La galassia di Madre - 7
Il dottor Vito Leonardi chiuse gli occhi, respirò a fondo e li riaprì. Nulla da fare. Il Direttore George Gemelos si ostinava a rimanere lì, al centro del suo ufficio, in piedi davanti alla scrivania, come se non avesse niente di meglio per occupare le giornate. E forse era davvero così, a pensarci.
«Sentiamo,» disse infine Leonardi. «Quale sarebbe il terribile problema, stavolta?»
Il dottor George Gemelos, formalmente Direttore dell’Ufficio per la Colonizzazione e quindi primo responsabile della politica estera terrestre, era un omino smilzo, nervoso, con un batuffolo di peli grigi sotto al labbro inferiore, che nelle sue intenzioni sarebbero probabilmente dovuti essere una barba giovanile, ma nei fatti erano piuttosto lo sputo dimenticato da qualcuno. Assieme agli occhi, che faticavano a incontrare quelli degli interlocutori, ai capelli radi e grigiastri, un poco mossi, che gli arrivavano a malapena al collo, e una fisionomia che, nell’insieme, ricordava molto un pinguino imperatore, soprattutto nel camminare, Gemelos rappresentava grossomodo il perfetto esemplare di uomo inutile, almeno a prima vista.
A prima vista, chiunque avrebbe sottovalutato una persona simile. Era ovvio. Era praticamente stato progettato a livello genetico, per essere trascurabile. A seconda vista, tuttavia, un osservatore acuto si sarebbe accorto dell’errore: Gemelos valeva ancora meno di quanto sembrasse. Anche uno zero si sarebbe offeso, a essere paragonato a lui. Era... un soprammobile, ecco, che Leonardi aveva posato sulla poltrona per continuare a occuparla, anche dopo aver abbandonato la carica, per sopraggiunti limiti di età. Un burattino, consapevole di esserlo.
Per questo era tanto nervoso.
«L’ultima spedizione di coloni è partita come da programma» disse Gemelos, tormentando le mani che teneva dietro la schiena, come un bambino davanti alla maestra. «Abbiamo recuperato quasi sei giorni del ritardo accumulato all’inizio e ne dovremmo recuperare altri cinque, salvo imprevisti.»
Leonardi lo fissava da sotto le sopracciglia bianche. I suoi occhi erano rimasti temibili anche dopo le modifiche, per potenziarli e correggerli, tamponando le falle dell’età. «Dunque?»
«Abbiamo anche cominciato con la raccolta dei coloni per la prossima spedizione. La propaganda procede bene e abbiamo registrato un incremento delle richieste pari al trentadue punto quattro per cento, rispetto alla precedente. Non escludo che avremo bisogno di altre navi, in tempi brevi, per sistemare tutti i partenti.» Sentiva il sudore scorrere sulla sua fronte, ma non osava muoversi per asciugarlo, anche se le gocce gli bruciavano negli occhi.
«E dunque?»
Gemelos respirò a fondo e chiuse gli occhi. «Gli Isolazionisti hanno ricominciato a infastidirci. Tre giorni fa c’è stato un incidente durante una nostra presentazione, presso la scuola di...»
Il dottor Leonardi alzò una mano rugosa. Le dita erano distese, nessun segno di artrite, nessun segno di modifiche artificiali, anche se Gemelos sapeva che entrambe le sue braccia erano ampiamente robotizzate, come le gambe. «Isolazionisti?» chiese Leonardi, in tono perfettamente neutro.
«Isolazionisti» confermò il Direttore Gemelos. «O almeno, così si presentano, anche se dubito che abbiano qualcosa a che fare con quelli di una volta.»
«Ne dubito anch’io» disse Leonardi. «Sarebbe molto difficile per loro poter essere ancora vivi, dopo la retata di trentadue anni fa. È teoricamente possibile che ce ne sia sfuggito qualcuno, certo, non abbiamo la certezza matematica di averli catturati tutti, in quella confusione, ma trovo alquanto improbabile che un eventuale superstite abbia deciso di farsi sentire adesso, dopo trentadue anni di silenzio. Non ci sarebbe alcun motivo per farlo, al momento.»
