La galassia di Madre - 26
Il grande progetto delle nuove cellule isolazioniste, per quanto ne sapeva Davide Kori, prevedeva una serie di attentati in simultanea, all’inizio di dicembre. Perché quegli attentati? Perché proprio in quel periodo? Cosa sarebbe successo dopo? Zeke Boodie non glielo aveva mai voluto spiegare. «È una questione che non ti deve interessare,» gli aveva sempre risposto, nei mesi successivi alla morte della mamma. «Tu sarai altrove, conosci il tuo ruolo. Alla Terra penseremo noi che resteremo qui; tu ti occuperai di Madre. Concentrati sul tuo ruolo e non distrarti con altri pensieri.»
Il che era corretto, da un certo punto di vista, ma Davide non poteva negare che avrebbe desiderato sapere qualcosa di più su ciò che sarebbe successo ai suoi amici. O conoscenti. Persone con cui si era trovato in contatto, ecco. Definire amico quell’idiota di Philippe Zarakis sarebbe stato eccessivo, ma Amir lo era, senza dubbio, e gli altri del gruppo erano pur sempre persone con cui aveva speso la maggior parte del tempo, nell’ultimo anno. Un poco di preoccupazione era legittima, no? Specie se si considerava l’inettitudine generale di quella gente. Ma Zeke non aveva parlato.
«Qui ci pensiamo noi, vai tranquillo,» ripeteva sempre. «Il tuo compito è quello di diventare la nostra avanguardia su Madre. È un ruolo molto importante, lo sai, e posso fidarmi soltanto di te, perché sai esattamente cosa voglio. Gli altri sono più che sufficienti, per occuparsi della Terra. Capisci?»
Capiva, ma non era molto felice. Non del tutto, almeno. Fino alla morte della mamma, in luglio, lui aveva collaborato col resto del gruppo, per preparare il grande progetto. Poi le cose erano cambiate, Zeke lo aveva praticamente adottato e lui aveva smesso di lavorare al grande progetto. Non avrebbe neppure visto i risultati del grande progetto. Non avrebbe saputo niente di tutta quella storia, almeno non fino a che qualche notizia fosse arrivata anche su Madre, il che poteva significare tra qualche mese, un anno, o anche mai, nel peggiore dei casi.
Non era molto felice, ma obbediva. Perché gli dispiaceva abbandonare tutto, proprio adesso che una qualche conclusione era vicina, ma da un altro punto di vista ne era contento. Davide voleva andare su Madre. Voleva abbandonare la Terra, liberarsi di quel vecchio mondo, vecchio e ammuffito, dove non sembrava esserci posto per lui. Lo aveva voluto fin da quando Matteo era partito, anche se solo negli ultimi mesi il desiderio era diventato forte a sufficienza. Prima era un vago sogno per il futuro, un pensiero, ma dopo la morte della mamma era diventato una realtà, concreta o quasi.
Perché Ercole Cori, quel padre che non aveva mai conosciuto, era stato su Madre. Aveva vissuto le proprie avventure su Madre. Così gli aveva raccontato Zeke, in ospedale, e quella storia aveva dato un certo senso di predestinazione a tutto, no? Prima il padre, poi il figlio. Il padre come soldato e il figlio come rivoluzionario. O presunto tale, almeno da se stesso. Aveva senso, no? Era un cerchio che si chiudeva, o qualcosa del genere. Eppure, lasciare tutto non era facile, anche se il tutto erano solo un amico e una manciata di conoscenti. E il pianeta su cui vivevano.
Ma era partito, il quattro di dicembre. Conosceva il viaggio, conosceva tutto sul viaggio, per averlo già fatto una volta, quando aveva accompagnato Matteo all’ascensore. Adesso era solo, non aveva attorno ragazzi più grandi con cui ridere e scherzare, ma soltanto una valigia con le sue poche cose, le poche che Zeke gli aveva detto di portare. «Il minimo e non di più,» era stato l’avviso. «Sei un colono, non un turista, e viaggerai col Teatro. Provvederanno loro a fornirti tutto ciò che ti servirà, a destinazione. Sono molto efficienti in queste cose, sai. Lo hanno imparato dagli Altri.»
Ottimo, perché Davide non è che avesse molto da portare, in ogni caso. Soprattutto, niente che gli potesse servire come colono, a parte i vestiti. E cosa sarebbe servito, a un colono? Vanghe? Zappe? Un carro con le provviste? Le poche idee che aveva erano storie vecchie, di quel vecchiume che a Matteo piaceva tanto, e non credeva che si potessero adattare a coloni spaziali. Non sapeva neppure come fosse fatto un colono spaziale, se proprio si voleva scendere nei dettagli. Eppure lo stava per diventare. Pazzesco. Ma vero.
Ne aveva discusso con Zeke, ovviamente, ma Zeke si era tenuto sul vago. Si teneva sempre sul vago, quando si discuteva di questioni pratiche e non ideologiche. Il che era curioso, ma non troppo. Non era l’aspetto più curioso di Zeke, quantomeno. Da quando la mamma era morta e Zeke aveva deciso di proteggerlo e mantenerlo. Davide aveva speso quasi tutto il proprio tempo con Zeke: pranzo, cena e le ore intermedie. Che erano tante, così come era tanto il tempo libero, adesso che aveva mollato la scuola. Aveva sempre il capo davanti, o di fianco, o comunque attorno. Così aveva potuto notare tutte quelle stranezze, o quelle che a lui sembravano stranezze.
