Il gioco della finestra e della mosca
La finestra era sollevata di almeno una quarantina di centimetri e affacciata su un panorama urbano la cui bellezza era più teorica che reale. La mosca era immobile sul vetro interno. Ermanno Floppi la fissò, compresse le labbra, scosse la testa, incrementò la messa a fuoco degli occhiali, socchiuse le palpebre come un assonnato. Così andava meglio. Sarebbe andata ancora meglio se la mosca si fosse mossa, ma non si poteva pretendere troppo dalla vita, figurarsi poi da uno stupido dittero.
Come convincerla a uscire? Questo era il problema. Era anche la sfida, e il gioco. Anzi, lo sport: da pochi giorni l’avevano inserito alle olimpiadi estive ed Ermanno si era gasato tantissimo, come una bibita analcolica ad alto contenuto di zucchero. Non perché lui sarebbe andato alle olimpiadi, ovvio: neanche al torneo di quartiere lo avrebbero ammesso, se non come estrema riserva. Era però lo sport che lui praticava, l’unico in cui avesse ottenuto risultati superiori a zero (di poco, ma lo erano). Che il CIO lo avesse infine riconosciuto come disciplina olimpica era proprio quello che serviva: adesso poteva rispondere a sua moglie che no, non stava facendo lo stupido. Stava facendo sport. Tiè.
Ma la mosca era ancora sul vetro. Ermanno Floppi sorrise spietato: non ci sarebbe rimasta a lungo. Il che era vero: probabilmente sarebbe volata in un altro punto della stanza, ma c’era anche almeno una possibilità che decidesse di uscire. Ermanno avrebbe puntato su quella possibilità, per rendere reale ciò che era solo possibile. Del resto, lo scopo era quello: convincere una maledetta mosca a uscire da una finestra parzialmente aperta. Più piccola l’apertura, maggiori i punti. Ma la mosca doveva uscire viva, e autonomamente.
Non uno sport facile, ma Ermanno si esercitava da anni. Ogni tanto ci riusciva pure.
Aveva cominciato da bambino. Prima le mosche le spiaccicava e basta, quando le prendeva, ma una volta l’addome di un dittero era esploso in uno schifosissimo grumo di larve bianche e piccole, una pallina di vermetti che si agitavano piano e. E basta: meglio non ricordare altro. Da allora Ermanno si era impegnato a buttarle fuori vive, e possibilmente intere. Era molto meno schifoso e da un certo punto di vista lo faceva sentire buono e nobile: stava risparmiando la vita di altre creature, no?
Gli anni erano passati, si erano fatti decenni, e il mondo era cambiato, se per mondo si intendeva la società umana. E in parte anche l’ecosistema. Adesso non c’erano più le mosche di una volta, anche perché le mosche non è che vivano molto a lungo. Vivevano sempre meno ed era ormai diventato un problema serio. Non tanto per le mosche, ma per altri insetti più simpatici e utili. O non molto simpatici, ma comunque utili. Il fatto è che morivano. A miliardi. Ed era un problema.
Dopo averlo risolto per anni dando la colpa a qualcun altro, si era infine deciso di puntare sul sano e vecchio egoismo illuminato: rendiamo gli insetti interessanti su un piano economico e mantenerli in vita diventerà redditizio anche per chi li odia. Così erano nati gli sport che li coinvolgevano. Afferra la cimice, guida la mosca alla finestra, rally di scarafaggi, e tanti altri: tutti nati per sensibilizzare la pubblica opinione, insegnare la convivenza tra specie diverse e palle varie. In teoria.
La pratica non era andata altrettanto bene. I giochi avevano avuto successo, ma non la convivenza pacifica: già nei primi mesi il tasso di insetti morti accidentalmente nelle nuove discipline era stato così elevato da far temere per un’accelerazione della loro scomparsa, nonostante fossero state scelte appositamente le specie più comuni e diffuse. A salvare il progetto dal fallimento era stata proprio la tecnologia, forse non molto illuminata ma di certo molto attenta alle nuove fonti di profitto.
Si erano così diffuse app per la realtà diminuita, che proiettavano insetti virtuali molto più realistici degli insetti reali. Con qualche semplice aggeggio smart potevi anche interagire con loro, meglio di quanto si potesse con gli insetti reali, e non rischiavi neppure di essere punto. Cosa si poteva volere di più? Una diretta streaming per le competizioni, ovvio. Una volta aggiunta anche questa opzione, il campo era spalancato per nuove, affascinanti discipline sportive. E forse qualcuno si sarebbe poi ricordato che gli insetti reali si stavano estinguendo alla massima velocità, ma non era un dettaglio così importante, adesso che si poteva giocare con gli insetti virtuali.