«Potrebbero essere le nuove generazioni.»
«O potrebbero essere degli idioti che non sanno neppure cosa significhi essere Isolazionista. Idioti che si annoiano e vogliono fare un poco di casino. Ne trovi ovunque e in qualunque epoca. Non usare il cervello è una falla di base negli esseri umani. Perché sforzarsi a usare il cervello, quando è molto più semplice e divertente ragionare col segmento terminale del proprio intestino crasso?»
«È proprio per questo che ho ritenuto di doverla contattare e farle presente questo avvenimento.» La voce di Gemelos non era ferma, né sicura, come se pensasse di aver sbagliato tutto. Non escludeva che fosse proprio così. Il dottore voleva che risolvesse da solo quel problema? Gemelos si augurava di no. Non era un lavoro da Ufficio per la Colonizzazione.
«Sì, immagino» rispose Leonardi. «Immagino che tu ti sia affrettato a correre qui, non appena sei inciampato in un problema più grande di una nocciolina. Anche se ormai ho centosette anni, ti ostini ancora a inseguirmi coi tuoi piccoli problemi e a infastidirmi per ogni cosa. Ma lasciamo perdere, lo so come sei fatto.» E ti ho scelto apposta, aggiunse tra sé e sé. «Identificate immediatamente tutti i partecipanti allo scontro di cui mi hai parlato, ma non arrestateli. Non arrestateli. Voglio invece che li sorvegliate ogni giorno, ogni minuto, per scoprire tutte le persone con cui sono in contatto, amici o nemici. Seguite ogni più piccolo filo del loro gruppo, assicuratevi che non resti di nuovo in giro un pesce piccolo o anche una briciola di plancton, se è per questo. Poi li prenderete. Non che valga davvero la pena di farlo, ma almeno ti terrai occupato e forse imparerai qualcosa.»
George Gemelos annuiva, non molto sicuro. «Quindi cosa dovrò ordinare, in concreto?» chiese.
Leonardi sospirò. «Vieni qui e ascolta.»
Il direttore Gemelos ascoltò, poi annuì più convinto e finalmente abbandonò l’ufficio. Leonardi poté respirare di nuovo, nella pace della stanza deserta. Fissò la porta chiusa per qualche minuto, con le dita della mano destra che tamburellavano sulla scrivania e la mente che oscillava tra riflessioni e ricordi. Trrup, trrup, trrup, mentre i suoi nervi si scaricavano sul legno sintetico. Trrup, trrup, trrup.
Il dottor Vito Leonardi era forse stato giovane, un tempo, anche se pochi dei suoi attuali dipendenti sarebbero mai riusciti a immaginarlo. Forse era stato fiducioso, speranzoso, ben disposto verso gli altri. Forse, con uno sforzo estremo di immaginazione, si poteva addirittura fantasticare un tempo in cui era stato comprensivo e disponibile, un tempo in cui aveva accolto i colleghi con un sorriso e non con un ringhio mascherato a malapena. Forse. Oggi però Leonardi aveva centosette anni ed era un corpo rattoppato ripetutamente, in gran parte artificiale, che si teneva aggrappato agli scogli della vita con la cocciuta determinazione di una cozza. Non avrebbe mollato, non prima di aver concluso il proprio lavoro. O ciò che percepiva come proprio lavoro.
Era stato lui a costruire dal nulla l’Ufficio, fino a renderlo uno dei dipartimenti più potenti del governo terrestre. Era stato lui a fiutare la direzione in cui soffiava il vento e a trascinarsi dietro gli altri, che lo volessero o meno. Era stato lui, soprattutto, a rendere possibile la conclusione di quella stupida e assurda guerra fredda tra chi era partito e chi era rimasto, tra quelli che avevano perso in passato, rimanendo bloccati sulla Terra, e chi aveva vinto, partendo alla conquista dello spazio. Una conquista molto relativa, visti i risultati ottenuti in tre secoli, ma pur sempre una conquista. Adesso che aveva strappato una seconda opportunità anche per la Terra, non si sarebbe lasciato infastidire da un pugno di stupidi ragazzini.