Zeke era sempre libero e disponibile, a qualunque ora di qualunque giorno. Lavorava? Davide non lo sapeva e non lo aveva mai chiesto. Non riusciva neppure a immaginare che razza di lavoro un uomo come Zeke avrebbe potuto svolgere. Ma soldi ne aveva, questo sì, per cui qualche fonte di reddito ci doveva essere, no? Una fonte di cui un ragazzo come Davide avrebbe fatto meglio a non conoscere i dettagli, con tutta probabilità. O così sospettava. E la sua casa... beh, era un luogo in cui ripararsi e spendere il tempo, ma non proprio in cui vivere. Più simile a un guscio, che ha una casa.
Aveva un passato, Zeke? Aveva amici, parenti, qualcosa? Forse sì, probabilmente sì, ma nella sua casa non se ne vedevano tracce. Ed era una bella casa, in linea di massima, un appartamento non di lusso, ma ben tenuto, ben arredato, caldo e confortevole. Ma vuoto. Un appartamento con tutta la personalità di una suite d’albergo. A Davide sarebbe davvero piaciuto fare qualche domanda e già che c’era, ottenere qualche risposta, nei mesi che avevano speso assieme. Ma non aveva osato. Non aveva osato fare domande personali al capo, che sosteneva di essere stato amico di suo padre e che adesso viveva in una casa senza personalità, senza passato.
Ma tutti quei dubbi e le domande potevano solo svanire, ormai, dissolvendosi nei chilometri, mentre viaggiava verso la sua meta, l’ascensore. Il Teatro di Oklahoma gli aveva fornito un biglietto, la fascetta da indossare al braccio, come segno di riconoscimento, e gli aveva indicato orari e punto di imbarco. Il resto lo avrebbe scoperto a destinazione, o forse non lo avrebbe scoperto mai. Non aveva importanza. Non gli interessavano i particolari tecnici sul viaggio e altro: gli interessava Madre, quel pianeta di cui la pubblicità parlava in continuazione, magnificandolo come il nuovo Eden, e che quindi doveva essere un bidone, come tutti gli altri prodigi cantati dalla pubblicità.
Ma forse no. Forse non lo era. Non un paradiso, di certo, ma neppure un bidone. Se non altro, era il posto in cui suo padre era stato, anni prima. Un posto su cui una qualche strana creatura, un insetto o qualcosa del genere, era sbucata da un pozzo gigantesco e lo aveva punto sul collo, secondo Zeke. Ma nessuna pubblicità aveva parlato di pozzi giganteschi, su Madre. Non aveva mai sentito parlare di pozzi giganteschi su Madre, né a scuola né altrove.
Poco male, pensò. Se c’erano, li avrebbe visti. Magari li avrebbe anche cercati, se ne avesse avuto il tempo: era praticamente sicuro che lo avrebbero fatto lavorare, come colono, e quasi sicuro che gli avrebbero rifilato un qualche lavoro pesante, ma un poco di tempo libero lo avrebbe pure avuto, no? Di tanto in tanto, almeno. E nel tempo libero, magari, avrebbe pensato anche ai pozzi. Perché era curioso. Doveva pur esserci un motivo, se nessuno ne parlava. Giusto?
Così, mentre il tepore del viaggio lo cullava verso l’ascensore e quel futuro che lo attendeva oltre la Terra, Davide si addormentò sorridendo, con un pensiero al futuro e nessuno al passato.
Lo stesso quattro dicembre, mentre Davide cominciava il viaggio verso l’ascensore e lontano dalla regione mediterranea, Amir Cavalli era pensieroso. Uno stato decisamente insolito, per lui, ma c’era un momento in cui neppure Amir poteva astenersi dal riflettere, almeno a grandi linee. Il momento in cui il suo migliore amico partiva per lo spazio, mentre lui si preparava a un attentato.
Si erano salutati due giorni prima, dopodiché non avevano più potuto avere contatti. Ordini del capo e gli ordini del capo dovevano sempre essere eseguiti, belli o brutti che fossero. Si erano salutati, poi Amir era sparito e sarebbe rimasto sparito fino al momento dello scoppio. «La clandestinità è il nostro migliore alleato,» aveva detto il capo, e il capo aveva ragione, sempre. Il compito di Amir era importante, molto importante, e non poteva rischiare. Così aveva salutato l’amico e poi era sparito,
«Te ne vai per primo nello spazio, eh?» aveva detto quel mattino a Davide, con una pacca sulla spalla e un sorriso un po’ storto. «Spero che poi ti raggiungerò. Deve essere bello, quel posto.»
«Avrete da fare anche qui, voi...» aveva risposto Davide, tutto serio e un poco costipato, a giudicare dalla faccia.
«Eh, già, l’attacco e tutto. Ma Zeke dice che andrà bene e Zeke ne sa, non mi preoccupo. Poi il mio gruppo è con Masser, ci guida lui. Anche di lui mi fido, è uno sicuro. Faremo proprio un bel botto, vedrai! Ah, no,» si era corretto, accorgendosi che l’entusiasmo aveva avuto la meglio sul pensiero, come spesso capitava, «non lo vedrai, perché sarai...» E aveva mimato un aereo che parte, con un fischio sottile come sottofondo. «Cioè, non so se è proprio così, ma ci siamo capiti, no?»
Davide aveva sorriso e annuito. «Ci siamo capiti. Io farò la mia parte e voi farete la vostra, e poi ci ritroveremo tutti là, su Madre. Così dice Zeke. Dobbiamo impedire che gli Altri si prendano anche la nostra colonia, per questo devo partire. Lo sai anche tu, no? Mi piacerebbe restare qui, dove c’è qualcosa da fare, però...»
