Adriano - racconti e altro

Il lampione

L’elettricità ronza, sapete? Dico gli oggetti elettrici. Tipo la sveglia digitale sul mio comodino. Se avvicinavo l’orecchio, sentivo un sottile brrrr, costante, monotono. Non so cosa sia a farlo e non lo voglio sapere, ma so che può chiamare cose. E poi la sveglia non c’è più. Sul comodino, dico. L’ho tolta. C’è da essere matti a tenerla vicino alla testa, di notte. Perché le ombre non stanno sempre ferme. E con quello che è successo ad Amilcare, sapete...

Amilcare Frangiflutti, dico. Nome infelice, ma mica è colpa sua. Il nome ti arriva quando nasci e te lo devi tenere, bello o brutto. A lui è andata così e chissà le risate alle scuole medie, dove lavorava. Ma è la vita. Comincia con uno schiaffo e un urlo e lì c’è già dentro tutto. Amilcare era insegnante di matematica in pensione, secco, alto una scoreggia. La vita non lo aveva baciato in fronte, ma ci era arrivato in fondo, ormai. Non molto bene, ma ci era arrivato. Non molto bene nella testa, dico. Aveva le sue manie, come tutti. Forse anche qualcuna in più. Il rumore non lo ha aiutato.

Un rumore monotono e costante vi manda fuori di testa, sapete? Vi tira scemi. Come un martello pneumatico sotto casa, un trapano, una moto lasciata accesa proprio davanti a voi, che continua col suo bra-bra-bra-bra e non la finisce mai. Il mio vicino fa così. Lo ammazzerei. Quando viene caldo lui è lì, moto accesa tutto il giorno. Bra-bra-bra-bra. Da strozzarlo. Ma sto divagando. Dicevo di Amilcare e del rumore, vero?

Era un lampione, per lui: quello davanti a casa. Lo vedeva dalla camera da letto e dalla sala-cucina, dalle due finestre che davano sulla strada nel bugigattolo di appartamento in cui viveva, in un condominio popolare. Appartamento da mangia-caga-e-dormi, avrebbe detto mio padre, fine come sempre. Non un posto da starci con la famiglia, ma basta e avanza se sei vecchio e solo. Come Amilcare, appunto. O come me.

Dicevo del lampione. Magari l’avete visto, magari ci siete passati davanti. Forse non avete badato all’edificio, che è anonima come soltanto una casa popolare sa esserlo, in una via piena di altre case popolari, ma il lampione lo avrete notato di sicuro. Lo avrete sentito. Perché ronza. Lo fa ancora, che io sappia, ma mi mangerei una gamba piuttosto di tornarci. È come se ci fosse chiuso un insetto, ma bello grosso. Un moscone formato famiglia. So che la gente si girava a guardarlo, qualcuno si è anche lamentato, ma poi... Poi di solito non succede niente, no? Così il lampione deve essere ancora là, a ronzare. Stateci lontano, se potete.

Amilcare ci viveva davanti e lo sentiva tutti i giorni. O tutte le notti, se preferite. Dovevano sentirlo anche i vicini, ma non so come reagissero loro: io non ho mai chiesto e Amilcare non ha mai detto. Non erano molto amici, nel condominio. Saluti per le scale e stop. Ma Amilcare parlava con me e io parlerò con voi: con qualcuno bisogna pure parlare.

Lo aveva sentito la prima volta svegliandosi da un brutto sogno, in piena notte. Il ronzio, dico. Il sogno non importa e lui neanche se lo ricordava, ma il suono sì. Perché c’era silenzio in strada e silenzio in casa. O quasi silenzio. C’era un burrr, ma piano, che appena lo notavi. Veniva da fuori, assieme alla luce che disegnava i puntini della tapparella sulla parete di fronte. Un suono come una mosca, ma non era stagione da mosche. Era inverno, mi pare, o fine autunno. Non ricordo. Ma fuori si sentiva ronzare.

Doveva esserci qualcosa di guasto in strada, aveva pensato, ed era tornato a dormire. C’è sempre qualcosa che si guasta, no? Più vai avanti e più le cose funzionano male. È la vita anche questa, credo, ma poi ti abitui e alla fine è proprio quello che funziona un po’ storto a formare le giornate: la finestra da spingere per chiuderla, la serratura che gira a fatica, il cassetto che si incastra quando c’è umido. Ma a volte non è una forma bella. A volte è una forma che si muove al buio. Ma sto divagando, lo so.

