nei giganti gassosi: l’unico posto in cui avrebbe potuto esercitare era l’Ufficio per la Colonizzazione. Il tipico esempio di mangiare la minestra o saltare la finestra. Con un ufficio che lo attendeva al sedicesimo piano, saltare la finestra non pareva una buona idea, per cui avrebbe mangiato la minestra.
Si tenne stretta quella convinzione, attendendo che il Direttore George Gemelos lo ricevesse. La sala di aspetto era ampia, comoda e vuota: una moquette delicata che copriva il pavimento, di color blu scuro, cinque sedie allineate lungo una parete bianca, una larga vetrata di fronte e due porte alle pareti laterali. Per quanto ne sapeva lui, una conduceva all’ingresso, dove era appena passato e una segretaria di mezza età montava la guardia; l’altra doveva condurre all’ufficio del Direttore, almeno in teoria. Non c’erano altre uscite, dopotutto.
Bogdan si augurava che quella seconda porta si aprisse al più presto. Aveva poca voglia di perdere una mattinata a girare i pollici e aspettare, ma il colloquio col Direttore era un dovere di ogni nuovo arrivato e lui lo avrebbe sostenuto. Quando poi il nuovo arrivato proveniva proprio da un pianeta che, in quel periodo, aveva attriti con la Terra, il colloquio era ancora più un dovere. Il che lo riportò a quanto sentito durante il viaggio: voci sugli attriti tra la Terra e Lakshmi. Motivati dalla stupida quarantena, per quanto ne sapeva lui, e per questo ancora più fastidiosi.
Chissà cosa mi chiederà, pensò.
Chiedesse pure quel che voleva, tanto lui non lo avrebbe potuto aiutare molto. Se attriti c’erano, e sì, quelli c’erano, la gente comune non ne sapeva e non ne pensava niente. Erano attriti tra governi, tra centri di potere, tra quel che ti pare, ma non filtravano fino al popolo di Lakshmi. A Varshi non se ne parlava proprio, a Mathurnath non aveva sentito nulla, nel breve soggiorno con gli amici, in attesa della partenza, e solo i notiziari ufficiali vi accennavano, in forma velata, parlando appunto della quarantena e delle limitazioni che la Terra sembrava voler imporre nei rapporti tra i pianeti. Niente di importante, insomma. Sospirò.
Dalla vetrata si vedeva il lato nord della città, un panorama che includeva più cielo che palazzi, dal livello dell’ufficio del Direttore. Erano in alto, molto in alto, e Bogdan Stratos preferì restare seduto e guardare da lontano, quelle poche volte che guardava. Non aveva problemi coi luoghi alti, amava i luoghi alti: erano i luoghi bassi a dargli qualche problema, soprattutto quando li guardava dall’alto. Così rimaneva seduto, ad attendere la chiamata del Direttore Gemelos.
Sperando che arrivasse presto.
Circa sei minuti dopo, la porta dell’ufficio si aprì e ne uscirono il Direttore stesso e un altro uomo, un individuo alto e asciutto, dalle spalle larghe e i capelli corti, che poteva avere quarant’anni, forse, o forse anche cinquanta. Aveva una spilla sul petto, che Bogdan riconobbe, ripescandola dalle vaghe memorie d’infanzia: un membro dell’esercito, presumibilmente ufficiale di alto grado. Colonnello, o anche maggiore, ma era troppo lontano per distinguere i simboli che la decoravano. A ogni modo, il Direttore aveva appena incontrato un membro dell’esercito. Niente che a lui interessasse.
I due si salutarono, poi il militare si incamminò rigido verso l’uscita e la segretaria che attendeva in agguato poco oltre. Il Direttore Gemelos lo seguì con lo sguardo, in silenzio e un poco sperduto, poi si girò verso Bogdan, sorrise e indicò il proprio ufficio. «Si accomodi pure.»
L’ufficio era più o meno quello che si sarebbe aspettato. Scrivania di lusso, comoda poltrona per sé e meno comode sedie per gli ospiti, cianfrusaglie appese alle pareti, diplomi e documenti assortiti, bandiera della Comunità Terrestre in un angolo (aggiunta da Gemelos, di sicuro: il dottor Leonardi non era un tipo da bandiere, per quanto ne sapeva Bogdan), targhetta personale e altre cianfrusaglie sulla scrivania. E una vetrata enorme, spalancata sulla baia e su Liberty Island.