«Però ti tocca. Ma non ti preoccupare, poi arriviamo anche noi. Tu tienici caldo il posto, già che sei lì, se no poi vedi cosa ti facciamo!» Avevano concluso ridendo. Questa è la scena che voleva dare a Davide, come regalo di addio da portarsi su Madre: avevano concluso ridendo.
Era stato un bel saluto? Uno epico, come nei film? Non lo sapeva e non lo credeva, ma era stato il suo saluto ed era andato piuttosto bene, tutto sommato. I problemi erano arrivati dopo. Quella sera, per cominciare, quando era andato a sistemare l’esplosivo nel palazzo del governo regionale, a Roma, e c’era dovuto andare da solo.
Arrivarci era stato un viaggio veloce, ma non facile. Li seguivano, diceva il capo, ed erano tutti sorvegliati, per cui dovevano essere cauti, cauti e ancora cauti. E lui, era stato cauto? Forse sì, visto che la bomba era al suo posto, adesso, e nessuno lo aveva fermato, eppure... Eppure il dubbio c’era. Si era dimostrato all’altezza della fiducia di Zeke? Forse solo il botto glielo avrebbe detto.
La notte di giovedì due dicembre, notte nuvolosa e un poco fosca, Amir aveva nascosto la piccola carica di esplosivo in una tasca della giacca, aveva attraversato il centro della città, cercando il più possibile di mantenersi in ombra nelle strade più buie e deserte, e infine aveva raggiunto il palazzo del governo. Non c’era nessuno a quell’ora, né dentro né fuori, e questo era un bene. Zeke gli aveva detto che sarebbe stato così, e lui gli credeva, ma vedere era molto meglio di credere. Quando vedi, non hai bisogno di credere, perché è lì davanti a te. E il palazzo lo era stato.
«Ci sono solo aggeggi elettronici a sorvegliarlo. A quelli ci pensiamo noi, tu vai tranquillo e fai il tuo lavoro.» Queste le parole del capo. Amir era andato tranquillo e aveva fatto il proprio lavoro. La notte era buia, il luogo deserto e lui era solo. Ma c’era riuscito.
Aveva aspettato nell’ombra che due passanti abbandonassero la piazza, aveva aspettato ancora un poco fino a che non erano sparite anche le loro voci, ci aveva pensato, ci aveva ripensato, si era masticato le unghie, aveva accarezzato la superficie liscia e fredda della bomba, si era quasi deciso ad abbandonare tutto e tornare a casa, colto da un improvviso attacco di fifa, quando l’immagine di Zeke lo aveva raggiunto. Il capo, che aveva avuto fiducia in lui, che gli aveva assegnato un incarico così delicato. Zeke che aveva avuto fiducia in lui. Il capo. In lui.
La fiducia degli altri era sempre stata merce rara, per Amir. Neppure in famiglia ne aveva trovata molta, neppure sua madre sembrava fidarsi di lui. Eppure il capo lo aveva fatto. Zeke si era fidato e gli aveva assegnato un compito importante, per il gruppo e per la Terra. Non lo avrebbe tradito.
Così Amir era strisciato verso la centralina elettrica nello scantinato del palazzo, attraverso la porta secondaria che qualcuno, accidentalmente, aveva dimenticato di bloccare. Qualcuno di loro, ovvio, un membro della cellula romana. Accidentalmente dimenticato, eh? Haha, bella questa. Erano un buon gruppo, erano un ottimo gruppo. Sincronizzati, fidati, coordinati, e altre cose in -ati che non si era ricordato, non in quel momento. Ma la porta era aperta e lui era entrato.
Aveva sistemato la bomba nel punto indicato da Zeke, il punto in cui avrebbe causato il massimo danno. «Scoppierà di domenica, non ci sarà quasi nessuno lì dentro. Quasi nessun lavoratore,» gli aveva spiegato il capo, con un sorriso tranquillo. Amir non era del tutto sicuro che fosse una buona idea mettere una bomba nel palazzo, dove in tanti lavoravano: gente comune, come sarebbero potuti essere i suoi genitori, o suo fratello. Colpire il governo? Sì, ottimo, ma colpire le persone...
«È un atto dimostrativo, come ho detto, e servirà soprattutto a creare confusione e causare il panico. Nessuno si farà male, almeno tra le persone comuni.» Amir gli aveva creduto. Era il capo, no? Chi meglio di lui poteva saperlo? Così aveva concluso il proprio incarico, quella notte, e si era sentito in pace, mentre si nascondeva in attesa degli altri. Sarebbero arrivati, certo. Domenica era il giorno della loro grande azione, il giorno in cui il progetto si sarebbe compiuto, e tutti sarebbero arrivati. Gli bastava solo tenere la testa bassa e aspettare, ormai.
Giovedì due dicembre aveva sistemato la bomba, ben nascosta. Sabato quattro dicembre Davide era partito. Il giorno seguente, domenica cinque, il piano sarebbe scattato. Tutto chiaro, tutto preciso, tutto lineare. Eppure, quel sabato, Amir non si sentiva tranquillo. C’era qualcosa di sbagliato. Non avrebbe saputo dire cosa, ma questo era normale: Amir non avrebbe neppure saputo dire cosa aveva mangiato a colazione, se glielo chiedevano a metà pomeriggio. Però c’era qualcosa di sbagliato. E lui lo sapeva. Lo sentiva. In un qualche modo, almeno.
