Il punto era un altro
Giulio Canna era già scomparso, ma ancora non lo sapeva. Così parcheggiò nel solito posto, a circa duecento metri da casa, contemplò la polvere fresca sulle fiancate e si incamminò nell’afa estiva del tardo pomeriggio. Quasi sera, ormai.
I piedi gli facevano male, ma non era questo il punto. È normale dover fare un poco di strada, per chi abita nel centro storico. È zona pedonale e l’auto la devi parcheggiare lontano, se non hai il garage. Lui non l’aveva. Il suo vicino, l’avvocato Beghini, parcheggiava sempre sotto casa, anche se non aveva il garage, ma evidentemente lo poteva fare, per qualche motivo. Buon per lui. Il punto era un altro.
Infilò le chiavi nel portone e aprì. Lo aspettavano lunghe rampe di scale, strette e con gradini piccoli e assurdamente ripidi. Per la centoduesima volta si chiese come avrebbe fatto un invalido a viverci, senza uno straccio di ascensore. Andando a vivere da un’altra parte, si rispose. Il centro storico era stato pensato per bipedi con tutti gli arti funzionanti, come in ogni città: gli altri non erano graditi. Deturpavano l’estetica del palazzo, forse.
Sulla terza rampa, incrociò la signora del secondo piano, che a quell’ora usciva col botolo schifoso e ringhioso che lei definiva cane. Come sempre non si salutarono (nessuno lo salutava, nell’edificio, e lui ricambiava) e come sempre Giulio si fece da parte, schiena al muro, per cedere il passo alla dama con cagnolino. Il cagnolino gli passò quasi attraverso una gamba, padrone dei gradini quale era. Il bipede sopportò a capo chino.
Con una smorfia, riprese a salire, sudando e sbuffando. Non gli piaceva fare tutti i giorni quelle scale, ma sopportava, come da bambino aveva sopportato le mille battute orribili sul suo cognome. Era maestro nel sopportare, ma non era quello il punto.
Arrivato al terzo piano, chiuse la porta dietro di sé, lasciò cadere la valigetta e scagliò via le scarpe. Già che si trovava in basso, il suo occhio colse anche i peli, che il botolo gli aveva lasciato sul pantalone, strusciandolo senza alcun riguardo. Che simpatico regalo! Era stata una giornata schifosa e non c’era bisogno di peggiorarla, ma in qualche modo ci riusciva sempre. O altri ci riuscivano per lui, il che è più o meno lo stesso.
Mangiò senza gusto la specialità della casa, quella pasta al tonno che si preparava sei giorni su sette, ricetta classica di studenti fuori sede e scapoli, e forse altre scorie umane. L’acqua non bastava a spazzare via la polvere della campagna, così si concesse una birra, sul divano. Era sfatto, Giulio.
Rappresentante di cancelli automatici! Ci sono lavori più schifosi del suo? Sicuro, ma riteneva che un posto nella top ten lo meritasse. Girava per le campagne da mattina a sera, studiava le case con la diligenza di un ladro, lodava qualità e vantaggi di un cancello automatico, cercando di convincere gente che lo fissava come se fosse un paramecio e che, probabilmente, era incerta se farlo inseguire o meno dal cane da guardia. Pure i becchini avevano clienti migliori.
Ma non era questo il punto. Peccato solo che Giulio non si ricordasse più il punto. Era stato chiaro in auto, mentre tornava a casa, ma adesso gli sfuggiva. Ci aveva pensato parecchio e aveva trovato la soluzione. No, la spiegazione. La spiegazione della soluzione, sì. C’entrava qualcosa il suo appartamento, e forse anche il suo lavoro. O giù di lì. Dettagli. Il punto era...
Si massaggiò le tempie, adagio. Ecco che arrivava il solito mal di testa. Forse stavolta c’entrava pure la birra, visto che lui reggeva l’alcol come reggeva una tonnellata di cemento, ma non era tanto per quello. Il punto era qualcosa che non gli veniva in mente. Ma c'era, perdio!
Si alzò in una sinfonia di articolazioni schioccanti. Vagò per l’appartamento, cercando cose che non cercava. Spostò un paio di oggetti e li rimise a posto. Poi non ne poté più di quella casa soffocante, senza aria condizionata, dove tutto sembrava puzzare di polvere (e in parte era proprio così). Infilò un paio di ciabatte e si avviò verso il terrazzo, sul tetto.
Non gli piaceva fare le scale, soprattutto in estate, e non gli piacevano i luoghi alti. Anzi, aveva un sacro terrore delle altezze. Eppure abitava al terzo piano, senza ascensore; eppure saliva sempre in terrazzo, quando aveva bisogno di prendere aria. Aveva poco senso, in effetti, ma non era quello il punto. A volte fai quello che ti piace, a volte fai quello che ti resta.