Ermanno Floppi se ne sbatteva alla grande di tutta la storia alla base degli sport: il punto era solo far uscire la mosca dalla finestra, nel minor tempo possibile. Vi si dedicò per quasi mezz’ora, a risultati alterni e sperimentando altezze diverse. Con un’apertura di mezzo metro ci riusciva quasi sempre, e abbastanza in fretta; a quota quaranta era ben più difficile; sotto i trenta doveva affidarsi al puro e semplice culo. Ma era sempre piacevole sentire il beep della finestra smart quando la mosca virtuale la attraversava e usciva. Ancora cinque successi e avrebbe guadagnato un altro livello in classifica.
Non ci sarebbe riuscito quel giorno. Tra un’ora circa sarebbe rientrata sua moglie, e di sicuro lo avrebbe costretto a interrompere le attività per fargli pulire il bagno, sistemare la sala o un altro dei mille lavoretti inutili che si divertiva a rifilargli. Un’ora era parecchio tempo, ma il problema era la temperatura esterna. Continuava a salire e la finestra si sarebbe sigillata molto prima, per attivare il climatizzatore e mantenere il clima interno sui valori più ottimali per il suo stato di salute.
O qualcosa del genere. Ermanno Floppi non aveva mai capito di preciso come facesse una finestra a calcolare tutta quella roba o a sapere cosa lo avrebbe fatto sentire meglio, ma c’erano di mezzo vari sensori, nuvole, statistiche e altra roba che per lui era peggio del lineare A. Le capiva sua moglie, la “scienziata” di casa: lui si fidava e basta. Dopotutto l’aveva sposata, no?
«Che ore sono?» chiese a voce alta. Gli rispose un qualche aggeggio in casa. C’era sempre qualche aggeggio che rispondeva, in casa. A volte Ermanno lo trovava un poco inquietante, ma più spesso lo trovava comodo. A ogni modo, tempo di fare l’ultima partita e poi chiudere.
Cominciò. La mosca sembrava più stupida del solito. Difficile dirlo, visto che le mosche non erano proprio la forma di vita più intelligente sul pianeta, ma questa non ne voleva proprio sapere di girare dalla parte giusta e infilare la finestra. Ogni volta che si alzava in volo, puntava verso il centro della sala e c’era da bestemmiare in finlandese per farla tornare indietro. Non che Ermanno bestemmiasse davvero: sua moglie l’avrebbe scorticato vivo e con tutta la roba che c’era in casa, beh, non ti potevi mica fidare. E se il frigo lo avesse registrato, per poi fare la spia? Meglio tacere. Molto più sicuro.
Ma la mosca non usciva e il tempo passava. Cominciava a fare davvero caldo. Così Ermanno decise che era il momento di ricorrere alla sua mossa segreta, che non era poi così segreta e nemmeno una mossa, ma a lui piaceva chiamarla così e dunque era la sua mossa segreta. Era la manovra utilizzata agli ultimi campionati italiani dal grande Gionatan Sputti, detto “Il Ronza”, con cui aveva vinto per tre anni di fila il titolo nazionale. Ermanno Floppi non la sapeva eseguire così bene, ma tentarci lo faceva sempre sentire importante. E poi la casa era vuota e stavolta nessuno gli avrebbe suggerito di farsi vedere subito da uno psichiatra, ma di quelli bravi.
Così il nostro eroe prese la rincorsa, oscillò le braccia a scatti, cambiò direzione due volte ad angolo retto, produsse ruggiti atti a stimolare una sana tensione nell’organismo, eseguì la particolare finta a paguro e si tuffò verso la finestra. Con un eccesso di foga, che lo portò a conficcarsi nell’apertura in una posa alla Superman.
Gli occhiali gli caddero, ma Ermanno li afferrò con uno scatto più suino che felino. Sudava come un uomo che ha appena terminato una lunga corsa durante un afosissimo pomeriggio estivo padano. E non era neanche estate. Però faceva caldo, lo doveva ammettere. Maledetto riscaldamento globale o quello che era. Almeno che la bolletta non la mandassero a lui...