«Ti stai impressionando da solo,» disse Amani Casal. «Abbiamo fatto tutti la nostra parte, no? Pure domani andrà tutto bene.»
Gli altri erano arrivati, adesso, e si erano uniti alla cellula locale. Erano tanti. Beh, non proprio così tanti, ok, ma da un certo punto di vista lo erano. Più di uno scantinato, almeno, e infatti si erano già divisi, in base ai gruppi che Zeke aveva stabilito. Amani era nel suo stesso gruppo, per fortuna, e c’era anche Masser, il che era una fortuna ancora più grande. Ma anche Philippe ci sarebbe dovuto essere, nel gruppo, e invece non c’era. Non si era proprio visto.
«Gli sarà successo qualcosa,» aveva commentato Amani, e persino Amir sapeva che non era proprio un buon inizio, quando a uno dei tuoi succedeva qualcosa ancora prima che ci fosse qualcosa da far succedere. Quando uno non si presentava neppure alla riunione, la notte prima di una operazione, il qualcosa che era successo doveva essere stato veramente grave, no?
Non un bell’inizio, già, ma poteva almeno sperare che sarebbe continuato meglio. Poteva almeno illudersi, nel peggiore dei casi. Poi, mentre attendevano in una notte insonne e in una stanza dove a regnare era la tranquillità del nevrotico, ecco altre notizie. Brutte notizie. Pessime notizie. Ma voci, questo andava detto. Solo voci, voci incontrollate, voci non confermate. Voci che avevano unghie e le strisciavano sul nero ruvido di una lavagna.
«È una retata!» «Il governo!» «La polizia!» «I servizi segreti!» «Le stanno colpendo tutte, una dopo l’altra!» «Quando toccherà a noi?» «Quando arriveranno qui?»
Quando arriveranno qui? Era l’ultima domanda, cui aveva risposto soltanto il silenzio. E il silenzio regnava ancora. Si guardavano in faccia, lì nel rifugio, e nessuno parlava, nessuno sapeva cosa dire, come parlare, cosa fare. Fu Masser a farlo, alla fine, la faccia scura tinta di grigio, nella penombra della stanza e dei dubbi. Si schiarì la gola, a disagio, e si lisciò la manica destra della camicia, con una mano quasi stabile. Dovevi fissarla bene, per notare il tremito.
«Queste notizie non hanno ancora avuto una conferma ufficiale, è bene precisarlo. Ve lo dico subito, così ci togliamo il pensiero. Prendetele come sono, fino a che Zeke non saprà dirci di più: attendo il suo messaggio,» aggiunse, come se fosse davvero necessario specificare. Attendevano tutto il suo messaggio, o un qualunque segno della sua presenza. Zeke Boodie non era lì, non era nel rifugio col loro gruppo, ma in un altro, assieme al capo della cellula locale. Se solo ci fosse stato lui...
«A quanto dicono le altre squadre, pare che sia scattata una retata, a mezzanotte. Una retata nella nostra zona, la mediterranea. Non sappiamo in Nordamerica, ma è probabile che anche loro abbiano problemi, se queste voci sono vere. A ogni modo, pare che abbiano cominciato a fare irruzione nei nascondigli delle varie cellule. Uno dopo l’altro, arrestando tutti gli occupanti.»
«Ma come facevano a conoscere i nascondigli?» chiese Amani, con più di un tremito nella voce.
«Alcuni dicono che ci fossero spie, infiltrati,» rispose Masser. «Non ne sappiamo molto. È possibile che siano solo voci e che non sia successo niente, ricordiamo. È facile che siano solo voci. È strano che abbiano agito con tanta precisione e proprio adesso, no? Che ci stessero osservando è probabile, per Zeke era sicuro fin dall’inizio, ma questo modo di agire sarebbe parecchio strano. Non è così che si comporta Leonardi, almeno, e secondo Zeke il nostro nemico è lui.»
«Però è possibile,» disse Amani.
«Possibile, sì, ma strano. Attendiamo conferme, a ogni modo, e non facciamoci prendere dal panico. Non ne vale la pena. Non possiamo permettercelo. Abbiamo un compito molto importante e noi lo dobbiamo svolgere. Su questo no ci sono dubbi, non ci sono se, ma o forse.»
«Ma se arrivano anche qui, cosa dobbiamo fare?» chiese Amir. La sua sensazione di sbagliato era molto più precisa, in quel momento: quasi una certezza. Ed era quasi una certezza che tutto aveva cominciato ad andare male, da quando Davide li aveva lasciati. Aveva un compito da svolgere, lo sapeva bene, però... però sarebbe andato tutto bene, se ci fosse stato anche lui. Lo sentiva. «Cosa facciamo, se arrivano anche qui?» ripeté.
«Non arriveranno anche qui, perché non ci sarà un qui,» rispose una voce dalla porta. La voce di Zeke, la voce del capo. La voce della sicurezza. Tutti si girarono.
Era lui, Zeke. Sulla soglia della porta, in una penombra molto più ombra che pen, il capo osservava con la sua solita calma, appena turbata da una riga sulla fronte, una increspatura su quei lineamenti così strani e anomali della sua faccia. L’atmosfera nel rifugio si capovolse.
«È vero, è in corso una retata. Non è il modus operandi di Leonardi e questo mi ha sorpreso, ma è così: stanno arrestando gli esponenti di tutte le nostre cellule, sia qui che in Nordamerica. Proprio adesso mi stavo consultando col capo di qui, dopo aver avuto una conferma della notizia. Abbiamo deciso il piano di azione e adesso lo comunicheremo a tutte le squadre. Voi siete i primi,» aggiunse con un sorriso, che voleva essere incoraggiante e ci riuscì in pieno.