Isolazionisti. Più di cinquant’anni prima, alla firma dei trattati con gli abitanti delle Colonie, che molti sulla Terra si ostinavano a chiamare “gli Altri”, col disprezzo di chi invidia troppo per poterlo ammettere, i cosiddetti Isolazionisti erano gli integralisti del “no a tutti i costi”, gli ottusi caproni del “mai con loro”, i cani idrofobi del “morte a chi ci ha abbandonato”. Stupidi che non possedevano neppure il cervello necessario a guardarsi attorno, in altri termini. Chiusa nel proprio sistema solare, con risorse che si esaurivano a poco a poco, alla Terra sarebbe rimasta solo una lenta agonia, se non le fossero state riaperte le porte del viaggio interstellare. I trattati lo avevano permesso.
Qualcuno, però, non lo aveva capito. Qualcuno era troppo stupido o troppo cieco (ammesso che tra le due posizioni ci fosse una qualche differenza) per leggere la direzione in cui il futuro procedeva. Qualcuno, forse, era ancora troppo accecato dall’odio, anche dopo tre secoli e più dall’epoca delle guerre tra i due blocchi. L’odio irrazionale e a prescindere, in fondo, è un vino che migliora sempre, invecchiando, e spesso si tramanda di padre in figlio, come un prezioso gioiello di famiglia. E gli Isolazionisti avevano cavalcato quei sentimenti. Li avevano coltivati con gioia. Mai più assieme a loro, avevano gridato. Via i traditori dalla Terra. Il pianeta è nostro!
Alla firma dei trattati c’era anche il dottor Vito Leonardi, allora un sociologo poco sopra i quaranta, con un futuro già avviato nella politica e molti contatti nel mondo accademico. Aveva un patrono, l’allora ministro degli Esteri, e lavorava per sostituirlo, con cautela, con pazienza. Il ministro era vecchio, con idee vecchie, e non era la persona giusta per guidare il cambiamento. Sarebbe caduto da solo, lasciandolo procedere. Pochi ani dopo, era caduto, non rimpianto.
Leonardi aveva creato l’Ufficio per la Colonizzazione, raccolto tutte le menti migliori di cui la Terra disponesse (o il meno peggio, a suo parere), preso accordi con le università dei mondi coloniali, per lo scambio di studenti, e il progetto che avrebbe portato a Madre aveva visto la luce. Leonardi non era mai divenuto il ministro degli Esteri, ma tutti i poteri del Ministero erano stati assunti dal suo Ufficio. Per lui andava bene così. Gli interessava il potere, non la sua forma. La forma la lasciava ai burattini e ai saltimbanco.
Ma c’erano gli Isolazionisti. Avevano contestato i trattati, avevano lottato contro le ambasciate e i centri di scambio commerciale, avevano organizzato boicottaggi, scioperi e infine attentati. Ciechi, non vedevano che i trattati erano inevitabili, l’unica via per riportare in alto la Terra, a raggiungere e un giorno superare i mondi coloniali stessi. Stupide scimmie, li aveva definiti Leonardi. Stupidi uomini di Neanderthal, che scambiano le proprie caverne per palazzi imperiali. Con tante scuse agli uomini di Neanderthal veri, che erano molto più intelligenti degli Isolazionisti e forse anche dello stesso homo sapiens. Ma pensavano davvero che la Terra sarebbe stata più ricca e più potente da sola, con quattro miliardi scarsi di abitanti e uno sputo di risorse, invece che unita ai dieci pianeti e ventiquattro miliardi di abitanti degli “Altri”, come si divertivano a chiamarli loro, con disprezzo? Volevano l’autarchia planetaria?
Non avevano resistito, ovviamente. Se all’inizio erano stati molti, il loro numero era calato sempre più in fretta, man mano che i mercati si aprivano, merci e risorse aumentavano e le condizioni di vita sulla Terra miglioravano. Si protesta meglio a pancia vuota che a pancia piena, come sapeva Leonardi, e i fatti lo avevano confermato. Non appena le pance terrestri si erano riempite e le loro case erano tornate calde, ecco che anche gli Isolazionisti erano spariti, le bocche troppo occupate a ingozzarsi non gridavano più slogan.
