La galassia di Madre - 24
Come Bogdan Stratos e con Bogdan Stratos, sebbene all’insaputa di entrami, o almeno all’insaputa del primo, anche Kemala Kexin era arrivata sulla Terra. Lo stesso giorno, la stessa ora e sulla stessa nave. Senza incontrarsi, però: a questo Kemala era stata molto attenta. Non sapeva chi fossero i suoi compagni di viaggio, ma sapeva che li avrebbe evitati, per evitare assieme a loro ogni domanda sui motivi che la portavano sulla Terra, più eventuali annessi e connessi: le domande, anche quelle più innocue in apparenza, avevano sempre la pessima abitudine di proliferare e irradiarsi nelle direzioni più imprevedibili, e spesso pericolose. Evitare ogni contatto era la soluzione giusta.
Durante le due settimane di viaggio (settimane, mesi: perché i terrestri dovevano complicarsi la vita con tutte quelle misure di tempo, che si cannibalizzavano l’un l’altra?) era rimasta scrupolosamente chiusa nella propria cabina singola, ripassando lingua, pronuncia e costumi terrestri. Non voleva e non poteva fare errori, non in dettagli tanto stupidi, che erano ala sua portata. Ne avrebbe fatti già a sufficienza, prima di abituarsi alla vita terrestre, ma almeno si sarebbe risparmiata quelli che poteva correggere da sola. Studiare, dunque: studiare e ripassare.
Aveva ripassato più volte anche i suggerimenti e le informazioni che Matteo le aveva fornito nel corso dell’autunno, scoprendo che erano più insufficienti di quanto avesse pensato. C’erano buchi, lacune enormi, cose che probabilmente erano sembrate così scontate, a lui, ma che per lei erano voragini al centro della strada, adesso. Le avrebbe dovute riempire un poco alla volta, durante i suoi primi giorni sul pianeta. E sì, non mancava in questo un fascino avventuroso, lo doveva ammettere, ma sospettava che di avventure ne avrebbe già vissute parecchie, e non necessariamente piacevoli, prima di farsi accettare tra gli archeologi di Madre. Meglio non aggiungerne altre.
Perché sarebbe stata ammessa, questo era certo. Certo per lei, almeno. Tutto ciò che avrebbe dovuto fare, prima sulla Terra e poi su Madre, era trasmettere questa certezza anche agli altri, per renderla così una realtà. Ma a questo avrebbe pensato poi: prima doveva arrivare su Madre e per arrivarci si doveva trasformare in una terrestre. Quindi, tutto il tempo speso sulla Terra sarebbe stato utilizzato per imparare ciò che ancora non sapeva. Cioè tanto. Matteo le aveva spiegato troppo poco!
Colpa mia, si disse, ho sbagliato le domande e adesso mi mancano le risposte. Avrebbe pagato per questo errore, senza dubbio, ma era giusto così: la responsabilità era sua. Non era stata precisa nelle domande e non aveva preteso risposte precise a sufficienza, quando aveva avuto la possibilità di ottenerle. Quindi, adesso ne avrebbe pagato le conseguenze, faticando molto più del necessario, ma alla fine ci sarebbe riuscita. O almeno così pensava, durante il viaggio.
Vita sociale? No, grazie: avrebbe solo aumentato i rischi. Meno fai e meno sbagli, diceva sua nonna, e Kemala lo aveva sempre ritenuto un valido consiglio, anche se forse un poco estremistico. Ma in fondo anche sua nonna era estremista, per quanto possa esserlo una lakshmita. Con lei non era mai stato necessario alcun tricheco o alcun tipo di sorveglianza: l’ossessione per la responsabilità, sua e di altri, era qualcosa di innato, per lei. Chissà come avrebbe reagito, scoprendo cosa stesse facendo la nipote? Meglio non pensarci. Di sicuro, la cara nonnina l’avrebbe denunciata.
Non ci pensava di sicuro, al momento dell’arrivo. La possibile quarantena l’aveva preoccupata un poco, soprattutto negli ultimi giorni, ma si era dimostrata una pura formalità. Una pagliacciata, per essere più precisi. Soltanto uno di loro era stato fermato e preso in custodia, probabilmente quel Bogdan a cui Matteo aveva accennato un paio di volte, ma lui apparteneva all’Ufficio e doveva dare il buon esempio, o qualcosa del genere. I viaggiatori comuni, come lei, passarono senza problemi e con solo una miserrima spruzzata di disinfettante, che forse era solo aria profumata.
Nell’atrio della stazione, Kemala vide lo spettacolo pubblicitario del Teatro di Oklahoma e si fermò discreta in un angolo, in compagnia di altri spettatori, per assistere e cercare di scoprire tutto ciò che poteva scoprire. Cioè quasi niente: si segnò i contatti per il centro di reclutamento più vicino, sì, ma come si sarebbe poi svolto in concreto quel reclutamento, o quali requisiti ci fossero, ammesso che ce ne fossero, non lo avrebbe certo saputo da quello spettacolo. Lo avrebbe scoperto sul campo.
