Giustizia sicura
Era un giorno come gli altri, col solito caldo e la solita aria ricca di polveri sottili, auto a ronzare qui e là, umani a ronzare qui e là, videocamere di sorveglianza a controllare il polso della città e tutta la mercanzia smart che potevi immaginare, e poi ancora un poco, giusto per sicurezza. Stefano Bori se ne tornava a piedi dal supermercato, con tutta la serenità di chi ha fatto la spesa giusta, comprando i prodotti giusti con la tessera giusta e adesso li porta a casa in sacchetti ecobio, camminando perché fa bene alla salute e all’ambiente. Non toccava contanti da tredici mesi esatti e il suo lasciapassare di bravo cittadino era aggiornato come di dovere. Tutto andava bene, per lui.
Tutto continuò ad andare bene anche quando si fermò al passaggio pedonale, sempre per lui, ma per un altro passante andò decisamente peggio. Stefano lo vide sul lato opposto della strada, pure lui in attesa che il semaforo smart desse il via libera per l’attraversamento: un omino qualunque, il genere di persona che incroci per strada e dimentichi due secondi dopo. Solo una faccia, e neppure una che fosse interessante. Infatti non era interessante lui: erano interessanti i poliziotti che si avvicinavano.
Stefano Bori seguì la scena con la tranquillità di chi sa che non potrà attraversare fino a che non si sarà conclusa, per cui tanto vale metterti comodo a goderti lo spettacolo. Si mise comodo a godersi lo spettacolo, una mano nelle vicinanze dello smartphone nel caso accadesse qualcosa che valesse la pena di riprendere e condividere. Improbabile, ma non si poteva mai dire.
Non accadde. Quattro gendarmi accerchiarono l’omino in attesa e gli dissero qualcosa. L’omino non rispose. Un gendarme estrasse la pistola. L’omino rispose subito, e continuò a rispondere fino a che la pistola non tornò nel suo fodero. Il gendarme annuì e disse qualcosa a un collega, che ammanettò l’omino. Un altro parlava al telefono, il quarto assisteva in generale. Un ultimo chiacchiericcio e poi il gruppo si allontanò, con l’omino ammanettato e tenuto per le braccia. Giustizia era fatta. Stefano annuì e guardò il semaforo smart. Verde. Adesso poteva attraversare. Attraversò.
Arrivò a casa senza problemi, si identificò al portone smart, si identificò all’ascensore smart, salì, si fermò al piano giusto, si identificò alla porta del suo appartamento, entrò. L’assistente domestico gli diede il bentornato, il climatizzatore smart si attivò per fargli trovare l’ambiente più adatto alle sue esigenze fisiche, il frigorifero smart lo invitò a sistemare subito la spesa, il pavimento smart ordinò di togliersi prima le scarpe, che erano piene di germi e dovevano essere disinfettate, il bagno smart gli ricordò che era suo dovere lavarsi con cura le mani e insomma tutto come al solito, tutto normale e sano, razionale. Tutto giusto. Stefano Bori obbedì.
Più tardi, nella poltrona smart che si adattava perfettamente alla sua anatomia e alle sue esigenze di postura e relax, si concesse per un attimo il pensiero che forse quel genere di vita poteva essere un poco stressante, da un certo punto di vista, ma era per il suo bene e per il bene del mondo, quindi lui non se ne poteva lamentare. Era la cosa giusta, dopotutto. La società funzionava molto meglio così.
L’arresto a cui aveva assistito mentre tornava a casa, per esempio. Qualcosa del genere non sarebbe mai potuto accadere, una volta, ma una volta il mondo era barbarico e irrazionale. Adesso non lo era più. Adesso non solo cose simili accadevano di continuo, ma erano la norma ed era per il loro bene. Questo grazie all’ultima riforma della giustizia, che aveva spazzato via una volta per tutte le vetuste e vestigiali norme che si trascinavano ancora dai tempi del diritto romano. Preistoria, proprio.
La giustizia era questione di algoritmi, adesso. Governo e multinazionali osservavano tutto, a fin di bene, e registravano tutto. Ogni tua azione, ogni tuo spostamento, ogni tua frase, ogni espressione e i pensieri che quelle espressioni suggerivano. Tutto registrato e filtrato dagli algoritmi, che in breve potevano calcolare il tuo stato di cittadino. Finché rimanevi al di sopra di una certa soglia, tutto era a posto. Se scendevi, perdevi diritti umani in base a una precisa classifica. Molto semplice.