Diciotto anni dopo i trattati, mentre l’Ufficio lavorava alla prima missione su Madre, c’era stato il loro regalo d’addio, l’ultimo segno degli Isolazionisti: l’esplosione alla zona militare, dove l’Ufficio stava ultimando la sua prima nave interstellare. Ventidue morti, oltre cinquanta feriti, in forma più o meno grave. La successiva raffica di arresti, anche se forse non molto democratica, aveva chiuso il capitolo degli Isolazionisti. Nessuno li aveva più sentiti e nessuno li aveva rimpianti. La Terra aveva fondato la sua prima, nuova colonia, sul pianeta battezzato “Madre”, e tutto si avviava verso un lieto fine, come voleva Leonardi, che a cento anni aveva infine potuto abbandonare il ruolo di direttore dell’Ufficio, limitandosi a controllarlo da fuori. Tutto procedeva bene.
Fino a oggi. Trentadue anni dopo, ecco che il loro nome torna a galla. Trrup, trrup, trrup. Mentre la mano destra continuava a battere il ritmo sulla scrivania, la sinistra saliva ad accarezzarsi la fronte. Un incidente presso una scuola, tre giorni fa. Qualche protesta, qualche motto, magari anche un paio di persone in infermeria, con un occhio nero o un dente rotto. Ecco cos’era stato, l’incidente. Niente più di un disturbo, durante una delle periodiche presentazioni, che organizzavano in tutta la Terra. Poteva ignorarlo e vivere sereno, se non fosse stato per quel nome. Isolazionisti.
Prenderli sul serio? O lasciar perdere? Con ogni probabilità, era il solito gruppo di giovani sbandati, con troppo tempo libero e troppa poca mobilia ai piani superiori, che avevano trovato un nome fico e adesso lo sventolavano a casaccio, senza neppure sapere cosa significasse. Con ogni probabilità, certo. Ma c’era differenza tra una probabilità e una certezza, una differenza spesso fondamentale, per Leonardi. Quindi, procedere a basso profilo, sì, ma senza ignorarli. Meglio schiacciare un topo vestito da leone, che lasciarsi ingannare da un leone vestito da topo. Nel peggiore dei casi, poi, la responsabilità sarebbe stata del Direttore, ossia di George Gemelos, non certo di Leonardi.
In fondo, lui era soltanto un consigliere anziano.
E da bravo consigliere anziano, continuò a dedicarsi a ciò che era davvero importante: Madre. Gli Isolazionisti, come qualunque altro gruppi di fanatici, erano figure che andavano e venivano, oggi fastidiosi e dimenticati domani. Maree dell’esistenza, o poco più. Anche se sarebbe stato compito del ministro dell’interno occuparsene, poteva pure lasciare che ci pensasse Gemelos, con qualche opportuno consiglio dal consigliere anziano. L’importante era che non si disturbasse Madre.
Con un sospiro, e con delicatezza, Leonardi si appoggiò allo schienale della poltrona. Intrecciò le dita e abbandonò le mani sullo stomaco, sentendo il lieve scatto delle articolazioni artificiali, il sussurro di tendini in fibra che scorrevano sotto la pelle. Era il prezzo pagato all’artrite e non era un prezzo alto, in cambio di ciò che ne aveva ricavato. Altro discorso era il prezzo da pagare a Madre, ma quella era una storia differente. Madre era il futuro della Terra, il destino della Terra, e forse non solo suo: nessun prezzo era troppo alto da pagare, per conquistare il proprio futuro. Nessuno.
Leonardi ne era sicuro, da quando si era recato lui stesso su Madre, venti anni prima, dieci anni dopo la prima, fallimentare missione. Vi si era recato soltanto con la mente, non col corpo, ma non aveva importanza: era la mente a contare, non il corpo. Il corpo era solo l’appendice di carne a cui la mente era attaccata. Il suo mezzo di locomozione. E la mente aveva visto, sentito, parlato e infine deciso: il prezzo era alto, ma equo, e la Terra lo avrebbe pagato.