La mosca non era uscita. Cosa aveva sbagliato nella manovra? Un errore c’era stato di sicuro. Forse più di uno, in effetti: non ricordava di aver mai visto Il Ronza infilato sotto una finestra, con la testa e le braccia che sporgevano nel nulla. O nell’aria, che non è proprio nulla ma un poco ci somiglia.
Ermanno Floppi sospirò. Meglio rientrare e ritentare.
Tump!
La finestra gli piombò sul collo con effetto ghigliottina. Dolorosa ma non letale, anche se un livido gli sarebbe rimasto di sicuro. E cominciò pure con un bip-bip-bip da gru in manovra, quella finestra maledetta. E premeva parecchio. Quanto voleva scendere ancora? Ermanno Floppi trattenne a fatica una poco ortodossa invocazione della divinità. Cercò di tirare dentro il braccio destro. Si incastrò all’altezza del gomito. Tentò col sinistro. Idem come sopra. Piegò la testa di lato e la ritrasse: si incastrarono le orecchie. Dolorosamente. Brutta storia.
Perché la finestra non lo aveva avvisato, prima di chiudersi? Lo faceva sempre! Ok, quasi sempre: a volte non era successo, d’accordo, ma non aveva avuto importanza, perché in quelle occasioni non c’era stato niente in mezzo. Stavolta c’era qualcosa. Qualcosa chiamato Ermanno Floppi. In casi del genere, la finestra avrebbe dovuto avvisare e attendere la rimozione del qualcosa. Se era davvero così smart come si voleva far credere. Ma non era successo.
E adesso?
La finestra beeppò ancora un poco, poi tentò di nuovo di mozzargli il collo, senza successo. Smise col suo suono maledetto, ma non con la pressione. Faceva piuttosto male. Fu una vera fortuna che in quel momento arrivò una potente bestemmia a distrarlo. Proveniva dal piano di sotto, dove abitava il geometra Gianfossi con la vecchia madre. Ermanno non lo aveva mai sentito bestemmiare, anche se era stato suo vicino per quasi dodici anni. D’altro canto, non lo poteva biasimare.
Perché dalla finestra del piano di sotto sporgeva una testa in avanzato stato di calvizie.
Contorcendosi un poco, Ermanno si infilò di nuovo gli occhiali. La testa che sporgeva dal piano di sotto continuava a essere una testa sporgente, ma adesso una didascalia la indicava come geometra Gianfossi, età tal dei tali, residenza questa e quella, eccetera eccetera. Informazioni di grande utilità, quando la tua finestra sta cercando di ghigliottinarti. Ermanno guardò altrove.
Lontana sull’orizzonte, dominatrice del paesaggio urbano, si ergeva la sagoma scura della piramide di Lambrate. Gli occhiali gli rifilarono parecchie notiziole di varia inutilità sulla Grande Opera, con la possibilità di zoomare su ogni dettaglio della sua architettura e prenotare questo o quel servizio. Ermanno ringraziò e rifiutò. Ma era proprio una rottura di scatole.
Dal piano di sotto gli giunsero i rumori di una persona che è parecchio scontenta del proprio posto nel mondo e sta cercando di migliorarlo, per esempio divincolandosi dalla finestra. La pelata sulla cupola del geometra si stava arrossando. Ermanno poteva simpatizzare: lui non aveva ancora pelate, ma rosso lo era di sicuro, specie con uno stipite premuto sul collo.
«Buongiorno geometra.»
Gianfossi torse la testa e alzò lo sguardo. «Buongiorno a lei, signor Floppi.»
«Bella giornata, vero?»
«Non c’è male. Un po’ caldo, forse.»
«Un po’ caldo, già. Ma di questi tempi...»
«Eh, di questi tempi...»
Seguì un protratto momento di silenzio. Quando sarebbe tornata sua moglie? Ermanno Floppi non lo sapeva, ma sperava presto. Poteva immaginare la sgridata che si sarebbe preso, ma pure quella gli andava bene. Sempre meglio che essere bloccato dalla finestra. E la mosca non era neanche uscita.
Correzione: una piccola sagoma scura gli attraversò il campo visivo e gli si posò sul naso. Adesso la mosca era uscita. Contava ancora? Erano sempre punti, dopotutto.
E con la finestra smart che gli premeva sul collo, una mosca virtuale sul naso e un vicino al piano di sotto che borbottava rosari alternativi, Ermanno Floppi pensò che, in fondo, la sessione di gioco era stata piuttosto positiva. Da un certo punto di vista.
Quanto gli mancava adesso al passaggio di livello?