Così arrancò sul terrazzo, alla ricerca di un poco di aria fresca, e naturalmente di aria non ce n’era. Di solito, verso sera, si alzava un po’ di vento, a far respirare anche la città, ma non oggi. Il posto era una distesa riarsa di mattonelle sbiadite, affossata in mezzo a colline di tegole di vago color arancione e comignoli rovinati dal tempo. Nel golfo del terrazzo, pareva che il caldo di ore sotto il sole si fosse attardato solo per lui. Che tesoro!
No, non solo per lui.
In un angolo c’era un vaso con una pianticella stentata. C’era sempre un vaso sul terrazzo. Anzi, il vaso, perché non cambiava mai. O forse cambiava, ma poi era sempre uguale. Dettagli. A volte gli capitava di pensarlo come un amico, il migliore che si fosse fatto in città, ma era solo una fantasia. Ma il vaso era sempre lì, quando Giulio aveva bisogno di lui. E, d’altra parte, un vaso non poteva certo prendere su e andare via.
«Buonasera» lo salutò Giulio, sentendosi stupido, ma non troppo. Si fermò a un paio di metri dalla ringhiera, la distanza di sicurezza per non avere crisi di panico, e guardò il mare di tetti ancora cotti dal sole, anche se al tramonto. Non c’era niente per lui, là sotto. Né aria, né un anello che non tiene: solo tegole su tegole, che gli davano le vertigini. Ma non era salito per cercare qualcosa, né si aspettava di trovarlo laggiù. Il punto era un altro.
Si girò di nuovo verso il suo compagno di solitudini, fissò a lungo la pianticella stentata e poi capì. Ecco cos’era il punto! Non era giusto: questo era il punto. La pianta lo fissò a sua volta e sembrava dargli ragione. Sì, Giulio, è proprio così. Bene!
Non era giusto. Tutto il giorno avanti e indietro per quella maledetta campagna, a pregare la gente di comprare un inutile cancello automatico, a baciare i piedi dei pochi che gli facevano il favore di ordinarne uno. Poi tornava a casa e parcheggiava in culo al mondo, perché era centro storico e ok; ma allora non era centro storico anche per l’avvocato Beghini, che parcheggiava sotto casa e l’auto la usava solo ogni tanto? E poi, nessuno lo guardava, nessuno lo salutava. Ok, neanche lui salutava molto, ma erano gli altri che non lo salutavano. Lui rispondeva soltanto al non saluto.
Giusto? La pianta seguiva attenta il discorso e gli dava ragione. Fece per continuare, gonfio di un afflato divino o forse di birra, ma sul terrazzo si affacciò la vecchia che abitava al terzo piano, di fianco a lui. Signora Odetti, Orpelli, o quello che era. Non se lo ricordava. Una vecchia coi capelli quasi blu e gli occhiali, un poco tracagnotta.
La signora Offredi si guardò attorno, guardò attraverso Giulio e si incamminò con la sua andatura un po’ incerta di settantenne. Ritirò un paio di asciugamani, se li gettò su un braccio e tornò verso le scale, con uno sbuffo. Il terrazzo fu vuoto di nuovo.
Giulio Canna si sentì per l’ennesima volta invisibile, e anche questo non era giusto. Era come se lui non esistesse nemmeno, in quella casa; eppure pagava l’affitto e le spese condominiali, come tutti. Potevano almeno degnarlo di qualche rispetto, ogni tanto! Scosse la testa, sentendosi la persona più sola dell’universo.
Era pronto a ripartire con la filippica, quando qualcosa in lui si spense. Non ne valeva la pena, ecco tutto. Peggio ancora, non aveva senso. Parlare a un vaso! Meglio lasciare perdere le birre dopo cena.
Buttò un altro sguardo alla compagna pianta, abbandonata sul terrazzo. Chi ce l’aveva messa?, si chiese. Non lo sapeva. Chi la innaffiava? Non lo sapeva. Che tipo di pianta era? Non lo sapeva. Da quanto era lì? Non lo sapeva. Come faceva a sopravvivere con quel caldo? Non lo sapeva.
Eppure stava lì da anni ed era ancora viva. Non certo una pianta da gran premio, ma era viva: su un terrazzo ospitale come Mercurio, costretta a sopportare i lamenti di uno come lui, senza poter dire nulla, non era impresa da poco. Chissà come faceva.
Giulio la osservava ancora. «Come fai?» le chiese, ma la pianta non gli rispose. Non ti rispondono mai, le piante, se non dopo che sei impazzito. Così, alla fine, le voltò le spalle e si avviò a propria volta verso l’appartamento al terzo piano, come già la signora Offredi, assieme alle recriminazioni su generiche ingiustizie del mondo, di cui lui era la povera vittima designata. La pianta rimase sola sul terrazzo, bagnata dagli ultimi riflessi del giorno.
E forse in tutto questo si celava una qualche morale, ma Giulio Canna non la sapeva cogliere.