Se dall’alto la Terra le piacque, mentre l’ascensore la calava sul pianeta dei suoi lontani antenati, la sua opinione cambiò parecchio, una volta che vi fu in mezzo. La città alla base dell’ascensore era grande, caotica e puzzava. Puzzava tantissimo. Puzzava di un fetore inimmaginabile, su Lakshmi. Come fanno a viverci?, si chiese, osservando con disgusto la piazza trafficata che si apriva davanti a lei. Se il viaggio l’avesse scaricata in un letamaio, forse non si sarebbe sentita così male. Il letame era un odore nobile, a confronto. Adesso poteva capire perché i suoi avi fossero fuggiti verso nuovi e migliori pianeti, alla prima occasione. Lo avrebbe fatto anche lei. Paragonata ai profumi di Varshi, quella città era una cloaca intasata da secoli.
E i rumori? Vogliamo parlare dei rumori? Kemala non ne voleva parlare, perché ciò che sentiva era già sufficiente. Era anche troppo, in effetti. A Varshi, nella città dei suoi anni universitari, che erano stati mediamente piacevoli, le strade erano invase di musica dalle fontane. Ok, erano anche piene di voci, soprattutto in estate, e le voci potevano raggiungere un volume piuttosto elevato, specie nelle vicinanze di locali. Ma erano voci musicali. Erano voci piacevoli. Nel peggiore dei casi, se proprio eri insofferente o di cattivo umore, erano comunque voci sopportabili. Nella media.
Ma lì? Lì dove era scesa i rumori erano randellate sul cranio, manciate di ovatta che ti imbottivano la testa e ti attutivano il cervello. Non potevi neppure sentirti pensare, tanto orribile era il frastuono. E le voci erano piacevoli come secchiate di diarrea in faccia. Ok, forse non così spiacevoli, forse era un poco esagerato, ma le urtavano i nervi, le facevano fremere i timpani, le strizzavano lo stomaco. Ma parlavano tutti in un modo così sgraziato e irritante, i terrestri? Avevano tutti toni così urticanti?
Poteva essere il primo impatto, certo. Poteva, e Kemala se lo augurava. D’accordo, sapeva di essere un poco prevenuta e parziale, sapeva di essere leggermente fissata con la musicalità e l’armonia che poteva sempre cogliere nella cadenza lakshmita, e che nella parlata terrestre (almeno nel minuscolo spicchio di Terra su cui aveva posato i piedi) non avrebbe trovato neppure sotto tortura. Sospettava anche di essere arrivata lì, aspettandosi già il peggio. Poteva anche ammettere, ma soltanto con se stessa, che una parte del fastidio le venisse dal comportamento del governo terrestre, che l’aveva costretta a quella stupida pantomima. Poteva ammettere tante cose, ok, ma restava il fatto che, a lei, i suoni che riempivano le strade facevano schifo. Punto.
Dopo un’ora dal suo arrivo, Kemala aveva già le orecchie che fischiavano e sembravano non volere smettere mai. E le prudeva il naso, irritato da quell’aria. No, la Terra non era il suo mondo. La sua gente poteva anche essere partita da lì, due o tre secoli prima, ma aveva fatto benissimo a partire e lo avrebbe fatto volentieri anche lei, al più presto. Anche domani, se possibile. Meglio ancora, ieri.
Ma non poteva. Non subito. Non presto. Prima doveva abituarsi, imparare i costumi terrestri, tutti i dettagli che Matteo non le aveva spiegato e che lei non aveva domandato; doveva imparare il loro stile di vita e doveva diventare così brava a imitarlo, da potersi fingere lei stessa una terrestre. Era il suo biglietto di andata per Madre, per realizzare il suo obiettivo di essere archeologa laggiù (o lassù, a seconda dei punti di vista) e lavorare al recupero delle rovine aliene. Scoprire chi o cosa fossero quegli alieni, che storia avessero vissuto, che mondo avessero abitato.
Non sarebbe stato facile. Diventare una terrestre le sembrava più improbabile che poter diventare una locusta anfibia, adesso che vedeva coi propri occhi il pianeta e la sua gente. Ma doveva farlo, il punto era quello. Così alzò le spalle e cercò un albergo, dove potersi sistemare per un po’ di tempo. Per quanto? Non lo sapeva, di preciso, ma il Teatro di Oklahoma aveva un centro di reclutamento in quella città, proprio vicino all’ascensore, e quello era l’importante. Molto più semplice fermarsi lì, fascia equatoriale, caldo a sufficienza, invece di vagare per tutto il pianeta a cercare altri luoghi. E poi, avere quello stimolo proprio sotto al naso l’avrebbe aiutata a migliorare più in fretta, come la celebre carota davanti all’asino. O giù di lì.
Trovò un albergo che sembrava quasi del tutto automatico, almeno per le operazioni di registrazione e pagamento, e fu un sollievo. Sembrava così primitivo, quel pianeta, che non si sarebbe sorpresa di dover discutere con una qualche persona, per avere una stanza. Restava il problema dei soldi, quella mania che molti pianeti avevano di farti pagare per tutto, ma era sicura di poterlo risolvere: con una società così primitiva, dal suo punto di vista, non sarebbe stato difficile trovare lavoretti altrettanto primitivi e guadagnare il necessario per la sopravvivenza. Lavori non troppo primitivi, sia chiaro.