La notte dopo si era svegliato ancora. E ancora. E ancora. Sempre quel ronzio nelle orecchie, o nella testa. Che poi è uguale, no? Passa dalle orecchie ed entra in testa. Amilcare non ci dormiva bene. Non è strano, almeno per noi che non siamo più giovani, ma lui dormiva male per il rumore. Diceva che gli faceva vibrare le ossa. Che lo intontiva. Che lo rimbambiva. Che. E ci avevo anche riso, io. Non è mica il lampione, è l’età, gli dicevo. Sbagliavo. Ma non sapevo mica delle ombre e del resto, prima. Adesso lo so.

Che poi è normale se un lampione fa un po’ di rumore, no? Doveva esserci la lampadina che si stava bruciando. Fanno spesso così. Subito un frrr un po’ fastidioso, e poi pac! Al buio. È così con le lampadine di casa, almeno. O sono i neon? Non lo so. Non so neanche cosa ci sia nei lampioni. Non una lampadina, secondo me, ma forse sbaglio.

Ne abbiamo discusso, a volte a casa sua, a volte giù al bar, quando ancora ci veniva. È la lampadina, è il neon, è quello che è. Alla fine abbiamo deciso che c’era qualcosa di guasto nel lampione e c’era da cambiarlo. Lo disturbava, giusto? E allora fatti sentire! Protesta col comune, chiedi di sostituirlo, no? Cosa ci vuole?

Lo avevo sentito anch’io e sì, era fastidioso. Facevo quella strada quando tornavo dal bar e a volte tornavo quando era già acceso. Non un rumore forte, ma sordo, vibrante, di quei suoni che sono carta vetrata sul cervello. Un buuurrr che ti viene di prendere e strozzare qualcuno, come quando sento la moto del mio vicino. Come facevano a viverci davanti?

Aveva protestato, Amilcare. Non so chi si occupa di quelle robe. Forse un ente per la manutenzione delle strade, se ne esiste uno, ma Amilcare si era fatto sentire più volte. Prima per telefono e poi di persona, su in comune a lamentarsi, cappello in testa e piedi che strisciavano sul marciapiede. Faceva un po’ ridere a vederlo, ma ormai aveva la sua età e bisogna capire. Era una brava persona, a modo suo: particolare ma brava.

Non è mai venuto nessuno. Il lampione funziona, rispondevano. Il lampione fa un casino che non si dorme, ribatteva Amilcare, ma loro niente. Funziona, dicevano, e se fa un po’ di rumore, beh, che ci vuole fare? Sono vecchi, lo so, e bisognerebbe cambiarli, ma di fondi non ce ne sono e così... E così il lampione ronzava, i pochi passanti si giravano e Amilcare dormiva male.

E impazziva. Mi costa dirlo, perché era un amico, ma stava andando fuori di testa. Quando invecchi succede: a mia nonna era venuto anche l’Alzheimer, e alla fine non sapeva più neanche da che parte era girata. O come Carlo, con cui ho lavorato una vita: sta alla casa protetta, adesso, e ha solo qualche anno più di me. Ad alcuni va bene, ad altri no. Amilcare doveva essere uno dei no.

Aveva smesso di parlare del lampione dopo un mese o due. Si era abituato o forse gli era scappato di mente. Succede anche questo. Gli anni ti scavano buchi nella testa e le cose ti scappano fuori. Come acqua o urina. Ma non ti dà più fastidio, gli avevo chiesto. E lui no, non è un problema, mi fa compagnia. È la gente il problema, quella che mi gira per casa.

Gente che gli girava per casa. Lo capite anche voi che si stava rimbambendo, no? Sono tre stanze in croce, non c’è mica tanto posto per girare. Dove la metti tutta quella gente? Che poi non aveva più quasi nessuno: chi lo andava a trovare, a parte me? Aveva una sorella finita chissà dove e forse era ancora viva, ma non la sentiva da anni. Io neanche l’ho mai vista, se non in una foto vecchia di anni.

Che gente poteva girargli per casa? La gente del lampione, diceva. Sono come gli insetti con la luce, ma loro vanno dal rumore. Ma se scoprono che tu li vedi, poi vengono da te. Capisci? Ah beh. Tutto chiaro, sì. E io scuotevo il capo e sospiravo. Non gli faceva mica bene starsene chiuso tutto il giorno in quell’ambiente. Ti tira scemo, appunto.