«Mi scusi per il ritardo, ma sa, impegni amministrativi,» disse il Direttore Gemelos, sedendosi. Era un uomo basso e secco, dalla pelle olivastra e capelli neri dall’aria molto innaturale. C’erano rughe, sul suo viso, ma meno di quante fosse lecito aspettarsene in un uomo della sua età, a un passo dalla cifra tonda dei settanta. A Bogdan sembrava reale come il pupazzo di un ventriloquo. Non aveva poi capelli grigi e radi, nelle immagini che aveva visto lui? Li aveva, appunto: ora non più. Pazienza.
«Non si preoccupi, capisco,» gli rispose, verificando che le sedie erano scomode anche nei fatti, non solo alla vista. «Immagino che sia normale, con la quarantena e tutto il resto.»
Gemelos lo guardò come se gli avesse appena parlato di ippopotami viola con le ali sotto le ascelle e un mandolino al collo. «Quarantena?»
Quelli erano i casi in cui la realtà avrebbe avuto bisogno di un comando, per riprendere il gioco dal precedente salvataggio. Ok, il colloquio di presentazione non era partito nel modo migliore: tempo di correggere la rotta, dunque. «La quarantena per chi viene da Lakshmi, sa,» spiegò Bogdan. «È da là che sono arrivato, cinque giorni fa, ma mi hanno trattenuto fino a ieri, per sbrigare questa storie della quarantena. Le misure di sicurezza, per evitare che da Lakshmi possano diffondersi...»
«Sì, sì, quella quarantena,» annuì Gemelos, la testa che balzellava su e giù come una marionetta. «Il discorso delle contaminazioni, sì. Me n’ero proprio scordato, sa, con tutto quello che succede. Sì, capisco, è stato davvero un peccato dover imporre la quarantena, ma sa, a volte non si hanno scelte. Lo avranno capito anche su Lakshmi, no?, anche se riconosco che da parte nostra il tempismo non è stato dei migliori, sì, e questo, beh, potrebbe aver provocato tra la gente un certo malumore, che è del tutto comprensibile e giustificabile, ma è evidente che le nostre scelte sono mosse da una viva preoccupazione per il bene del pianeta, sì, e spero lo abbiano compreso anche su Lakshmi, giusto?»
«Beh, sì,» prese tempo, mentre setacciava la poltiglia verbale del Direttore, in ricerca di qualcosa di diverso dall’aria fritta. Non lo trovò. «In effetti, al momento la voce non circola molto tra la gente e ancora non c’è una reazione vera e propria dell’opinione pubblica lakshmita. Magari più avanti, ma quando sono partito era ancora tutto tranquillo. E poi, beh, si sa,» alzò le spalle, non sapendo come concludere la frase. Ammesso che servisse concluderla.
Non servì. La concluse Gemelos per lui, annuendo col suo ritmo rimbalzante. «Sì, sì, come dicevo, avranno capito che era una misura necessaria, per quanto scomoda. Sono sicuro che non ci saranno problemi e che la situazione si risolverà per il meglio, nel minor tempo possibile. Piuttosto, lei, mi dica, come si è trovato qui da noi? Che ne pensa del posto? È appena arrivato, mi ha detto, e dopo tutti quegli anni lontano, a studiare su quel pianeta... Avrà notato parecchi cambiamenti, di sicuro, e l’apporto di gente come lei è sempre fondamentale per noi. Aria nuova, idee nuove. Il suo campo è la planetologia, giusto? Avrà avuto modo di conoscere il nostro Vihersalo, suo superiore. Persona splendida, per carità, anche se ogni tanto è un po’, come dire, fissato con le sue manie, haha. Ma lo siamo un po’ tutti, in fondo, no? Mi dica, mi dica.»
Mi dica cosa? Hai parlato mezz’ora e non hai detto niente! Te ne frega davvero qualcosa di me? O vuoi solo far passare il tempo? Bogdan si trattenne da fargli notare che era stato lì giusto un anno fa, al suo primo colloquio di lavoro, e non è che potessero esserci stati molti cambiamenti, da allora. Si domandò di sfuggita che cosa sarebbe successo all’Ufficio, alla morte di Leonardi, se l’erede era un tizio come Gemelos.