Ne trovò uno, in quello che poteva essere una qualche attrazione per turisti, ammesso che davvero vi fossero turisti interessati a visitare quella città. Era una specie di ristorante, un ristorante molto all’antica, dove lei e altre ragazze diversamente entusiaste servivano i tavoli, come in uno spettacolo ambientato nel medioevo, o in ciò che lei percepiva come medioevo. Assunta perché conosceva bene le lingue straniere, in teoria, e forse poteva essere vero: con l’ascensore a due passi, non erano pochi i viaggiatori delle colonie che passavano di lì.
Kemala sospettava di essere stata scelta anche per altri motivi, a giudicare da come erano vestite lei e le altre colleghe, ma anche da come il capo le guardasse (nonché da cosa guardava), ma preferiva non indagare: aveva bisogno di soldi, lì sulla Terra, e aveva bisogno di un lavoro sufficientemente dignitoso. Poteva sopportare qualche fastidio, se era per il grande bene che inseguiva. O così aveva scelto di raccontarsi, nei frequenti momenti di sconforto e nostalgia di casa.
Qualche giorno dopo, Kemala scoprì che spedire un messaggio su Lakshmi era molto più costoso di quanto avesse previsto e le sue speranze di poter contattare regolarmente Matteo, per farsi spiegare le cose più incomprensibili che incontrava nella vita sulla Terra, furono fiocinate al primo colpo. In tutto il tempo che trascorse in quella città, riuscì a contattarlo soltanto tre volte e in quei messaggi cercò di condensare tutti i dubbi e tutte le difficoltà che aveva. Non ci riuscì molto bene.
«Forse non è stata una buona idea venire qui,» disse alla stanza d’albergo, quando settembre era ormai alla fine (settembre! Non solo hanno i mesi, ma gli danno pure un nome: pazzesco). Con la lingua aveva migliorato e sentiva di potersela cavare come un nativo: un nativo non molto brillante, ok, ma pur sempre un nativo. E non solo nel parlare, ma anche nell’ascoltare. Diventava un poco difficile, se la conversazione era troppo veloce e in un qualche tipo di dialetto, ma nel complesso sì, era sicura di potercela fare. Almeno per passare il colloquio. Con un poco di fortuna.
I cibi terrestri erano un’altra storia. Non sembravano voler fare amicizia col suo apparato digerente e spesso si svegliava al rumore del suo stomaco brontolante, dopo aver sognato la cucina di casa. In altre occasioni, invece, a brontolare era una sezione più in basso del suo apparato digerente e in quei casi il problema poteva diventare tremendo, soprattutto quando accadeva sul lavoro. Che la stessero avvelenando? No, non volontariamente, ma di certo il suo organismo e quel cibo non sarebbero mai diventati grandi amici. Il che era inquietante.
Come se la sarebbe cavata su Madre? Non era soltanto una colonia terrestre, ma anche una colonia arretrata. Le avrebbero fatto mangiare vomito di cane? Ma in qualche modo gli altri archeologi ce la facevano, qualunque fosse il loro pianeta di origine, quindi ce l’avrebbe fatta anche lei. «Dovevo allenarmi a mangiare questa roba, a saperlo...» commentò, davanti a un piatto di materia giallastra, ricoperta da altra materia rossiccia. La confezione riportava anche un nome, o almeno una scritta in alfabeto latino, ma le era d’aiuto come un binocolo a un cieco. Sospirò.
Non aveva un aspetto molto migliore all’uscita, dopo che il suo corpo ebbe deciso di non essere poi così affamato, da voler metabolizzare persino materiale di quel genere. E anche un’altra fantastica giornata sulla Terra si concluse, nel migliore dei modi possibili. Che era anche l’unico possibile, per lei. Ma ce l’avrebbe fata, alla fine. Peccato solo che la fine fosse ancora così distante.
Il clima che respirava lì, ai piedi dell’ascensore, era poco salutare anche su un piano meno concreto e più astratto. Non che si respiri mai aria molto buona, attorno ai piedi di qualcosa, ma l’aria che si stava ammassando in città era sgradevole ben più di quanto lei avrebbe saputo descrivere. Anche i rari turisti che vedeva passare, nel locale, la percepivano, almeno in parte. O così sembrava, dalle loro facce. Cattiva aria, pessima aria.
Non c’era mai stato un grande amore tra terrestri e coloni, almeno per quanto aveva studiato lei. Dai tempi della guerra, che aveva separato definitivamente i due gruppi di potere, chi era rimasto sulla Terra si era divertito a dare la colpa agli altri, per tutti i problemi che c’erano. No, non divertito: era più che altro una forma di difesa, di autodifesa. Poteva anche essere un complesso di inferiorità di rigurgito, o qualche altra roba psicologica a lei non molto chiara, ma non era divertimento. Aveva usato il termine sbagliato, per descriverlo.