E come li perdevi? Ancora più semplice. Quando scendevi sotto la soglia, l’algoritmo inoltrava tutto il tuo dossier a governo e multinazionali di riferimento, che provvedevano a correggere il tuo status e disabilitare i servizi a cui non potevi più accedere. Se necessario, al passo successivo pensavano le forze dell’ordine: poliziotti per i crimini di lieve entità, droni di sicurezza per quelli più gravi. Tutto veloce, tutto chiaro, tutto lineare. Grazie alla riforma, avvocati e giudici non servivano più: enorme risparmio di tempo e di risorse per tutti. E maggiore equità, ovvio, perché era solo una questione di numeri, non di parole, e i numeri sono onesti e imparziali. Lo sanno tutti.
Stefano non era così sicuro di saperlo, ma sembrava funzionare. L’arresto a cui aveva assistito poco prima doveva essere stato per qualche infrazione lieve. Avevano inviato poliziotti umani, segno che il criminale non era così pericoloso. E infatti era andato tutto bene, lo doveva ammettere. All’inizio era stato un poco incerto, non gli sembrava una gran riforma, ma era giusto riconoscere che adesso andava molto meglio in città. Lui si era sbagliato e gli altri avevano avuto ragione. Succede.
E poi ti dava una certa soddisfazione vedere un fesso punito come meritava. Stefano Bori ghignò. E lo meritava di sicuro, perché altrimenti non lo avrebbero arrestato. Chissà cosa aveva fatto? Ma non era una domanda sensata. La nuova giustizia non aveva più una colpa sola, ma una somma di colpe e di comportamenti antisociali. Sgarravi per gradi e il sistema riusciva sempre a fermarti prima che la tua degenerazione portasse al crimine grosso. Molto più razionale e sicuro, ovvio.
Pure, la curiosità rimaneva. Chissà come si era comportato quel fesso?
Stefano Bori continuò a pensarci per un poco, ghignando nella solitudine smart dell’appartamento e rigirandosi in mente varie possibilità e fantasticherie. Poi gli passò la voglia e ordinò al televisore di accendersi sul suo programma preferito, che ormai era l’ora. Il televisore smart eseguì e ringraziò.
L’imprevisto accadde quasi due settimane dopo. Era domenica e Stefano Bori si era alzato tardi, ma non troppo tardi. Il suo turno di smart working sarebbe cominciato a mezzogiorno e sarebbe durato fino a sera, ma doveva comunque uscire per la passeggiata mattutina che il suo fisioterapista smart e il suo medico smart avevano concordato come essenziale al suo benessere psicofisico. Siccome era domenica, gli concedevano di attendere fino alle nove e trenta, invece di uscire alle sei, ma uscire a camminare restava comunque necessario e Stefano si stava preparando a farlo, quando il citofono lo interruppe, un calzino infilato e l’altro ancora in mano.
Chi poteva essere a quell’ora? Lo chiese all’assistente domestico.
«Un visitatore importante, caro Stefano. Vuoi che lo faccia entrare subito?»
Un visitatore importante? Stefano Bori guardò il calzino ancora in mano, guardò le gambe pelose e secche che attendevano di essere coperte dai pantaloni della tuta, pensò alla pettinatura da letto che ancora non era riuscito a domare. «Aspetta cinque minuti. Puoi?»
Un momento di silenzio. «Posso aspettare cinque minuti,» rispose l’assistente.
E sarebbero stati cinque minuti esatti, Stefano lo sapeva bene, così si affrettò a vestirsi e pettinarsi, aggiungendo una sciacquata extra di faccia e una spruzzata di deodorante, perché se era davvero un ospite importante era doveroso fare bella figura. Si sistemò davanti alla porta quando gli restavano ventidue secondi esatti. Ottimo tempo.
Ventidue secondi dopo, la porta smart si aprì.
Era un ospite, da un certo punto di vista, e probabilmente era pure importante. Stefano Bori non lo poteva negare. Il problema era che non si trattava del genere di ospite che aveva immaginato lui.
Era un drone. Un piccolo drone di sicurezza, poco più grande dei modellini radiocomandati che da bambino aveva desiderato tanto e che suo padre non gli aveva mai comprato. Sembrava ridicolo e a modo suo anche insignificante, a prima vista. Se ignoravi il simbolo della polizia, ovvio. Se invece non lo ignoravi, come stava facendo adesso Stefano, la sua ridicolaggine svaniva assieme a ogni sua insignificanza e restava solo una minaccia. E una promessa. Ma di quelle brutte, che speri non siano mai mantenute. Solo che stavolta forse sarebbe stata mantenuta. Anzi, togli il forse.