Gli erano bastati pochi secondi in quell’ufficio per confermare ciò che ogni altro dipendente sapeva già: George Gemelos era un segnaposto, il nome sulla targhetta, ma contava come il due di coppe quando la briscola è spade. Non a caso, il suo colloquio di un anno prima era stato con Vihersalo, e Leonardi si era mantenuto nei paraggi: loro due lo avevano testato, esaminato e studiato, loro due l’avevano infine ammesso e gli avevano assegnato l’incarico. Gemelos non si era neppure percepito sotto forma di nome, o di spirito, o di pensiero inespresso. Un ectoplasma, ecco cos’era.
Ma l’ectoplasma si aspettava una risposta da lui e lo fissava a mani giunte sulla scrivania, sorridente e sereno, perso in chissà quale magico mondo incantato. Bogdan rispose, inventando a ruota libera, facendosi le domande e dandosi le risposte. Sì, tutto bene. Sì, bel posto, sono soddisfatto del mio ufficio (anche se l’ho visto per tre minuti, il tempo di appoggiare la borsa). Sì, dopo gli anni passati su Lakshmi, vedo molte differenze sulla Terra. Sì, è stata una splendida esperienza, ma sono anche contento che sia conclusa. È sempre bello tornare a casa, sa? Beh, non ho ancora discusso i dettagli del mio lavoro, ma conto di poterlo fare al più presto. I giganti gassosi mi hanno sempre affascinato, fin dall’infanzia: deve essere per questo che li ho scelti come specializzazione. Eh, che vuole, lo so, la planetologia è una fase di stanca, almeno sulla Terra. Mah, questi tempi...
Fu un sollievo stringergli la mano e uscire. Attraversò la sala di attesa (deserta), superò la segretaria all’ingresso, salutandola con un cenno della testa, raggiunse il corridoio fresco e finalmente respirò. Se il buongiorno si vede dal mattino, come dicevano i vecchi, il suo giorno all’Ufficio non sarebbe rientrato tra le pagine da ricordare per sempre. D’altra parte, adesso poteva solo migliorare.
In ascensore, scendendo verso il suo nuovo ufficio, ripensò distratto a Lakshmi, agli amici che vi aveva lasciato. Li avrebbe rivisti? Presto o tardi sì, ne era sicuro. Avevano ancora decine di anni davanti, e il lavoro di planetologo lo avrebbe portato spesso a girare tra i Mondi Coloniali; in uno di quei viaggi sarebbe passato anche per Lakshmi. E poi, Matteo sarebbe tornato sulla Terra, nel giro di tre anni o poco più. Li avrebbe rivisti, presto o tardi.
E in attesa di quel presto o tardi, nuovi mondi di lavoro lo attendevano. Bogdan Stratos corse loro incontro, finalmente soddisfatto, finalmente sicuro di poter fare ciò che desiderava. Il resto avrebbe potuto aspettare.
Quella sera, come sempre, il dottor Leonardi ascoltava il resoconto del Direttore Gemelos, chiuso nel suo ufficio. Ascoltava con un orecchio solo, mentre ogni altra parte pensava ad altro. Di tanto in tanto annuiva e borbottava, in risposta a ciò che sentiva.
«Sì, l’operazione sarà in autunno.» «Ma figurati se aspettavo te, per farmelo dire.» «Sì, non ce ne scapperà uno.» «No, i problemi li vedi solo tu.» «Sì, l’attentato, lo so.» «Agiremo prima, svegliati.» Quando il supplizio fu finito, Leonardi respirò a fondo, riempiendo i polmoni al massimo delle loro misere capacità, e li svuotò in un sbuffo, che per i suoi mezzi fu l’equivalente di un uragano. Mezzi di centoottenne, in maggior parte rifatti e rappezzati.
Che piattola che era, quel Gemelos! Stava diventando troppo noioso anche come segnaposto. Forse sarebbe stato meglio sostituirlo, ma non aveva ancora trovato un fantoccio valido e incapace quanto lui. Serviva una persona inadatta al pensiero autonomo, in ogni sua forma, priva di spina dorsale e con la personalità di uno zerbino: ricerca non semplice, ma tutt’altro che proibitiva. In fondo, i suoi anni di esperienza gli avevano insegnato che la Terra brulicava di persone simili, producendole come umidità e buio producevano i funghi. Gemelos aveva parlato col rappresentante del Ministero della Difesa, ok: c’era bisogno di tirarla tanto per le lunghe e raccontargli tutto, parola per parola? Il suo cervellino pensava davvero che lui, Leonardi, non sapesse già di cosa avessero parlato? Pareva proprio che la risposta fosse sì, almeno per Gemelos.