Si era recato su Madre, vent’anni prima, e ne aveva colto le possibilità. Sapeva già che la via delle colonie era giusta, lo aveva dimostrato il blocco che, più di tre secoli prima, aveva vinto la guerra e cercato la salvezza su altri pianeti, per sottrarsi alla grande estinzione di massa dell’Olocene. Non era stata poi una estinzione così terribile, non come per un certo tempo si era pensato, e la vita sulla Terra era potuta continuate, almeno per gli umani rimasti: non bella, non facile, ma possibile sì, e ricostruire un mondo era stato forse un poco più semplice che costruirne uno nuovo, da zero.
Peccato che fossero stati molto diversi i risultati. Quello che avevano ricostruito era comunque un mondo già sfruttato e impoverito, mentre i mondi nuovi erano ancora freschi e ricchi di risorse, che le pessime esperienze accumulate a casa avrebbero permesso di sfruttare meglio. La Terra aveva tirato a campare, le colonie avevano prosperato. Adesso che, anche per loro, la strada del cielo era riaperta, l’avrebbero dovuta percorrere di corsa, nonché in ritardo. Ma l’avrebbero percorsa e Madre era la prima tappa. La più importante, forse, se tutto fosse andato come Leonardi aveva progettato.
Perché Madre non era un pianeta come gli altri, come le colonie che erano già state fondate. Madre era il pianeta su cui, tre milioni di anni prima, un’altra civiltà si era già sviluppata e aveva lasciato tracce, prima di sparire. Una civiltà intelligente, evoluta, non solo milioni di specie animali più o meno utili o commestibili, come sugli altri mondi abitabili. Una comunità di archeologi si stava ora occupando di disseppellire tutti i resti che potevano essere rimasti, e questo andava bene, benissimo. I siti di interesse storico e archeologico erano una cosa buona, perché grazie a loro l’interesse verso il pianeta rimaneva alto. E i terrestri dovevano interessarsi al pianeta, alla loro nuova colonia.
Dovevano interessarsi al proprio futuro.
Controllò in fretta le segnalazioni inviate dal presidio militare, che sovrintendeva alla prima fase di insediamento. La fertilità del terreno era aumentata, grazie alle ultime modifiche, e la fauna ittica che avevano introdotto nei mari sembrava essersi ambientata bene, almeno finora. C’era il rischio che, nei prossimi anni, potesse soppiantare del tutto la fauna autoctona, quei pesci deformi che tanto stavano a cuore al responsabile per l’agricoltura e l’allevamento nella colonia, quella cariatide secca del Responsabile Thoreau, ma per Leonardi non era un problema. Se Thoreau avesse continuato a protestare, c’era pronto in Ufficio un altro exologo, con cui sostituirlo. E forse sarebbe stato giusto sostituirlo lo stesso: venti anni sono molti per tutti, specie su un pianeta come Madre.
«Comincia a invecchiare e ad andare fuori di testa» si disse il dottor Leonardi, «ma me lo aspettavo. Forse è davvero il caso di pensionare anche gli ultimi resti della seconda missione.»
Sorrise. Rafael Thoreau era l’exologo che si era portato con sé nella seconda spedizione su Madre, perché uno specialista nelle forme di vita non terrestri era sempre utile e, a quel tempo, Thoreau era il meglio che la Terra avesse da offrire. Altri tempi, tempi difficili. Ma la missione si era risolta in un successo, Thoreau si era affezionato al posto, incuriosito da qualcosa che aveva trovato nelle forme di vita locali, e così se n’era rimasto sul pianeta, assieme ai militari e ad alcuni archeologi. Il posto di responsabile per le politiche agricole e ambientali era finito a lui, inevitabilmente, ma dopo vent’anni su Madre stava cominciando a parlare come se ci fosse nato, dimenticando i propri doveri verso la Terra. Meglio pensare a un sostituto.
Il dottor Vito Leonardi respirò a fondo e riprese a lavorare.