Vivere solo e andare fuori di testa. È brutta davvero. Ma i problemi non finivano con la testa: partivano da lì, semmai. Faceva poco di tutto: mangiare, dormire, uscire. Mi toccava andare sempre a casa sua, ormai, dove era rintanato come uno scarafaggio. Magro che gli facevi una radiografia controluce, grigio in faccia. Doveva essere malato, ma di cosa? Saperlo! È piena di malattie la vecchiaia e ce ne vuole a schivarle tutte. È la storia delle cose che alla lunga si guastano, no? Vale anche per noi.

Vieni fuori, gli dicevo. Andiamo al bar, che almeno vedi qualcuno. Vai dal dottore, che magari ti dà qualcosa. Ma lui no, niente. Sempre seduto in sala, sempre davanti alla finestra. Che è normale, per noi, perché almeno si vede un po’ di vita. Ma lui non guardava la vita. Guardava solo il lampione. Anche da spento, guardava solo il lampione. E ascoltava.

Non c’è mica bisogno di uscire, mi diceva. Sono loro che vengono. Ce li ho sempre qui che girano, non mi lasciano stare. Non stanno mai zitti. Son venuti col rumore e adesso non vanno più via. Ma loro chi? Loro. Terza persona plurale, pronome dei matti. Mi preoccupavo, ma cosa ci potevo fare? Farlo interdire? Mica ero un parente, solo un amico. E poi non ero sempre sicuro che fosse matto, sapete? Non del tutto. Perché a volte mi fermavo da lui fino a sera, quando il lampione si accendeva e il rumore cominciava.

Non erano serate belle, seduti nella sua sala scialba, con angolo cottura incorporato, a sentire i deliri su gente che non c’è, al buio, solo il lampione per vederci. Perché non voleva accendere la luce, Amilcare. L’ho pure detto che aveva le sue manie, no? E le ombre erano ovunque, fitte, e non facevano mica bene ai miei occhi. Neanche ai suoi, credo, ma non erano un problema. Quando un vecchio insegnante ti delira di rumori che chiamano cose da altre parti e riempiono la casa di gente, non sono mica gli occhi il suo problema. Capite?

Diceva che il lampione faceva tremare tutto, apriva delle crepe. Ma crepe dove? Crepe. Attorno. È lì che vivono. Dietro. Ma quando si aprono, ti sentono e vengono a cercarti. E se ti trovano... E lì mi fermavo, perché la sua faccia non mi piaceva. Era la faccia di chi si prepara a salutare tutti e via, verso nuovi mondi della demenza. È una parola brutta, lo so, ma è la parola che pensavo allora. Non la penso più, adesso. Perché altrimenti la dovrei pensare anche di me.

Ma qualcosa tremava, in sala. Dico le ombre. Si muovevano come rami quando tira vento, a volte. Altre volte come persone che camminavano. Doveva essere quello il problema di Amilcare. Vedeva le ombre, nel buio, e le prendeva per gente. È chiaro, no? Perché la testa cominciava a fargli acqua. Ma no, lui insisteva.

«Si muovono,» diceva. «Vengono dal lampione. Escono dalle crepe. E mi cercano. Perché sanno chi sono. Sanno dove sono. Ma non stare qui troppo, che poi ti vedono e vengono anche da te.»

E io mica stavo lì troppo. Seduto al buio con un mezzo matto: chi ci voleva stare a lungo, anche se era un amico? E poi le ombre mi davano fastidio. Cominciavo a vederci doppio, con quella luce, e gli occhi mi facevano strani scherzi. E poi il buurrr del lampione mi tirava scemo.

Da allora passai a trovarlo sempre meno. So che non è bello da dire ed è anche peggio da fare, ma è così. Proprio come non vado più da Carlo, ora che sta alla casa protetta, anche se abbiamo speso anni in ufficio assieme. Perché non ci posso fare niente, capite? Né per Amilcare né per Carlo. Ed è brutto vedere un amico messo così. Meglio girarsi da un’altra parte. Siete d’accordo, vero? Era ancora peggio con Amilcare, perché la pazzia può essere contagiosa. Se ci stai troppo vicino, dico. E il rumore del lampione aveva un modo tutto suo di piantartisi in testa.

Cominciavi a pensare anche tu a cose strane sulle ombre. Cose che è meglio non pensare, se hai una certa età e vivi da solo. La gente potrebbe prenderti per matto.