«E il colloquio con quel nuovo, quel planetologo!» gemette Leonardi. Niente che non sapesse già e molto che Gemelos non avrebbe mai saputo. Aveva incontrato di persona quel ragazzo, quando si era presentato al colloquio di assunzione, e lo aveva scelto proprio perché sarebbe stato un ottimo acquisto. C’era bisogno di ripeterglielo? Sì, c’era sempre bisogno di ripetere l’ovvio. Purtroppo.
Ma il ragazzo poteva attendere. Era ben più rilevante il pianeta da cui era appena rientrato, ossia Lakshmi. Cominciavano a lamentarsi, per la quarantena, e cominciavano a farlo in via ufficiale, non solo come brontolii intestinali tra la popolazione. Aveva ancora di fronte il messaggio, spedito dal Presidente Amministrativo lakshmita, e non era un bello spettacolo. Non era neppure un bell’udire, in effetti, con quella sua cadenza lakshmita che lo aveva sempre disgustato. Ma avrebbero portato pazienza, pure loro! Lascia che la situazione su Madre si sistemi e poi toglieremo il blocco, per quei vostri quattro gatti. Per adesso, la priorità era il bene della colonia e dell’ecosistema.
O di quello che c’era sotto la colonia e l’ecosistema.
Quello, soprattutto. Fossero state due mosche a morire, poco importava. Fosse stato un albero o due, poco importava. Mosche e alberi erano ovunque e valevano zero. Se erano quegli insetti di Madre, però, il discorso cambiava. Cambiava tanto. Quelli non li poteva sostituire, non lui e neppure quel fissato di Thoreau, responsabile delle politiche ambientali. Li avrebbe potuti sostituire solo Madre, dopo essersi abituata agli eventuali, nuovi microorganismi, che gli intrusi avevano introdotto. E se questo lo avesse costretto a fare a gara di sputi con gli altri pianeti, pazienza! L’avrebbe fatta.
Poi, naturalmente, c’erano gli Isolazionisti.
Le cellule nella regione Nordamericana erano state individuate e identificate, una per una e persona per persona, con la massima discrezione e la massima precisione. Progettavano un attentato proprio lì, a New York, all’inizio dell’inverno. Che teneri! Volevano colpire il suo palazzo. Per certi versi li poteva capire e, in parte, persino apprezzare: puntavano al massimo, come era giusto fare in tutti i casi. Peccato, però, che non avrebbero ottenuto un fico secco.
Le contromisure erano già pronte e avrebbero funzionato: avevano sistemato le reti e quei presunti isolazionisti ci sarebbero caduti tutti quanti come tonni, in autunno. Il loro capo, sorpresa sorpresa!, era il figlio di un superstite della vecchia generazione. Bel padre che aveva avuto! Un modello per ogni bambino. Un pazzo, arrestato dopo il quarto attentato e morto in galera per la gioia di tutti, con una quindicina di omicidi alle spalle, ma tutti impersonali, tutti con bombe. Tutti da vigliacco. Non c’erano preoccupazioni, su quel versante.
La regione Mediterranea era un altro discorso. Che anche loro stessero progettando un attentato, era segreto tanto quanto era segreto il Sole. Cosa volessero colpire, però, ancora non lo sapevano. Non avevano lasciato tracce, non avevano detto nulla, non c’era una sola pagliuzza a cui aggrapparsi. Sì, certe attività potevano anche essere interpretate, con maniche estremamente larghe, come qualche tipo di preparazione a futuri movimenti, ma quali movimenti? Mistero!
Il loro capo, un certo Zeke Boodie (nome autentico come le mie articolazioni, per Leonardi), aveva cancellato con cura il proprio passato, e con ottimi risultati. Modificate le impronte digitali, ovvio, e in nessun archivio erano presenti tracce del suo DNA. Formalmente, non esisteva, non sulla Terra. Chi poteva essere? Cosa poteva volere dall’Ufficio? Ma lo avrebbe scoperto.
Era quasi sicuro di poter prevenire l’attentato. Aveva una buona idea del dove, sempre che i pazzi in questione non volessero farsi migliaia di chilometri per raggiungere un altro ipotetico bersaglio, e coi suoi mezzi avrebbe saputo anche il quando, quasi certamente in tempo. Bastava aver pazienza e scrupolo. Bastavano sempre pazienza e scrupolo, in ogni attività.