E mentre nell’Ufficio si lavorava e l’autunno volgeva lentamente in inverno, Davide Kori si accorse che anche un’altra cosa stava lentamente cambiando. Il suo amico e attuale compagno di banco a scuola, Amir Cavalli.
Lo notò un giorno di metà dicembre, uscendo da una mattinata di dimenticabili lezioni. Amir gli era sembrato un poco strano, in classe. Più strano del solito, per essere precisi. Non aveva seguito forse neppure una parola, ma questo non era strano: era la norma, semmai. Lo strano era il modo in cui non aveva seguito. Invece di sonnecchiare, chiacchierare, guardare fuori dalla finestra o molto più semplicemente perdersi in un mondo all’interno del proprio cranio, Amir era sembrato pensieroso. Il che era incredibilmente strano, per lui: neppure quando suo padre aveva perso il lavoro e tutta la famiglia aveva rischiato di finire in strada, Amir era sembrato pensieroso. Adesso lo era.
«C’è qualche problema?» gli aveva chiesto Davide, durante l’intervallo.
«Perché?»
«Perché sei su un altro pianeta. Se ti è successo qualcosa, ne puoi anche parlare, lo sai.» Sì, proprio come Davide sapeva che l’amico non ne avrebbe parlato, se non forse dopo aver fatto la conoscenza di un paio di strumenti di tortura. Era fatto così, Amir.
«No, non è niente. Stavo pensando.»
E quel commento era così fuori personaggio, che Davide non aveva saputo cosa rispondere. Non ne avevano più parlato, per il resto della mattinata, ma adesso stavano camminando assieme verso casa e bisognava pur trovare qualcosa da dire. Il silenzio lo metteva in imbarazzo.
«Fa più freddo del solito, in questi giorni» commentò Davide, rifugiandosi nel più classico e trito degli argomenti rompisilenzio. Si sentiva ancora più in imbarazzo, per aver detto una cosa simile, da vecchio, da antico, da preistorico, ma doveva dire qualcosa. La faccia pensierosa di Amir era più innaturale e preoccupante di un cielo verdognolo.
«È quasi inverno.»
Affondato anche il patetico tentativo di conversazione. Ormai Davide era quasi sicuro che ci fosse un problema, magari un grosso problema, che Amir non sapeva come risolvere ma di cui, allo stesso tempo, non voleva parlare. Problemi in famiglia? Problemi gravi in famiglia? Problemi gravi di salute in famiglia? Possibile. Di quello non gli avrebbe mai parlato, Davide lo sapeva. Quando il fratello maggiore di Amir aveva perso un braccio al lavoro, Davide lo aveva scoperto soltanto dalle chiacchiere dei vicini di casa.
«Ci sono nuove pubblicità di Madre, le hai viste? Le trovi anche sugli alberi, ormai.»
Ma anche quell’esca fallì. «Sì, solita storia» bofonchiò in risposta l’amico, continuando a fissare il marciapiede davanti a sé.
Davide sospirò. Probabilmente era meglio lasciare perdere, almeno per il momento. Se e quando gli fosse venuta voglia di parlare, Amir avrebbe parlato. Forse. Ragionava in modo tutto suo e spesso seguiva percorsi che persino Davide faticava a comprendere. Non era proprio del tutto stupido, ma il suo cervello non sembrava allineato con quello degli altri: seguiva per l’appunto traiettorie note a se stesso, ma Davide aveva col tempo imparato a riconoscerle, almeno a grandi linee.
Più vecchio di Davide di un anno, Amir Cavalli si era perso per strada lungo il cammino scolastico, molto presto, e così si era ritrovato con una classe di distacco dagli altri coetanei, un evento che lo aveva portato a essere compagno di Davide. Lo era rimasto per quasi otto anni, sfidando sorteggi e nuove scuole: qualunque cosa accadesse, Amir e Davide finivano in classe assieme. Destino, forse, o forse pigrizia degli insegnanti, come aveva commentato Matteo: perché separare quel beota di Amir dal solo insegnante di sostegno gratuito che avesse trovato? Un commento che Davide aveva apprezzato poco, al tempo.