C’era stata una guerra. Alcuni erano partiti, a colonizzare nuovi pianeti; altri erano rimasti, a tappare le falle e cercare di tenere a galla l’unico pianeta disponibile. Due strade diverse, due strade difficili, due strade che erano costate milioni di morti, prima di riuscire, in un qualche modo. Chi era partito, però, ne aveva ricavato una vita migliore, alla fine. Chi era rimasto, invece, era rimasto soltanto per sopravvivere. Poi c’erano stati i trattati, di recente, tutti erano tornati amici e palle varie. Questo lo aveva studiato a scuola, Kemala. Ciò che non aveva studiato, e che imparava soltanto adesso lì sulla Terra, in diretta, era il punto di vista di chi era rimasto.
Non era un bel punto di vista, soprattutto per una lakshmita come lei.
Dopo la guerra, le cose erano andate sempre peggio, sulla Terra ma loro erano rimasti a lavorare, mentre gli altri erano i topi, fuggiti dalla nave che affondava. Gli altri adesso se la passavano bene, poco ma sicuro. Gli altri non avevano i loro problemi. Gli altri qui, gli altri là, gli altri su, gli altri giù. Gli altri erano i coloni, era lei, erano tutti quelli che avevano lasciato la Terra, prima e dopo la guerra. Ed erano i bersagli della rabbia di chi era rimasto, o anche solo del disprezzo.
Matteo le aveva accennato a qualcosa, in proposito, ma lei non lo aveva preso troppo sul serio. Ok, i coloni non erano molto amati, questo lo poteva capire, e dunque? Per quanto ne aveva capito lei, era una storia vecchia, qualcosa che si trascinava da secoli e che, ormai, era diventata un po’ uno di quei luoghi comuni, come gli abitanti di Varuna che puzzano di pesce, o quelli di Rudra che sono teste quadre. Anche tra coloni ci si prendeva in giro e si insultavano scherzosamente gli altri pianeti, per una qualche caratteristica, vera o falsa che fosse. O anche non così scherzosamente, ok. Da come Matteo l’aveva presentata, aveva immaginato la stessa cosa anche tra la Terra e le colonie.
Non lo era. Le battute non erano scherzose, non sempre: spesso, molto spesso, tendevano invece al rabbioso, rancoroso. Il che non aveva senso, dopo secoli. Aveva un certo senso all’inizio, quando le ferite erano fresche e bisognava attaccarsi a tutto per tirare avanti. Insultare gli altri per sentirsi un poco meglio non era certo molto nobile, ma comprensibile. Rientrava nelle normali forme di difesa psicologica. Ma odiarli ancora dopo più di due secoli, quando ormai non c’era più alcun motivo per farlo? No, questo non aveva senso. Eppure lo facevano.
Eppure Matteo non gliene aveva parlato.
Dovevano essere cambiate molto, le cose, nel suo anno di assenza. O quello, oppure lui non aveva considerato importante citare quel dettaglio. Glielo avrebbe voluto fare presente in un messaggio, per chiedergli magari qualche spiegazione, ma poi non ne fece nulla. Non era così importante. Il suo soggiorno sulla Terra era temporaneo e serviva solo a raggiungere Madre: lanciarsi in approfondite ricerche sociologiche non era affare suo. Se ai terrestri piaceva pensarla così, facessero pure. Per lei c’era solo Madre, Madre e le rovine aliene.
Non potevano finire in un posto peggiore, però, quelle rovine. La prima nuova colonia di un pianeta e di una popolazione che, come passatempo preferito, sembrava coltivare la xenofobia. Era ovvio, adesso, il motivo di tutti quei problemi che gli studiosi di altri pianeti incontravano sempre, quando cercavano di accedere alle rovine. Pass limitati, ammissioni col contagocce, divieti ad accedere a certe aree di scavo: dovevano essere un modo per tenere alla larga gli odiosi “altri” e impedire che potessero rubare ancora qualcosa ai terrestri. Perché già, gli altri erano sempre quelli che rubavano, anche se Kemala non aveva ancora capito cosa e come.
«Pazienza, porta pazienza, porta pazienza,» ripeteva allo specchio, come un mantra. Dallo specchio le rispondeva il volto di una ragazza dalla pelle abbronzata, trucco pesante attorno agli occhi e più di un accenno di borse violacee sotto le palpebre, che parevano non voler sparire. Poteva sembrare una terrestre e infatti lo sembrava: una terrestre che dormiva poco e che si stava divertendo anche di meno. E che aveva perso qualche chilo, ma questo si poteva solo sapere, non vedere. Tutta colpa di ciò che spacciavano per cibo, su quel pianeta. Ma avrebbe resistito, perché fuggire era fallire ed era ormai vicino il tempo del colloquio, presso quel famoso Teatro di Oklahoma.
Il giorno del colloquio giunse per lei nella seconda metà di ottobre, quando era sulla Terra da oltre due mesi e si era adattata alla nuova vita, tanto quanto un pesce abissale si adatta al deserto. Non la vita che avrebbe scelto, neppure come punizione, ma la vita che le toccava, se davvero voleva un posto su Madre. Poteva solo augurarsi che ne fosse valsa la pena. Chissà, magari un giorno sarebbe stato un bel ricordo, il ricordo di un’avventura di successo, una follia di gioventù. Improbabile, ok, ma il tempo tende sempre a migliorare la memoria, ricordando solo ciò che fa comodo ricordare.