Ma non bastava. Doveva anche scoprire chi fosse il capo e perché seguisse quella linea d’azione. E non poteva farselo scappare, no, altrimenti si sarebbe ritrovato con altri Isolazionisti, tra dieci, venti o cinquant’anni. Dubitava di poter vivere tanto a lungo, anche se non si poteva mai dire, ma voleva per sé il merito di averli sconfitti definitivamente. Era il minimo, con tutto il lavoro che aveva fatto.
«Chi sei, Zeke Boodie?» chiese allo schermo. «Perché devi rompermi le palle anche tu? Non basta il congresso dei Mondi Coloniali? Non bastano i ficcanaso su Madre? No, ci si deve mettere pure mister Nessuno, qui sulla Terra.» Sospirò. Il mondo era un luogo ingiusto, davvero!
Uscendo dall’ultima riunione, Davide Kori sapeva cosa lo avrebbe atteso. Glielo avevano promesso, di fatto, anche se con le parole erano rimasti vaghi. Ma erano lì, ad aspettarlo, anche dopo che si era attardato a discutere con Zeke, l’uomo che lo aveva adottato alla morte della mamma. C’era Amir, con la sua espressione da cane bassotto, e c’erano gli altri due, che lo seguivano sempre a ruota, o che lui seguiva sempre a ruota: Amani Casal e Philippe Zarakis. Volevano parlargli, già.
E parliamo pure, sospirò tra sé.
Anche un’ameba lobotomizzata avrebbe capito di cosa gli volessero parlare. E l’argomento era, udite udite, la sua esclusione dai preparativi per il grande progetto. Davide trattene uno sbadiglio, cambiandolo in un mezzo sorriso, con retrogusto di stanchezza. La sua esclusione, già. Come se non ci fosse altro all’infuori del progetto. Come se non ci fosse un dopo, ben più importante del progetto stesso. Ma loro non lo potevano capire. E infatti Zeke aveva scelto lui, non loro.
«Lo ha deciso Zeke. Se no vi sta bene, lamentatevi pure con lui,» disse, più aspro di quanto avrebbe voluto. Ma se la sono cercata loro, non io.
I tre lo fissavano, in quell’angolo semideserto di periferia. C’era caldo, c’era umido, e il clima non contribuiva certo a raffreddare gli animi o rischiarare i cervelli. Erano anche stanchi, questo glielo doveva concedere, e forse gelosi di lui. Perché lui era il prescelto del capo, in fondo, e il problema era lì. Il resto, le parole e i ragionamenti che tentavano, erano solo scuse. Lui era il cocco del capo e loro no. Fine del discorso.
«E quindi il capo ha deciso che tu non parteciperai alle azioni estive, perché sei troppo bello per sudare assieme a noi?» chiese Philippe, che in effetti stava sudando parecchio. Aveva un’aureola di zanzare, tra il grottesco e il ridicolo. «Te ne starai seduto fino all’inverno, mentre noi facciamo tutto il lavoro sporco e faticoso?»
Davide scrollò le spalle. «Non me ne può fregare di meno. Ero pronto a fare la mia parte, ma Zeke ha deciso così. Punto. Come ho detto, se non ti va bene, prenditela con lui, non con me. È lui che dà gli ordini, no?»
«Ma almeno ci puoi spiegare perché proprio tu ne sei fuori?» chiese Amani, più calma di Philippe ma non meno arrossata dal clima. «È questo che vorrei capire. Ci sarà un qualche motivo, no?»
«Ci sarà, ma è un motivo di Zeke. Se ve lo vuole dire, ve lo dirà lui. E se non ve lo vuole dire, non ve lo dirò certo io. Non sono io il capo.»
«Oh, no, non sei tu il capo,» sorrise Philippe, allegro come un colubro. «Tu sei solo il suo fedele leccapiedi, giusto? Quello che gli sta sempre attorno, quello che gli lucida il culo, quello che...»
«Non mi sembra il caso di metterla in questi termini,» lo interruppe Amani.
«Oh, non ti sembra? A me invece sì. A me invece sembra! Perché è questo il motivo, giusto? Tu sei il suo coccobello, già, e lui non vuole metterti in pericolo, figuriamoci! Mettiamo in pericolo quei quattro idioti che mi seguono, ma non tocchiamo il mio piccino! Mi sembrava una organizzazione più seria, all’inizio...»