Siamo amici e chissenefrega. Meglio così, se siamo sempre in classe assieme. Su quella posizione si era fermato Davide e adesso la manteneva a dispetto di tutto, ma anche per fare un dispetto a tutti. Non poteva negare, però, che ogni tanto avrebbe apprezzato una maggiore collaborazione da Amir, invece di dovere sempre attendere che nel cervello dell’amico scattasse l’interruttore giusto e che si decidesse così a parlare dei propri problemi. O di qualunque altra cosa avesse per la testa. Aria, in gran parte dei casi, come commentava Matteo.
Accadde quasi una settimana più tardi, nel pomeriggio di una domenica che Davide aveva speso in giro con Amir, per non dover restare in casa a sopportare, da solo, le lamentele della madre, che nei suoi giorni liberi sapeva solo borbottare, sbuffare e lagnarsi del mondo. Passavano davanti al nuovo manifesto pubblicitario di Madre, inchiodato al tronco di un vecchio e grosso albero, e Davide si era perso per un istante in contemplazione, assieme all’amico, quando Amir cominciò a parlare.
«Tuo fratello è su una di quelle colonie, vero?» gli chiese.
«Sì, una di quelle più vecchie. Lakshmi o una roba del genere, non mi ricordo bene. Era un nome strano» rispose Davide. «Perché?»
«E pensi che poi tornerà sulla Terra?»
«Mah, sì, ha detto così. Studia e poi torna. Perché?»
«Sicuro che torna?»
Davide cominciava a preoccuparsi. Era troppo serio, Amir, e sembrava che avesse davvero qualcosa di strano per la testa. Cosa gli era successo? «Lui ha detto così: mi laureo e poi torno, la solita roba, no? Te lo avevo anche già detto, quando siamo andati alla stazione a spedirlo via. Perché? Ci sono problemi, per caso?»
«E se poi non torna? Tu come fai, con tua mamma?»
«Perché non dovrebbe tornare, scusa? E poi, cosa c’entra mia mamma, adesso?»
«Non avevi detto che volevi provare anche tu a partire? Per andare su Madre, no? Ma se tuo fratello non torna, non puoi lasciare da sola tua mamma, no?»
Quella discussione non aveva senso. C’erano troppi se, in mezzo, e sembrava più che altro una di quelle seghe mentali, che piacevano tanto a Matteo. No, non era decisamente una discussione da Amir, o almeno non dallo Amir che conosceva lui. O almeno che lui credeva di conoscere. Amir e i periodi ipotetici si conoscevano giusto di vista, molto alla lontana.
«Sì, ho detto che mi piacerebbe, ma più avanti» rispose Davide. «Non è una cosa a cui mi metterò a pensare adesso, però. Dopo la scuola, magari, quando sarà tornato Matteo.»
«E se non torna?»
«Ma perché non dovrebbe tornare, scusa?» Cominciava a innervosirsi, adesso. Era come parlare con un pappagallo lobotomizzato, ormai. No, non era l’Amir che conosceva lui.
«Perché quelli che partono poi magari non tornano.»
Ah! Qualcuno nella sua famiglia era partito e non era tornato, dunque? Non il fratello monco, non era probabile, ma qualcun altro forse sì. Magari suo padre, giusto. Non gli aveva detto più di una volta che a suo padre interessavano le pubblicità di Madre? Magari era partito, mollando la famiglia sulla Terra e nella merda. Plausibile. Non un pensiero che a Davide piacesse molto, dato che anche suo padre aveva deciso di cambiare aria e non farsi più sentire, molti anni fa, ma era comunque un dato concreto. Se il problema era quello, allora poteva capire le recenti stranezze di Amir.
«Come fai a sapere che non tornano?» provò a sondare il terreno, con tutta la cautela di cui lui era capace, cioè non molta.
«Lo dicono tutti. Chi va in mezzo agli altri, poi diventa come gli altri e non torna più indietro.»