«Quindi?» chiese Masser.
«Quindi ci disperdiamo. Non vogliamo fare la fine dei tonni, che è esattamente ciò che succederà, se stiamo tutti nello stesso posto o nei posti programmati. Se manteniamo la calma e agiamo con ordine, ci saremo finché servirà. Ma se perdiamo la testa e lasciamo spazio al panico, saremo presi prima dell’alba. Perché questa è una certezza: ci stanno arrestando tutti, per cui è solo una questione di tempo prima di essere presi. Se restiamo qui.»
«E se non restiamo qui?» chiese Amani.
«Se non restiamo qui, potremo ancora realizzare il nostro programma. Non tutto, purtroppo, non le parti che sarebbero toccate agli altri, ma la nostra parte sì, quella la possiamo ancora fare. Agendo col calma e lucidità, possiamo ancora. Dovremo abbandonare tutti i luoghi che conosciamo, perché è ovvio che li conoscono anche loro, a questo punto. Dovremo trovarne degli altri. Posti qualunque, non è importante che siano buoni rifugi, o a lungo termine: basta che siano rifugi, perché dureranno poco. Dureranno soltanto stanotte. Alle sei, la nostra operazione partirà come previsto, in ogni caso. Anche se resterà soltanto uno di noi, la nostra operazione partirà. Deve partire. Capito?»
«Partirà, non ti preoccupare. Partirà,» rispose Masser, sorridendo. «Sono bravi ragazzi, sanno cosa devono fare. Non ti deluderanno, vedrai: garantisco io per loro.»
E i bravi ragazzi annuirono: non lo avrebbero deluso. Poi, dopo che Zeke ebbe finito di parlare e si fu allontanato per raggiungere le altre squadre ancora da avvisare, i bravi ragazzi abbandonarono il rifugio, separatamente, e sempre separati si dispersero per le strade buie della città. C’era una notte da far passare, una notte di inizio dicembre, misericordiosamente senza pioggia ma lunga lo stesso e piena di nulla. Appuntamento alle sei, nella piazza del mercato, come da programma. E poi la loro attesa avrebbe portato a qualcosa. Su questo non c’erano dubbi.
La notte era passata, lunga come ogni notte quando si attende qualcosa; il giorno del progetto era arrivato; il progetto era cominciato, o almeno quello che del progetto rimaneva, dopo che le retate delle ultime ore avevano cancellato quasi ogni cellula degli Isolazionisti; almeno una bomba era scoppiata ugualmente, retata o meno; Amir Cavalli correva.
Non sapeva dove fuggire, non sapeva come fuggire, quasi non ricordava neppure perché dovesse fuggire, ma fuggiva. La fuga era tutto ciò che sapeva e la fuga era tutto ciò che contava: fuggire. E il pensiero razionale? Poteva ritirare il numerino e attendere in fila, grazie mille. La strada grigia scorreva sotto i suoi piedi, mentre le gambe macinavano metri su metri, nel tonfo prima leggero, poi più pesante delle suole di gomma, che rimbalzavano sull’asfalto. Era asfalto, lì? Amir non lo sapeva e non gli interessava. Doveva lanciare avanti una gamba, poi l’altra, poi di nuovo la prima, poi la seconda e così via, nei secoli dei secoli amen. Il resto non esisteva. Doveva fuggire.
Dietro, da qualche parte troppo vicina, sentiva crescere il suono di un motore, ronzio dell’ape più grande del mondo, che arrivava a pungerlo. E facevano male, quelle punture, molto male. Amir non guardò, ma si scagliò di lato, in una strada più stretta. Un vicolo? Un vicolo, sì, ok, quello che vuoi.
Qualcosa era a terra, una sagoma confusa. Amir la scavalcò volando, quasi inciampò, poi riprese la corsa, più dritta, più sicura, più libera. Più stanca. In gola aveva una valvola, che bruciava, che si stringeva. C’era sempre stata? O era spuntata negli ultimi minuti, ultimi secondi, ultimi battiti del cuore? Non importa, continua a correre. L’aria passava a fatica, e bruciava, ma passava. Per adesso. Ancora il ronzio, più forte. Voci di uomini. Dietro? Dietro, sì, ma non solo. Davanti, anche.
Amir alzò gli occhi, cercò di mettere a fuoco. Difficile, con quei puntini e quelle luci: guardava in una foschia brillante, fatta di fatica, ma guardava. E vedeva. Erano davanti, sì. Un veicolo (auto? O camionetta?) era fermo là, tappava la strada, e uomini scendevano. Uomini con un fucile in mano e un elmo in testa. Uomini come quelli dietro. Erano anche davanti, adesso. Lo avevano preso.
Le gambe rallentavano, stanche. Le sentiva girare a vuoto, perdere convinzione, fiducia in sé e in un futuro luminoso. Le luci c’erano, ma il futuro no. C’erano gli uomini col fucile. Gli occhi erano pieni di sudore, che bruciava, come l’aria in gola. Sudava in dicembre? Sudava in dicembre. Guardò da un lato, dall’altro, ma niente uscite, niente passaggi. Solo file continue di edifici, tutti uguali, le porte d’ingresso sbarrate, pesanti, metalliche. Tappato. Imbottigliato. Inscatolato. Era finita?