Di una cosa, però, era certa: fosse terrestre, sarebbe già in lista per fuggire su una colonia. Non una bella certezza, perché poteva significare una dura concorrenza, per entrare nel Teatro di Oklahoma ed essere scelti. Ma forse, se tutti i terrestri erano mollaccioni e passivi come Matteo... Ci sperava, preparandosi, la mattina del gran giorno.
Un rapido check-up davanti allo specchio, compagno dei suoi soliloqui nel miserabile alloggio che si era trovata, le confermò che tutto era pronto. Poteva sembrare una terrestre. Anzi, sembrava una terrestre, una delle tante che vedeva per strada. Si era anche scelta un nome falso, che le sembrava terrestre a sufficienza. E il resto... beh, lo avrebbe scoperto sul campo. Ma aveva fiducia.
La sua più grande difesa, nonché fonte di quella fiducia, era la convinzione che i controlli di quel Teatro non sarebbero stati poi così rigidi. Non aveva senso che lo fossero, a suo parere. Avrebbero solo voluto sapere qualcosa sugli aspiranti coloni, due domande e via, li avrebbero imbarcati tutti. Le colonizzazioni funzionavano così. Non potevano essere troppo puntigliosi, se volevano davvero popolare tutto il pianeta Serve quantità, non qualità. E poi, diciamolo: ogni coglione spedito ad anni luce di distanza è un coglione in meno che devi sopportare in casa. La filosofia era quella, no?
Lo sperava. L’edificio era nel centro della città e si presentava bene: stile classicheggiante, bandiere di ogni tipo all’ingresso, fiori e decorazioni variopinte sulle pareti, personale gentile ed elegante. Sì, l’inizio era buono. Ma il resto? Seguendo le indicazioni, Kemala salì le scale (scale, non ascensori: è proprio la cara, vecchia Terra!) e si accomodò in una stanza che sembrava la sala di aspetto delle stazioni primitive, ma risistemata con sedili comodi e musica di sottofondo. O ciò che sul pianeta si considerava musica, perlomeno.
C’erano dieci, dodici persone assieme a lei, in gran parte giovani. Stranamente, sedevano in silenzio e fissavano un portone chiuso, su cui era affisso un cartello quasi illeggibile, da dove si trovava lei. Sarà il posto dove fanno il colloquio, pensò. E che i colloqui fossero fatti così, di persona, con sale d’attesa e tutto il resto, era un altro tocco retrogrado, che aveva ormai imparato ad associare alla Terra. O amavano davvero così tanto la tradizione, oppure volevano farsi credere saldi e ancorati al passato, magari custodi dei buoni tempi antichi. O qualcosa del genere: di nuovo, le riflessioni sociologiche e antropologiche non erano al primo posto nel suoi pensieri.
Poi il portone si aprì e ne uscì una ragazza sorridente, con una strana fascia al braccio. Assomigliava alla fascia che aveva la tizia nella stazione orbitale, quella che rispondeva alle domande durante la strana esibizione degli angeli sui trampoli. Subito dopo, un uomo sulla trentina entrò, chiudendo la porta dietro di sé. Kemala respirò a fondo e si rilassò sul sedile, aspettando il proprio turno. Ok, era il posto delle selezioni. Doveva solo aspettare e poi, con un poco di fortuna, anche lei sarebbe uscita sorridente, con una fascia al braccio, se la fascia significava il superamento delle selezioni, come la scena sembrava suggerire.
A due posti da lei, sulla sinistra, notò un ragazzo molto giovane, che per un attimo le sembrò quasi familiare, come se lo avesse già visto da qualche parte. Impossibile, non conosceva nessuno lì sulla Terra e i pochi terrestri che conosceva, tipo Matteo, non si trovavano sulla Terra e avevano almeno l’età per essere studenti universitari, cosa che quel ragazzino non aveva di sicuro. Eppure, avrebbe giurato di conoscerlo. L’avrò incrociato per strada, pensò, o sarà venuto a mangiare dove lavoro. La seconda ipotesi pareva meno probabile, visti i prezzi del locale e l’abbigliamento del ragazzo. Lo seguì con smorto interesse, quando fu il suo turno di entrare, e poi se ne dimenticò.
Ancora cinque e poi toccava a lei. Era il primo, reale passo verso Madre, verso il suo sogno. E non si poteva concedere errori. Doveva superarlo. Kemala Kexin, o Karla Koch come aveva scelto di farsi chiamare nel suo ruolo di terrestre, sarebbe stata ammessa in quel Teatro.
Davide Kori era nervoso, quando si presentò al centro di reclutamento. Zeke gli aveva spiegato che era un passaggio necessario e che doveva essere accettato, se voleva portare avanti il progetto, ed era vero. Avevano parlato a lungo di questo punto, durante il tempo trascorso assieme dopo la morte della mamma, e ogni possibile dubbio era svanito. Il progetto era chiaro, adesso, e lui ne era parte, una parte fondamentale. La parte più avanzata.