«Che cosa è successo?» chiese, con una voce che non sembrava la sua nonostante lo fosse.
«Lei è colpevole,» rispose il drone, con la solita voce fintamente femminile che usavano tutti.
Colpevole! Di cosa? Ma di qualcosa, ovvio. Gli algoritmi avevano controllato la sua vita quotidiana e avevano calcolato la sua colpevolezza accumulata attraverso una serie di microeventi che di per sé sarebbero stati insignificanti. Messi assieme e correlati, però, lo indicavano come colpevole.
«Non è possibile,» boccheggiò Stefano.
«È possibile. Lei è colpevole, signor Stefano Bori.» E il drone smise di librarsi in aria e cominciò a volare piano verso di lui, piccolo elicottero controllato da un server chissà dove.
Cosa sarebbe successo adesso? Qualcosa di brutto, ovvio. Gli avevano mandato un drone, non altri esseri umani come avevano fatto con quel fesso in strada. Lo consideravano pericoloso. Non troppo, è vero, perché il drone era piccolo e disarmato, ma pericoloso lo stesso. Cosa avevano calcolato sul suo conto? Cosa aveva fatto per meritarselo? Aveva sempre obbedito! Aveva sempre eseguito ordini e raccomandazioni! Non era giusto!
Ma lo era. Matematicamente giusto.
Il drone era quasi davanti al suo naso quando Stefano Bori andò fuori di testa. Si chinò, schivò, tese la mano, afferrò un ombrello accanto alla porta e si scagliò ululando contro il drone di sicurezza. Lo colpì una volta, due, tre, bastonandolo in aria come una casalinga selvaggia alle prese con un orrido pipistrello. O come lui immaginava che una ipotetica casalinga selvaggia avrebbe fatto.
Dopo il terzo colpo il manico dell’ombrello si ruppe, ma il drone era finito a terra. Ronzava piano e fischiava, come una specie di pentola a pressione. Stefano lo attaccò di nuovo, infilzandolo con quel che restava dell’ombrello. Il drone smise di ronzare e fischiare. Era morto? Forse, ma il problema al momento era un altro. Era morto anche lui dopo quel gesto.
Stefano Bori recuperò una parvenza di razionalità e si accorse di cosa aveva combinato. Una rivolta. Una ribellione. Una sommossa. Aveva sfidato l’ordine costituito. Aveva aggredito l’autorità. Peggio, aveva distrutto un frammento di autorità. Era il crimine peggiore. Perché lo aveva fatto?
Si sentì osservato, nudo al centro del palcoscenico. E lo era, a modo suo. La casa smart lo osservava e di sicuro aveva già inoltrato un rapporto. A breve sarebbero arrivati altri droni di sicurezza. Droni molto più grandi. Droni armati. Sarebbero arrivato per lui.
Stefano fuggì. Ignorò l’ascensore, che lo avrebbe imprigionato, e quasi rotolò lungo le scale, tanto il suo bisogno di andarsene, allontanarsi, lasciarsi tutto alle spalle era forte. Non sapeva dove andare, ma non era importante. Bastava che fosse da un’altra parte. E subito.
Arrivò in fondo e il portone smart non si aprì. Ovvio. Stefano raccolse un vaso decorativo e lo usò per rompere una finestrella. Era piccola, era stretta e ci mise un sacco a rompersi, ma alla fine aveva un buco da cui uscire, se osava. Stefano osò, tagliandosi qui e là con le schegge di vetro.
Fuori! Continuava ad accumulare altri punti crimine, ma non aveva più importanza. Il suo normale comportamento lo aveva portato a una condanna, per ragioni note solo agli algoritmi e a chi li aveva programmati. Che senso aveva preoccuparsi di altro? Non ne aveva. Quindi non se ne preoccupò. O finse di non preoccuparsene. Una parte della sua mente continuava a ripetergli che era sbagliato, che un buon cittadino non si sarebbe comportato così e lui era un buon cittadino, vero? Vero?
Falso. Lo avevano condannato. Non lo era più. Così Stefano Bori corse via, tra i lampioni smart che lo osservavano, i citofoni smart che lo osservavano, i semafori smart che lo osservavano, le vetrine smart che lo osservavano e insomma la città intera che lo osservava e seguiva ogni suo movimento. Ma fuggiva, perché non aveva altro da fare. Non gli era rimasto altro, ormai. Fuggire. Non serviva e non ci sarebbe riuscito, lo sapeva a livello razionale, ma la razionalità era un luogo che si era ormai lasciato alle spalle, lo aveva salutato quando si era trovato davanti il primo drone.