I soldati davanti a lui alzarono i fucili, con un movimento elegante, sincronizzato, come una squadra di nuotatrici. Puntavano verso di lui. Il ronzio alle sue spalle si era fermato, altri passi lo avevano sostituito. Passi di anfibi, come quelli che indossavano gli uomini davanti. Arrivavano, da un lato e dall’altro. Era finita?
Sì, era finita. L’inerzia delle gambe lo spinse avanti per qualche metro, poi Amir crollò ansimando, boccheggiando, trota che un pescatore ha gettato sulla sponda del fiume, a soffocare e morire in un mondo alieno, fatto di aria. L’ultimo pesce, quello che aveva cercato di fuggire. Haha, ottimista. Gli altri li avevano già presi, in un modo o nell’altro. Con questo, il lavoro era finito.
Lo sollevarono di peso, per le braccia. Boccheggiava ancora, le gambe non reggevano, ma non era un problema, non per loro. C’erano mani a volontà, addosso a lui, mani che perquisivano, mani che strattonavano, mani che lo tenevano e mani infine che lo scagliarono dentro qualcosa di duro, di solido, un poco freddo. Un’auto? Amir schiuse un occhio. No, la camionetta, il furgone, quello che era. Piedi accanto alla sua testa, gente seduta attorno a lui. Non lo toccavano, non adesso, ma lo circondavano. Era finita.
Ci avevano provato e ci erano riusciti. Più o meno. Per un dato valore di riuscita. Nella piazza del mercato, al raduno, c’erano ancora tutti, almeno quelli della sua squadra. Philippe no, ma Philippe non c’era stato neppure prima. Sparito da qualche parte, forse preso. Probabilmente già preso. E per loro quando sarebbero arrivati? Se lo chiedeva Amani, se lo chiedeva lui stesso, se lo chiedeva forse anche Masser, dietro una faccia sicura, che mai come in quel momento era sembrata finta. Ma erano lì, loro, e avrebbero agito. Perché se si fossero ritirati adesso, se avessero mollato tutti, che senso avrebbe avuto ogni altra cosa? Che senso avrebbero avuto tutti gli arresti?
Così avevano seguito Masser, verso la centrale elettrica, il loro obiettivo. Masser, che era alto e bello. Masser, che sembrava sapere tutto. Masser, il loro ultimo stendardo. Era come seguire un dio in battaglia e in battaglia li aveva condotti. Dietro l’edificio, poi oltre il reticolato, a correre verso la porticina, quella che chiudeva l’accesso ala scala secondaria. Il percorso lo conoscevano tutti, come tutti avevano studiato la mappa, quando ancora stavano preparando l’azione. Adesso si trattava solo di scoprire se potevano ancora passare, se la strada era libera come nel progetto. Lo era.
La bomba andava laggiù, la bomba che Masser aveva custodito durante la notte e che gli aveva poi affidato, in vista della centrale. Era lui, lui Amir, che l’avrebbe dovuta piazzare, mentre gli altri gli coprivano le spalle. E poi via, di corsa, verso la libertà. Era il progetto, il progetto di Zeke. Quello stesso progetto che adesso sembrava lontano, remoto, irrealizzabile. Ma non lo era. Non era ancora irrealizzabile, perché loro lo avevano realizzato. Avevano svolto la propria parte.
Una volta, quando avevano studiato il percorso in cantina, tutti assieme, c’era stato tutto il tempo per proporre strategie, discuterle, respingerle. C’era stato il tempo per pensare alla furtività, al modo migliore per entrare e non farsi sorprendere. Per studiare l’uscita? Per studiare l’uscita, anche, certo. Perché sarebbero usciti, non ne dubitavano. Non aveva senso dubitarne, non avevano motivo per dubitarne. Era un piano così perfetto, no?
No, non lo era. Quella notte aveva buttato all’aria il castello di carte, mostrando quanto fossero vani e vuoti i loro progetti. Ma non avevano mollato. Niente e nessuno li avrebbe fatti mollare. Perché su quello avevano puntato tutto e le tasche erano vuote, adesso. Mollare, e poi? Non avevano piani B, non c’erano piani B, non per loro. Se l’alternativa era il niente, tanto valeva perdere e non pensarci più. Era meno doloroso, almeno.
Così erano scesi, di corsa. Di corsa, di corsa, sempre di corsa, perché non c’era tempo, non c’era tempo per le strategie, tempo per cautela, attenzione. C’era solo tempo per correre, sfondare e sistemare la bomba. E poi? E poi basta, e poi non aveva più importanza. E poi, sarà quel che sarà.
C’erano riusciti. Anche laggiù avevano sentito il silenzio della bomba che non era esplosa, la bomba al palazzo del governo, che doveva aprire le danze ma non aveva funzionato. Disinnescata, forse? Sì, forse. Trovata e disinnescata, come tutti loro. Quasi tutti. Masser e Amani erano rimasti dietro di lui, a coprirlo, a rallentare le guardie. E lui, Amir, era sceso, la mano premuta sul fianco, a trattenere la bomba, ad assicurarsi di non perderla per strada. Non l’aveva persa. Era sceso, aveva raggiunto la grata che gli aveva descritto Masser, quella con dietro i cavi e le placchette luminose, e lì aveva fissato la bomba. L’aveva attivata, poi di nuovo indietro, sempre di corsa, a consumare ogni energia del suo corpo di diciottenne abbondante.