Erano due le azioni da portare avanti: una sulla Terra, una altrove. Sulla Terra c’era il progetto, a cui gli altri membri del gruppo si erano dedicati e si stavano dedicando tuttora, sia nella loro cellula, sia nelle altre sparse per il mondo. Davide in realtà non sapeva nulla di queste ipotetiche altre cellule, e neppure la loro effettiva esistenza, ma Zeke diceva così e Zeke aveva sempre avuto ragione, finora: perché avrebbe dovuto mettere in dubbio la sua storia, dunque? Non ne aveva motivo.
Così, negli ultimi mesi, aveva osservato in silenzio e in disparte, un poco annoiato, mentre Amir, Amani, l’odioso Philippe e tutto gli altri lavoravano al progetto. Gli sarebbe piaciuto aiutarli, ma il suo compito era diverso. Così aveva deciso Zeke, il capo, quello che ne sapeva ed era un grande. E il suo compito doveva restare segreto, per adesso. Ne erano nati litigi spiacevoli, con gli altri, che non capivano perché lui non facesse niente, ma anche quello era parte del progetto. Forse. O almeno decise di pensarla così.
Perché il progetto aveva una seconda parte e di quella seconda parte lui sarebbe stato il protagonista unico e indiscusso. La Terra sarebbe stata l’inizio, ma non certo il fine e neppure la fine: ciò che gli Isolazionisti volevano davvero era Madre e lui, lui Davide, sarebbe stata la loro avanguardia. Così aveva spiegato Zeke, una sera, infiammando la sua fantasia. Questo lo aveva aiutato a sopportare, nelle settimane in cui Amir e gli altri lavoravano e lui doveva stare fermo, tra insulti e derisioni.
Era fondamentale che almeno uno di loro arrivasse su Madre, subito, alla prima occasione, e lui, Davide, era il più indicato: giovane, sconosciuto, un poco malmesso nel suo aspetto, poteva passare per il classico modello di pioniere, o colono, cioè quello che lascia la propria casa per sfuggire alla povertà e costruirsi un futuro migliore, sotto altri cieli. Il che, agli occhi di Davide, era in gran parte vero. Una volta arrivato, avrebbe dovuto fare altre cose, che Zeke gli aveva spiegato in dettaglio, ma a questo avrebbe pensato poi. Prima doveva arrivare, appunto.
«Colpiremo tra poco,» gli aveva detto Zeke, «e tu dovrai essere pronto per andare. Le due azioni devono restare il più possibile distinte e separate, per aumentare le probabilità di successo. Tra un mese partirà la prossima spedizione di coloni per Madre e tu dovrai essere sulla nave. Capisci? Tu sarai sulla nave. Tu partirai e noi attaccheremo. E mentre lavoreremo a un cambiamento qui sulla vecchia Terra, tu preparerai la strada là.»
«E tu?» gli aveva chiesto Davide.
«Non ti preoccupare, io so cosa fare. Tu pensa a farti accettare, ai preparativi ci penserò io. Sarai in viaggio sull’ascensore e via nello spazio, prima ancora che si sia sentito il botto.»
Aveva accettato, convinto ma non molto sicuro. Dopo la morte di sua madre, Zeke gli aveva pagato l’affitto dell’appartamento, le bollette e lo aveva ospitato a casa sua per i pasti. Cucinava bene, in effetti, meglio della mamma, e ogni volta parlavano dei progetti. Del Progetto, che aveva la lettera maiuscola nella mente di Davide, quello che avrebbe scosso il mondo. «E li sveglierà, vedrai.»
Zio Zeke. Era la figura più simile a un padre che Davide avesse mai conosciuto. Si fidava di lui ed era disposto a credergli sulla parola, anche quando non era molto convinto di ciò che gli diceva. Ma finora si era sempre dimostrato giusto, quindi perché dubitare? Non dubitava, infatti, ma gli sarebbe piaciuto saperne di più. Invece, ogni discussione si concludeva sempre con un “lascia fare a me”.
Poteva soltanto sperare che tutto andasse davvero bene e non ci fossero problemi, per quelli che si sarebbero messi in azione sulla Terra. Per Zeke, soprattutto. Che gli potesse accadere qualcosa era il suo più grande incubo, al momento. Ma Zeke era grande, era vecchio, e sapeva cavarsela da solo, molto meglio di quanto non sapesse fare Davide. Di questo era certo, in questo doveva sperare.
Adesso, però, era Davide che doveva agire. Finalmente. E agire bene, per ricambiare la fiducia di Zeke. Se si fosse fatto accettare dal Teatro, il Progetto sarebbe entrato nella sua fase conclusiva: poche settimane per gli ultimi aggiustamenti, prima che la nave partisse, e poi... E poi ci avrebbe pensato Zeke, mentre lui viaggiava verso Madre. «Sarai al sicuro, là, e porterai avanti la tua parte.» Sì, conosceva la propria parte e non sarebbe stato difficile portarla avanti, una volta arrivato là. Il problema era arrivarci. Ma Zeke credeva in lui e lui non lo avrebbe deluso.