Amir saltellava con gli occhi dall’uno all’altro, con la faccia di chi muore per andare in bagno. Non interveniva, forse perché non trovava il momento giusto, o forse solo perché non sapeva cosa dire. O come dirlo. Sapeva cosa fosse successo, Davide glielo aveva spiegato, ma... ma come dirlo agli altri? E Davide sarebbe stato contento?
Si erano incontrati poco dopo la metà di luglio, al funerale della signora Larisa Elfridi, già signora Cori, poi signora Kori, infine madre di Matteo e Davide. C’era Davide, ovviamente, col completo più elegante che fosse riuscito a racimolare e che, per qualche ragione, lo faceva assomigliare a una radice di liquirizia. Ma c’era anche Zeke Boodie, il capo, in piedi accanto a Davide e vestito a lutto, realmente vestito a lutto. Era serio, era grave, era triste, pur con quella faccia deforme. Amir ne era rimasto sorpreso.
«È normale che io sia presente, in un momento così triste per uno del mio gruppo,» aveva spiegato, a fine cerimonia. «Soprattutto con un ragazzo come Davide, che ormai non ha più nessuno qui sulla Terra. Lo aiuterò come posso, perché noi non lasciamo mai nessuno indietro.»
Amir aveva annuito, ammirando il suo capo. Era davvero una brava persona, proprio come aveva sempre pensato lui. Avevano parlato ancora per un poco, a voce bassa, poi Zeke si era allontanato, lasciando i due ragazzi soli, nella scarna folla che già si era diradata. Non c’era stata molta gente, al funerale; non c’era molta gente che conoscesse davvero Larisa Elfridi, o che avesse voglia di essere al suo funerale, in apparenza. Faceva molto caldo, dopotutto.
«Mi aiuterà lui, coi soldi,» aveva spiegato Davide, un poco in imbarazzo. «Mi ha detto che non mi devo preoccupare, ma cercherò di restituirgli tutto quello che posso, quando avrò qualcosa.»
«Beh, posso immaginare,» aveva risposto Amir, che in realtà non immaginava molto, ma sapeva di dover dire qualcosa del genere, per educazione. «Deve essere difficile.»
«Beh, facile non lo è di sicuro. Ma...» e abbassò ulteriormente la voce, che era ormai al livello di un seminterrato, «a quanto pare conosceva mio padre, sai, e così... sì, mi aiuta per questo, penso.»
«Conosceva tuo padre?»
«Così ha detto, ma è una cosa di molti anni fa, sai. Prima che... prima che mio padre sparisse, già,» aggiunse. Ma gli aveva mai parlato di suo padre, il famigerato Ercole Cori, o Kori? Ricordarselo! Non che avesse molta importanza, in fondo: neppure Amir se lo sarebbe ricordato, in ogni caso.
«Oh... e quindi era un suo amico.»
«Diciamo conoscente. Si conoscevano, ecco. Così ha deciso di aiutarmi, per un po’. E... ha deciso anche di cambiare la mia parte, è meglio che te lo dica subito, così non ti preoccuperai.» Ma lo era? Era meglio dirglielo subito, o era meglio non dire nulla? Non lo sapeva, ma nel dubbio non se la sentiva di nascondere troppe cose all’amico. Non sarebbe stato giusto.
«La tua parte?»
«Nel piano. La mia parte nel piano, ricordi? Le cose che dovrò fare in preparazione, quella roba lì. Ne abbiamo discusso parecchio, nelle ultime riunioni.»
«Oh, sì, giusto. E te la cambia?»
«Ha deciso che dovrò fare altre cose, perché... Boh, non lo so molto bene, ma avrò una missione diversa. Lo ha deciso lui.»
E lì si erano fermati. La parola del Capo era sacra, per Amir, e non avrebbe mai osato mettere in dubbio o in discussione le sue scelte. Era il capo, era un grande, era uno che ne sapeva, quindi ogni sua scelta era giusta per definizione. Anche e soprattutto le scelte che lui, Amir Cavalli, non capiva.
Non funzionava proprio così per Philippe, in apparenza.
«C’è un progetto e c’è qualcosa da fare dopo il progetto, capisci?» gli stava spiegando Davide, con la calma di un tarantolato. «E Zeke mi ha scelto per la parte che arriverà dopo il progetto. È chiaro? Riesci a fartelo entrare in testa? C’è qualcuno lì dentro, a ricevere il segnale?»