Poi è successo che sono passato davanti a casa sua una sera, di ritorno dal bar. La strada era vuota, il lampione ronzava e ronzava, come se dentro ci fosse chissà cosa che voleva uscire, insetti o forse altro, e il condominio di Amilcare era silenzioso, due finestre illuminate, tutte le tapparelle giù, non un suono, non un movimento. Come se non ci fosse nessuno, dentro.

Perché tutti i movimenti erano attorno alla casa. La facciata dell’edificio era coperta di ombre.

Ombre informi, che strisciavano come mosconi sulle pareti, sulle tapparelle abbassate; ombre che si incrociavano, si scavalcavano, si annodavano, si mischiavano e si separavano di nuovo. Come se fossero solide, come se avessero un corpo. Strisciavano sulla casa in ogni direzione e a volte si fermavano attorno a una finestra, come a spiare. E vibravano, ferme sul posto. Poi si disperdevano e ricominciava il continuo, impossibile strisciare. E io lì, sul marciapiede, a guardare quell’orrore, il ronzio del lampione a riempirmi il cranio di uno sciame di vespe.

Sono scappato, lo ammetto, ed è stata l’ultima volta che ho percorso quella strada di sera, quando è buio e l’illuminazione è accesa. Non la percorrerò mai più. Perché ero stato al bar, è vero, e avevo bevuto, ma non abbastanza. Non erano ombre uscite da un’ombra di vino, credetemi. Vorrei che lo fossero, ma non è così. Perché da allora la notte non è più stata tranquilla.

Vidi Amilcare un’ultima volta, di giorno, mentre il lampione era spento. Era spento anche Amilcare, più vecchio che mai, più sciupato negli abiti da casa. «Sono qui,» disse. «Li sento anche di giorno, adesso. La crepa è troppo larga. Mi hanno trovato.»

E come gli rispondi a uno che ti parla così? Non lo so. Forse ho sbagliato, forse voi avreste fatto di meglio, perché l’unica cosa che seppi dirgli era che no, stava male lui, doveva davvero parlarne col dottore. Dormire è importante, sapete, e lui aveva occhiaie che facevano provincia. Da quanto non dormiva tutta una notte? Poi mi ricordai le ombre sull’edificio e non parlai più. Me ne andai. Voltai le spalle al mio amico e scappai. La pazzia è contagiosa, come ho detto, e io avevo paura.

Paura di essermela presa. Paura che non fosse solo pazzia. Che qualcosa potesse davvero trovarci.

Lo trovarono tre giorni dopo, di notte. Quelli al piano di sotto avevano chiamato i carabinieri dopo che Amilcare aveva continuato a urlare per cinque o sei minuti. Poi aveva smesso. Definitivamente. Il suo corpo era in sala, davanti alla finestra, due cacciavite piantati storti nelle orecchie. Suicidio, dissero, e suicidio fu. Cos’altro poteva essere?

I carabinieri notificarono anche il rumore del lampione, che era molto forte quella notte. Possibile che il suono lo avesse mandato fuori di testa? Due vicini ne approfittarono per dire che sì, era una gran rottura di scatole e forse era il caso di fare causa al comune. C’erano possibilità? Se ne parlò, ma alla fine non si fece nulla. Perché i coinquilini erano concordi su un punto: il signor Amilcare Frangiflutti era mezzo matto. Un vecchio particolare, pieno di manie, che faceva sempre un gran rumore di sera. È una disgrazia, ma sono cose che capitano. È la vita.

Così il corpo di Amilcare fu portato via, l’appartamento svuotato e adesso ci vive un’altra famiglia, una che non conosco e non conoscerò mai. Il lampione è sempre lì, davanti alle finestre, e di notte continua ancora col suo rumore. O così dicono. Io girerò alla larga e sostituirò tutti gli aggeggi che cominciano a ronzare. Perché ogni tanto le rivedo qui attorno.

Dico le ombre che si muovono da sole, strisciando sulle superfici. Forse cercano qualcuno, uno che hanno visto altrove e non dimenticato. Forse hanno bisogno di un suono che le guidi. Forse ci sono crepe e i suoni le fanno uscire. Le ombre, che si muovono di notte.

O forse sono solo deliri, ma io sto comunque meglio nel silenzio, senza oggetti che ronzano. Non si sa mai, capite? Non si sa mai.

Dite che dovrei far tacere anche la moto del mio vicino?

di Adriano Marchetti