Sembrava un secolo fa, invece erano passati solo minuti.
E Stefano Bori correva. Pochi passanti lo guardavano, qualcuno lo filmò con lo smartphone, tutti gli altri si preoccuparono dei fatti propri e tirarono dritto. Era solo un tizio che correva. Avrà avuto una ragione per farlo, ma era una ragione sua, proprio come erano suoi i cazzi.
Abbandonò la strada principale e infilò una traversa, meno trafficata ma non meno sorvegliata. Due o tre auto a guida remota rallentarono un poco mentre gli sfilavano accanto, come automobilisti che vogliono ammirare un incidente, poi accelerarono di nuovo e si persero più in là. Anche Stefano se ne sarebbe andato volentieri per perdessi più in là, ma non poteva. Ancora non lo avevano raggiunto i droni di sicurezza, ma lo sapeva già. Non poteva fuggire. Pure, fuggiva.
Il ronzio arrivò due minuti dopo. Stefano aveva appena attraversato il ponte sul misero rigagnolo in secca che la città spacciava per fiume, sulla sua destra poteva vedere i primi alberi del parco, che si sporgevano appena da dietro il muro di recinzione. Un possibile rifugio? No, ma forse un luogo più comodo dove correre. Piuttosto che niente. Stava per virare da quella parte, quando lo sentì.
Stefano Bori si bloccò come un piccolo animaletto peloso davanti ai fari di un camion. Non voleva, ma si girò lo stesso. Lo vide. Un drone di sicurezza, ma stavolta un drone vero. Era grosso, armato e puntava verso di lui. Assomigliava a un piccolo aereo o un grosso aliante, ma soprattutto alla calata della giustizia. E veniva per lui. Nessun ombrello sarebbe riuscito ad abbatterlo.
Stefano Bori gemette, poi si girò e riprese a correre. Inutile, inutile e ancora inutile, ma era meglio e più dignitoso, da un certo punto di vista. Invece di arrendersi, si sarebbe opposto fino alla fine. Più o meno. Ormai non gli restavano alternative, dopotutto. Così corse verso il parco, con la milza che gli ruggiva nel fianco sinistro e i polmoni in gola, ma correva lo stesso.
Era in vista della cancellata, quando una persona uscì. Un uomo qualunque, un passante come tanti e troppi altri. Vide quel tizio che correva verso di lui, si fermò, vide il drone di sicurezza che calava sul tizio, alzò per un attimo la mano destra in un cenno che era metà saluto, metà offerta e per intero un gesto a casaccio, puro spasmo muscolare di fronte alla sorpresa. Stefano Bori mosse le labbra per dire qualcosa, tese le braccia verso il nuovo arrivato, scosse la testa, rantolò.
Poi il drone di sicurezza calò su di lui e giustizia fu fatta. Finì in un attimo.
Il tizio uscito dal parco rimase immobile a guardare il drone che si allontanava. Missione compiuta, già. Non era difficile capire cosa fosse successo, ma era più difficile capire come fosse successo. Un criminale in fuga? Una rarità, da quelle parti e in quel tempo. Qualcuno incredibilmente pericoloso, ovvio. Fortuna che tutto si era risolto per il meglio. L’aveva scampata bella, lui. Aveva già alzato le braccia per fargli chissà cosa, quel criminale. Ma il drone lo aveva protetto. Il tizio sorrise.
Non era molto piacevole vedere quei resti umani in mezzo alla strada, ma era per il bene di tutti e in una decina di minuti al massimo i droni di pulizia lo avrebbero rimosso. Il criminale se lo meritava. E tutto è bene quel che finisce bene,
Un mese dopo, il tizio uscito dal parco era seduto in salotto. Dalla stanza accanto poteva sentire gli strepiti dei figli che giocavano e probabilmente cercavano di uccidersi a vicenda, ma era normale in casa Sgonfiotti. Da bambino lo aveva fatto anche lui con suo fratello, dopotutto. Doveva essere una tradizione di famiglia. Adelmo Sgonfiotti sorrise. Al criminale che aveva visto morire all’uscita del parco non pensava più. Era stata giustizia, dopotutto. Normale amministrazione. E se l’era meritato.
Qualcuno suonò al citofono. Chi poteva essere a quell’ora? Lo chiese all’assistente domestico.
«Un visitatore importante, caro Adelmo. Vuoi che lo faccia entrare subito?»