«E perché avrebbe scelto proprio te, di tutti quelli che ci sono?»
«Vaglielo a chiedere! Forse perché non sono così stupido come altri.»
Amani intervenne, con una mano sul petto di ciascuno, per spingerli indietro, prima che dalle parole passassero a metodi più diretti e concreti di risolvere la discussione. «Calma! Calma, calma. C’è già caldo, non scaldiamoci anche noi. Ok? So che non ti piace, Philippe, e non piace molto neppure a me, ma lo ha deciso Zeke, a quanto pare. È così. Possiamo discuterne con lui, possiamo cercare di fargli cambiare idea, ma picchiarci tra noi non serve a niente.»
«Perché non ti piace, eh?» le chiese Davide.
«Perché questa storia del dopo-progetto è saltata fuori soltanto adesso. Poteva almeno accennarci qualcosa prima, non trovi? Avvisare che qualcuno si sarebbe dovuto occupare di un’altra missione, o qualcosa del genere. Invece abbiamo parlato solo del progetto, progetto, e ancora progetto, in tutte le riunioni, e mai una volta che si sia accennato al dopo. È questo che non mi piace.»
«Non è un problema mio. Se non ne ha parlato, si vede che era meglio così. Forse avrà avuto paura che ci fosse una qualche spia, non è vero, Philippe?»
Philippe sbuffò. «È quello che ho detto fin dall’inizio. Potrebbero esserci spie. Mi fa piacere che ti sia svegliato anche tu, alla fine. Meglio tardi che mai, eh?»
«Ma... non possono esserci spie, non tra noi,» disse Amir, come a ricordare che c’era anche lui.
Philippe sbuffò di nuovo, con un venatura più decisa di derisione. «Pensala pure così, poi staremo a vedere. Ci teniamo segrete le cose tra di noi, figurati quanta fiducia può esserci in un gruppo come questo! Una mano non sa cosa fa l’altra, giusto?»
«Forse è meglio fermarci qui, per stasera,» disse Amani. «Altrimenti ci scapperà davvero una rissa. C’è troppo caldo e siamo troppo accesi noi. Non è una bella cosa, per il gruppo. Ne parleremo di più la prossima volta, se ci saremo calmati.»
Si separarono, con qualche ultimo borbottamento. Davide rientrò da solo, nella casa in cui abitava da solo, coi soldi che Zeke gli avrebbe continuato a passare. Si concesse una doccia, poi si lasciò cadere sul letto, fissando il soffitto, ascoltando il silenzio. Era brutto stare lì, da solo. In ogni angolo poteva immaginare i fantasmi della sua vita familiare, distrutta e dispersa come da un meteorite. La mamma morta, suo fratello nello spazio, suo padre chissà dove, mai visto in tutti quegli anni. E lui lì, da solo, ad aspettare qualcosa che neppure sapeva.
No, lo sapeva. Sapeva cosa stesse aspettando. Aspettava la terra promessa, promessa da Zeke. Prima che l’operazione potesse scattare, prima che il famoso progetto fosse completato, lui sarebbe partito per Madre. Era il ruolo che gli era stato assegnato ed era anche ciò che desiderava, in fondo. Perché rimanere ancora sulla Terra? Non c’era più nulla che lo legasse al pianeta.
«Madre è il futuro.» Così gli aveva detto Zeke e lui era disposto a credergli. Anzi, lui gli credeva e basta. Perché era ovvio, era logico. Era stato così anche per gli Altri, che avevano trovato il proprio futuro nel viaggio interstellare. Quindi, era chiaro che avrebbe funzionato anche per i terrestri. Ma il controllo di Madre doveva restare alla Terra: per questo lui sarebbe partito. Mentre tutti gli altri del gruppo si preparavano ad agire sulla Terra, lui sarebbe partito, come avamposto umano su Madre.
E il futuro sarebbe stato suo.
Cullato dai pensieri felici, almeno per un dato valore di felicità, Davide si abbandonò al sonno, nella casa deserta. Sognò il Circo di Oklahoma, la promessa vecchia di un anno, che avrebbe finalmente realizzato in autunno. Sognò la partenza, che sarebbe stata verso l’inverno. Sognò l’arrivo, su un nuovo pianeta, che attendeva soltanto lui. Ma in tutti quei sogni, non c’era spazio per il fratello. Le loro strade non si sarebbero più toccate. Lo sentiva.
Lo sognava.