Una filosofia nuova, almeno per Amir. Assomigliava anche a una citazione, ma Davide non sapeva chi o cosa stesse citando. Niente che avesse imparato a scuola, poco ma sicuro. E poi, chi sarebbero gli altri di cui parlava? Camminarono ancora un poco, in silenzio, mentre Davide meditava e Amir teneva la testa bassa, altro tratto insolito per lui.
«Comunque vedrai che tuo fratello non torna» disse alla fine.
Davide sospirò. «Staremo a vedere. Tu comunque hai qualcosa che non va, davvero. Mi spieghi da dove ti saltano fuori queste idee? Ti è successo qualcosa?»
«Non mi è successo niente. Ma se ci pensi, vedrai che è vero. Perché dovrebbero tornare in questa fogna? Meglio che se ne stiano là. Via» aggiunse Amir, agitando una mano verso il cielo.
Sì, qualche problema. Qualche problema in famiglia, molto probabilmente. Poteva essere qualsiasi cosa, ma Davide sapeva che al momento non sarebbe stato saggio domandarlo, perché l’amico non era pronto a parlarne. Bisognava procedere per gradi e aspettare i suoi tempi. Lo aveva imparato nel corso degli anni e, anche se era spesso difficile ricordarsi in tempo di questa strategia per applicarla, almeno col carattere che si ritrovava Davide, era anche l’unica che funzionasse davvero, con uno come Amir Cavalli. Dargli tempo e dargli corda.
«Sei stato molto impegnato, di recente» gli disse, per cambiare argomento. «Ti hanno mandato di nuovo a ripetizioni? O avevi qualche lavoretto da fare?»
Amir alzò le spalle. «Avevo da fare, sì. È un periodo molto impegnato, roba da fare, così. Ma niente di che, davvero. Roba.»
«Se ti sei trovato una nuova ragazza lo puoi anche dire, eh?»
«No, no, non c’entra. Impegni.»
E dovevano essere impegni davvero impegnativi, perché era già da almeno due settimane che non si faceva sentire per i compiti, come invece era sua abitudine. Non si era fatto sentire neppure per uscire, il che era ancora più insolito per lui. Qualunque cosa avesse, e qualunque fosse il motivo per cui faceva così il misterioso, doveva comunque trattarsi di un affare serio. O almeno, serio secondo la scala di valori di Amir, il che non significava necessariamente serio per il resto del mondo. Beh, avrebbe aspettato. Amir non era mai stato molto bravo a tenere nascoste le cose.
Si salutarono poco dopo, separandosi per rincasare. Per alcuni giorni, Davide non si preoccupò più dell’amico, perso dietro ad altri pensieri. Ricominciò in seguito a chiedersi cosa potesse avere nella testa, quando al supermercato la madre di Amir si lamentò, perché il figlio usciva spesso la sera e chissà dove si andava a cacciare. Il che, se non altro, eliminò una serie di possibili cause, dato che la madre era viva e vegeta e non si era sentito nulla di strano sul resto della famiglia.
Dove poteva andare di sera, da solo? A mettersi in qualche guaio? Probabile, conoscendo Amir. E, pensando alle sue strane affermazioni su quello che la gente diceva, sui fantomatici altri e su chi andava su altri pianeti, per non tornare più a casa, c’erano parecchie cose di cui preoccuparsi. C’era quasi da pensare che Amir si fosse andato a infilare in una qualche strana setta di fanatici. Forse una nuova banda, anche questo era possibile, ma non sembrava probabile. Doveva però esserci qualcuno che gli aveva messo in testa idee strane. Ma chi? E che idee?
Davide ci pensò a lungo, in quei pomeriggi a casa, e alla fine decise che, una di quelle sere, sarebbe uscito anche lui, per pedinarlo e scoprire dove si andasse a cacciare l’amico. Non proprio perché non si fidasse di lui, ma perché non si fidava delle sue capacità di giudizio. Inoltre, almeno a un qualche livello, si sentiva responsabile dell’amico. Era il suo cranio pensante, no?
Poi accadde qualcosa di molto più serio e quel progetto si perse nel tempo, come molti altri buoni propositi, in passato e in futuro.