Quando era uscito, Amani era a terra. Ferita? Morta? C’era sangue e altro non sapeva. Non aveva tempo per chiedere, per controllare. Masser resisteva ancora, Masser li tratteneva ancora, sudato e sorridente, e Amir lo avrebbe amato, per come gli era apparso in quel momento. Poi aveva visto le guardie, più in là, e aveva capito che era finita. Finita? No, non ancora, forse. E di nuovo a correre, di nuovo oltre il reticolato e poi giù, lungo la via, tra le fila di case indifferenti, immobili, col ronzio che si avvicinava, da dietro, l’ape gigante che lo inseguiva, che gli toglieva il respiro. Aveva corso, solo, senza pensare, senza niente. Aveva corso ancora più forte, dopo aver sentito il botto.
Non forte, non potente come si sarebbe aspettato lui, ma un botto era sempre un botto. La bomba. La sua bomba. La bomba che lui aveva sistemato. Una bomba piccola, ininfluente, ma era esplosa, era riuscito a portare a termine la propria parte. Nonostante tutto, c’era riuscito. Masser li aveva trattenuti abbastanza a lungo, dunque. Grazie, Masser. Grazie. Piangeva, mentre correva. Poi non aveva corso più e tutto si era concluso così, in un vicolo, polizia davanti e polizia dietro.
La sua grande avventura si era esaurita nel vicolo, dove lo avevano preso.
Come starà Davide?, pensò, mentre il veicolo partiva. Una voce sopra di lui parlò, tacque, parlò di nuovo. Missione compiuta, tutti presi. Recuperato anche l’ultimo. Torniamo alla base. Lì da voi? Sì, bene. No, nessuna traccia, neanche qui. Ci terremo aggiornati. Attorno ad Amir tornò il silenzio, un silenzio di respiri, piedi che si muovevano appena, fruscii soffocati.
La sua giornata era finita.
Di nuovo in stazione, più di un anno dopo l’addio a Matteo. Quante cose erano cambiate da allora? Più o meno tutte, o almeno un numero così vicino a tutte da non fare alcuna differenza concreta. Gli edifici erano luccicanti come allora, i viaggiatori erano silenziosi e affrettati come allora, l’aria sotto la cupola aveva lo stesso sapore artificiale e aromatizzato che aveva avuto allora, lo spettacolo del Teatro di Oklahoma era in corso nella sala di ingresso, sempre come allora.
Ma adesso anche lui ne sarebbe stato parte. Lui, Davide Kori, sarebbe partito con quel Teatro, verso Madre e un futuro nello spazio. No, non Davide Kori: a partire sarebbe stato Bruno Kitzis, il nome che gli aveva assegnato Zeke Boodie, dimostrando di nuovo tutto il suo cattivo gusto onomastico. E Bruno Kitzis era giovane proprio come Davide, entusiasta come Davide, rigurgitato dalla scuola come Davide e insomma era identico a Davide in tutto e per tutto, a parte il nome. E il ruolo negli Isolazionisti, ovviamente. Anche questo faceva parte del piano di Zeke. Bruno Kitzis era un bravo ragazzo, un ragazzo pulito, senza precedenti.
«Recita te stesso e tutto andrà bene,» gli aveva detto prima della partenza. «Non perdere tempo a inventarti una nuova persona: non ne sei capace e fallirai di sicuro. Sii te stesso, rimuovi quei due o tre rami che non puoi mostrare e vedrai che Bruno se la caverà benissimo.»
Fino a quel momento era andata così. Il suo Bruno Kitzis era Davide, ma un Davide che non aveva mai incontrato gli Isolazionisti. Un Davide nel periodo tra la partenza di Matteo e la prima riunione, a cui Amir lo aveva portato. Era stato facile interpretarlo, era stato anche piacevole tornare a quel tempo, almeno sotto certi aspetti. Era ancora più piacevole sapere che, nel giro di qualche ora, la Terra sarebbe stata solo un ricordo. Un brutto ricordo. Non gli aveva dato molte occasioni di essere felice, nell’ultimo anno. E neppure prima, in effetti.
Continuò a camminare verso l’imbarco che gli avevano indicato, in un rivolo di altre persone, quasi tutte giovani e quasi tutte entusiaste, come lui. Altri coloni, ovviamente, che partivano in cerca di un futuro migliore, o di un futuro e basta, nella migliore tradizione degli emigranti in ogni tempo e in ogni luogo: facce simpatiche, nel complesso, facce con cui sarebbe diventato familiare, durante il viaggio e forse anche dopo, una volta arrivati. Con quanti di loro avrebbe lavorato? Quanti invece si sarebbero persi chissà dove, nelle vastità del nuovo mondo?
Scambiò qualche cenno di saluto, qualche sorriso, qualche parola. Nessuno aveva voglia di parlare, di fare conoscenza, non ancora: erano tutti troppo carichi, adesso, e volevano solo vedere la nave, la cabina, il futuro su cui avevano puntato. Ci sarebbe stato tempo per presentarsi e conoscersi, una volta in viaggio, ma adesso c’era solo il tempo per partire. Davide approvava: trattenersi avrebbe solo aumentato i rischi, per lui, se rischi c’erano. Non lo voleva scoprire.
L’imbarco vero e proprio fu lento. Si dovevano presentare a uno a uno agli inservienti, fascetta ben visibile sul braccio, e gli inservienti indicavano dove andare, in quale stanza, dettagli sul viaggio e mille altre cose, che pochi ascoltavano. Con la nave di fronte, col futuro di fronte, erano in pochi ad ascoltare particolari noiosi e tecnici. Ancora meno a capirli, probabilmente. E a poco a poco, veloce come ogni attesa in fila, arrivò anche il suo turno.