Quando il portone si aprì e fu il suo turno, Davide Kori diventò Bruno Kitzis, il nome d’arte che gli aveva scelto Zeke, e lucidò l’armatura dei suoi diciassette anni. Era il suo punto di forza: mostrare la sua giovinezza, il suo carico di speranze, e guadagnarsi un posto tra i giovani virgulti della Terra, che andranno a far fiorire il suolo di Madre, e palle varie. Retorica terribile, ma utile nel suo caso. Poteva farcela, recitando un poco. Era o non era lui un sopravvivente? Sorrise, inghiottì la tensione ed entrò. Adesso lo avrebbe scoperto.
La stanza era persino più barocca del resto dell’edificio, nelle sue decorazioni. Colori, musica, luci che disegnavano sulle pareti il cielo di Madre e scorci affascinanti del suo paesaggio: tutto pareva costruito per impressionare, catturare l’occhio e la mente di chi entrava e non lasciarlo più andare. E quasi funzionò, con Davide, perché voleva davvero visitare quel mondo, voleva davvero costruire la nuova società con le proprie mani, voleva davvero fuggire dalla Terra. Era un sentimento che non avrebbe dovuto recitare. Voleva andare su quel mondo lontano.
L’uomo dietro la scrivania doveva averglielo letto in faccia, perché sorrise e si alzò, indicandogli la sedia libera che lo attendeva. «Accomodati, ragazzo,» gli disse. «Vedrai che troveremo il modo di spedirti là, se ci tieni così tanto. Perché ci tieni così tanto, vero?»
Era un uomo di media altezza, paffuto ma non grasso, con un sorriso sereno e pettinatura perfetta, come perfetta era la sua divisa, anche se non era ben chiaro che razza di divisa fosse. Pareva una via di mezzo tra uno sceicco e un funzionario di banca, uno di quelli che trattano con la clientela e la mettono a proprio agio e farla sentire come a casa, se la loro casa è un posto in cui è bene non lasciare portafogli incustoditi. Davide si accomodò, sfoderando il suo migliore sorriso da giovane indifeso. Non un granché, in effetti, ma doveva bastare: non aveva sorrisi di scorta. «Grazie,» disse. «Certo che ci tengo. È il mio sogno, sa.»
«E noi siamo proprio qui per realizzarlo, vedrai!»
Anche l’uomo si sedette, lasciando la scrivania a separarli. Non aveva rughe sul viso, né barba, ma i suoi gesti erano quelli di una persona matura, forse sui cinquanta o forse più vecchia. Volto e occhi, invece, potevano appartenere a un ragazzino. Sorrideva, come se la sua bocca conoscesse soltanto quella postura. Lui sì che di sorrisi di scorta ne aveva, se ancora non si era usurato.
«Mi chiamo Javier Bassi, reclutatore del Teatro di Oklahoma,» si presentò. «O meglio, reclutatore è la parola sbagliata. Diciamo piuttosto... selezionatore, ecco,» concluse, sollevando l’indice destro e allargando il suo sorriso. Sprizzava luce, tanto voleva sembrare felice.
«Sono Bruno Kitzis,» si presentò Davide, «e sono qui per... beh, per la selezione.»
«Ottimo! Abbiamo bisogno di giovani sani e forti come te. Non sai quanto ci sia da fare, su Madre, e i giovani che accettano di abbandonare le comodità di casa, per lanciarsi nell’immensa avventura di colonizzare un intero pianeta, sono così pochi... Ammiro sempre una persona coraggiosa, bravo!»
Davide sorrise, rilassandosi. «Beh, non so se sarò adatto a questo compito. Costruire un mondo, con le mie mani, è sempre stato un mio sogno, sa. Però... beh, so fare poco e non ho molta esperienza.»
Javier Bassi agitò una mano, a disperdere quelle parole. «Esperienza! Ma chi vuoi che abbia tra noi una qualche esperienza su come si costruiscono i mondi, eh? No, no, non è questo che conta, te lo dico io. Noi cerchiamo gente giovane, forte, gente che voglia cambiare le cose, gente che sia pronta a mettersi in gioco, e tu sei tra questi, giusto? Allora hai tutto ciò che serve, credimi!»
«Beh, io non ho neanche finito le scuole, sa, e magari per questo non mi accetterete. Non so come siano le selezioni, però...» Davide abbassò lo sguardo, timido. Perché Bruno Kitzis era timido, era un ragazzo insicuro, e adesso lui era Bruno Kitzis. Era la parte che doveva recitare. Era anche la parte che non stava recitando, il che funzionava ancora meglio. Perché quell’ambiente lo metteva davvero a disagio, lo schiacciava con la sua pacchianeria funambolica.
«Oh, non ti preoccupare di questi dettagli: qui accettiamo tutti. O quasi, certo, qualche eccezione c’è, ma non per un diploma in più o in meno. No, non ti servirebbe a niente, su Madre. È solo un pezzo di carta, lassù, e vale come ogni altro pezzo di carta.»
«Ah, davvero? Pensavo ci fosse una qualche selezione, insomma, non so, per decidere chi accettare, e io avevo paura di non essere all’altezza, sa...»
«Oh, una selezione c'è, in effetti, ma non per quello. Serve a suddividere i candidati a seconda delle competenze. Li prendiamo tutti, ma li prendiamo con ordine. Ognuno deve essere posto nelle giuste condizioni, per poter utilizzare al meglio le proprie capacità,» annunciò Javier Bassi.