«Buongiorno, mi chiamo Bruno Kitzis. La mia cabina...»
«Benvenuto a bordo, signore. In fondo a questo corridoio, sulla destra e di nuovo in fondo. Troverà la sua cabina sulla sinistra, accanto alle scale.»
Davide ringraziò la donna, ascoltò a orecchie spente il resto del discorso, già sentito più e più volte per interposta persona, e seguì le indicazioni. Arrivato, finalmente! La nave del Teatro era molto più grande di quanto avesse immaginato, forse anche più grande di quella che aveva preso Matteo, per andare su Lakshmi. No, sicuramente più grande. Molto più grande. Con tutta la gente che doveva imbarcare, doveva esserlo per forza. Corridoi su corridoi, porte su porte, almeno tre livelli diversi: un labirinto di metallo, esteso in ogni direzione. Roba da perdersi mille volte, anche solo per fare due passi. Dovrò chiedere una piantina, pensò, ma non era urgente. Adesso voleva solo godersi il posto, la novità, la speranza che profumava l’aria. Stava per partire.
Adesso era anche lui un colono, ma un colono della Terra. Il ricordo di Zeke tornò a galla, assieme a un poco di preoccupazione. Lo aveva sentito per l’ultima volta dopo aver salutato Amir e avevano discusso del piano, il ruolo che lui avrebbe dovuto svolgere su Madre. Sembrava passato un secolo, eppure era solo qualche giorno. Scoprì con sorpresa che il piano di Zeke e degli Isolazionisti era quanto di più lontano potesse esserci dalla sua mente, in quel momento. Adesso, ciò che voleva era partire, vedere un altro mondo, lavorare e vivere su un altro mondo. Il resto era secondario.
Madre! Come sarebbe stato il pianeta? Come sarebbe stato davvero, nella realtà, fuori dalle finte immagini pubblicitarie. Era curioso. Era impaziente. Si sentiva vivo, vivo come sulla Terra non si era mai sentito, fino a quel momento. Si stava buttando nell’ignoto, ma l’ignoto non aveva la solita faccia usata, banale, tiepida della vita sulla Terra. L’ignoto era possibilità e la possibilità ha sempre un volto migliore della certezza.
Incrociò un altro passeggero, un ragazzo che poteva avere venti o venticinque anni, poco più grande di lui ma molto più largo. Ecco un futuro contadino, si disse Davide. E lui, cosa sarebbe stato? Non aveva deciso nulla assieme a Zeke: dal momento della partenza in poi, tutto era lasciato a lui e alla sua capacità di improvvisare, ed era bene così. Era ottimo così. Un lavoro se lo sarebbe inventato, o glielo avrebbero assegnato all’arrivo. Dettagli. L’importante era partire, solo partire.
E andare a prendersi il proprio futuro.
Sul ponte inferiore, chiusa in una cabina singola che aveva più o meno le dimensioni di una scatola da scarpe e un odore non molto diverso, Kemala Kexin sarebbe stata d’accordo con lui. Non si era sentita molto bene negli ultimi giorni, tra la tensione per la partenza, la preoccupazione per tutto ciò che poteva andare storto e uno sgradevole incidente gastronomico, che sembrava averle invertito l’apparato digerente, ma adesso respirava. Respirava l’odore di quella cabina, ok, ma respirava.
Tra poco ci siamo, pensava. Aspettatemi, rovine di Madre: tra poco la vostra archeologa sarà da voi. Sorrise, nella luce tenue della stanza. Si sentiva stupida, perché le rovine non potevano certo spostarsi e andare da qualche altra parte, magari in vacanza, ma si sentiva anche leggera. Vivere sulla Terra era stato duro, in quel mondo caotico che non capiva e non la capiva, ma adesso era nello spazio. Ormeggiati alla stazione orbitale, ok, ma presto, tra meno di un’ora, sarebbero partiti e tanti saluti a tutti. La prossima tappa era Madre, il capolinea.
E poi ci sarebbe stato da combattere. Molto più che combattere, in effetti. Non aveva previsto che tra Terra e Lakshmi ci sarebbe stato un incidente con quarantena e attriti tra i governi, e questo non l’aiutava. Con Matteo e con se stessa era stata ottimista, ma in effetti sarebbe stato quasi impossibile convincere gli archeologi ad ammetterla, ora come ora, però... Qualcosa si sarebbe inventata. Una volta là, l’avrebbero dovuta cacciare con la forza, se volevano liberarsi di lei.
Il giorno prima aveva spedito un ultimo messaggio alla professoressa Choi Jaewon, sua relatrice ma soprattutto appoggio all’interno della Società Interplanetaria di Archeologia. Se tutto fosse andato bene, su Madre l’avrebbe contattata di nuovo, per raccontarle la situazione. Se invece lei non si fosse fatta sentire, allora erano d’accordo che Choi avrebbe allertato la Società, ma soprattutto l’ambasciatore lakshmita, che probabilmente avrebbe avuto un potere maggiore. Era più che pronta a trasformarlo in un incidente diplomatico interplanetario, se era obbligata.
Ma mi accetteranno. Non gli conviene trattenermi.
E con questa certezza nella mente, Kemala cominciò il suo viaggio verso Madre, sotto il falso nome di Karla Koch, proprio come Davide Kori, al piano superiore, cominciava il suo viaggio col nome di Bruno Kitzis. L’accoglienza di Madre li aspettava.