Davide lo guardò a occhi sbarrati, la bocca un poco aperta. «Ma... funziona davvero così? C'è posto per tutti? Davvero? Anche se, beh, di capacità ne hai poche?»
Javier Bassi si protese in avanti, puntandogli contro un dito. Sembrava la parodia di quegli antichi manifesti americani, quelli col tizio vecchio e vestito da scemo, che punta il dito contro di te, perché ti vuole. E come si chiamava poi? Zio Tom? Zio Sam? Zio Cam? Qualcosa del genere.
«Tu non sai come si colonizza un pianeta, vero?»
«No, certo che no, ma...»
L’uomo sorrideva bonario. «Allora lascia che te lo spieghi io. In due parole, eh, niente di lungo, per chiarirti le idee e tranquillizzarti un poco. Tu pensi che vogliamo solo gente in gamba, gente che ha studiato e che se la sa cavare, giusto? Scienziati, premi Nobel e tutti quelli lì, i genî, veri o presunti, vero? Gente importante, i migliori al mondo, insomma. La crème de la crème, eh?»
Davide piegò la bocca. «Beh, non solo loro, certo, però... sì. Prima quelli che sanno fare qualcosa.»
Il sorriso di Javier si distese, fino a comprendere tutto il viso giovanile. «Prima quelli bravi, quelli che sanno progettare, costruire, quelli che inventano cose nuove... Per aprire la strada e preparare il campo agli altri, alla gente comune, vero? Preparare il terreno alla gente come noi, come me e te.»
«Beh... sì.»
Bam! Javier Bassi sbatté con forza il palmo della mano destra sulla scrivania.«Sono tutte cazzate!» esplose, alzando di colpo la voce. «L'uomo non avrebbe conquistato neppure un mondo, facendo così. Neanche il più piccolo e più semplice dei pianeti. Queste storie vanno bene per gli asteroidi, per i satelliti, le stazioni orbitali e tutta quella paccottiglia terrestre, che abbiamo sparpagliato nel sistema solare. Ma qui si parla di un pianeta. Un intero pianeta, più grande della Terra. Cosa credi di fare con quei quattro gatti di scienziati, eh? Cosa speri di concludere? Con quei quattro cocchi di mamma, quei bamboccioni che non sanno neppure lavarsi le mutande da soli, eh? Li vuoi spedire là nel niente, gente che non distingue un panino da una pietra? Cosa speri di concludere con quella gente, eh? Cosa speri di costruire con quegli scaldapoltrone a ufo?»
Davide arretrò un poco sulla sedia, sorpreso dalla reazione. Javier non se ne accorse, impegnato con la sua filippica contro tutto e tutti. «Un bel niente, te lo dico io,» continuò. «Non concluderesti un bel niente, con quei tizi. Qui non ci servono i fighetti che stanno in laboratorio col camice bianco, a giocherellare con le provette e i topolini. Qui ci serve gente vera, gente che vada nei campi, gente che sappia lavorare davvero. Gente che si rimbocchi le maniche, per costruire case, strade, ogni cosa. Gente che non abbia paura di prendere freddo o di scottarsi un po', all'aperto. Gente che non si spaventa per qualche callo sulle mani. Qui ci serve gente vera, solida, e ce ne servono valanghe. Ce ne servono milioni e milioni! Capisci? Abbiamo un intero pianeta da riempire, ragazzo!» Le sue braccia si allargarono, ad abbracciare la vastità che invocava a parole.
Davide lo osservava stupito. «Quindi c’è posto per tutti?»
«Per tutti e ancora di più. Da quando lavoro qui, non ho ancora scartato una sola persona. Ci pensa poi Madre a selezionarli davvero, a far scappare i conigli e gli incapaci. Noi siamo qui per dare una possibilità a tutti, perché crediamo nel progresso dell’umanità. Tutta l’umanità. Nessuno è inutile, per noi. Nessuno sarà lasciato indietro. Mai!»
Javier si rilassò di nuovo sulla sedia, rosso in volto e con un sottile strato di sudore sulla fronte. Il suo viso era quello di una persona soddisfatta e forse lo era davvero. Aveva dato il suo spettacolo e impressionato un novellino. Adesso lo avrebbe arruolato e il gioco era fatto. A Davide andava bene, benissimo. Nessuna domanda, nessun test, soltanto una predica e una pacca sulla spalla. E le porte della galassia si sarebbero aperte per lui, come già si erano aperte per suo fratello Matteo, più di un anno prima. Sto arrivando, pensò, e farò molta più strada di te.
Quando uscì dalla stanza, Davide Kori era il nuovo colono Bruno Kitzis. In tasca aveva il biglietto per Madre, in volto un sorriso tranquillo, al braccio una fascia. Il Progetto poteva procedere, adesso. Zeke si era fidato di lui e lui lo aveva ricambiato, completando la propria parte di lavoro. Non che ci fosse poi stato un gran lavoro da fare, in effetti, ma lo aveva completato con successo e questo era tutto ciò che contava, per adesso.
Il resto era ancora da giocare e lui avrebbe giocato da protagonista. Nello spazio, su Madre.