In nome dell'algoritmo sovrano
Il problema era stato l’astensionismo, o così dicevano. Sempre meno persone andavano a votare e il rapporto costi-benefici diventava sempre più negativo. Perché spendere tanti soldi per allestire seggi e altro, se poi solo quattro gatti si prendevano la briga di usarli? Non aveva senso. Non ne valeva la pena. E poi erano sempre tutti insoddisfatti dei governi, comunque andassero le elezioni. Ingrati!
La soluzione fu l’algoritmo. Perché affidare decisioni così importanti al ghiribizzo del momento, ai pochi che andavano a votare e che spesso lo facevano senza rifletterci davvero? Roba antidiluviana, davvero! Molto meglio registrare ogni azione dei cittadini, ogni parola, ogni cosa, e lasciare che un algoritmo calcolasse il governo più appropriato per il popolo in quel particolare momento e alla luce dei dati sulla situazione politica ed economica internazionale. Avrebbe anche responsabilizzato tutte le persone, sapendo che ogni loro atto contribuiva in forma concreta a decidere il futuro del paese.
Tutti pro e nessun contro, giusto?
All’inizio Michele Cammelli l’aveva pensata così. Votare era sempre stata una rottura di scatole per lui, perché ci teneva a fare bella figura. Così si documentava, studiava i programmi, i candidati, con un occhio a come si sarebbero mossi sul palcoscenico globale, e alla fine si sentiva depresso, perché i risultati erano orribili. Quella riforma avrebbe cambiato tutto, giusto? Adesso la responsabilità dei cittadini sarebbe stata molto più chiara e semplice: quello che fai decide il futuro del paese. Bastava solo comportarsi bene e incitare gli altri a fare altrettanto, così tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi possibili, per il migliore dei mondi possibili. Era ovvio.
Solo che qualcosa doveva essere andata storto, perché i risultati erano molto diversi dalle promesse e dalle premesse. O forse erano i cittadini a essere sbagliati? Una possibilità da non sottovalutare e lui non la sottovalutava mai, specie quando doveva recuperare e rimettere a posto i prodotti che vari clienti del supermercato lasciavano in giro dove capitava. I surgelati, soprattutto. Michele detestava quello che la gente faceva ai surgelati. Era immorale.
Apri il banco frigo e prendi un prodotto. Poi decidi che non lo vuoi più e preferisci comprare altro e fin qui tutto bene, ci sta. Perché non lo rimetti nel banco frigo? Perché lo abbandoni su uno scaffale a caso? Bisogna essere davvero stronzi, almeno secondo il suo modesto parere.
Molti clienti lo erano, a quanto pareva. Come se non gli bastasse il suo lavoro normale di rifornire i vari scaffali, a Michele toccava anche l’extra di dover riparare i danni causati dai clienti. E non era sempre possibile ripararli: se non li vedevi in tempo, i surgelati abbandonato fuori si rovinavano e li dovevi gettare. Soldi e cibo sprecati, e tutto per colpa della pigrizia umana.
No, era ovvio che il sistema non desse i risultati giusti, quando la gente era così. Se tu per primo sei irresponsabile, è inevitabile che l’algoritmo ti darà un governo irresponsabile. Perché a decidere sei tu, e voti con le tue azioni, le tue parole, i tuoi pensieri. L’algoritmo fa quello che può, ma quando la materia prima è così scadente, beh...
«Penso che ti stai facendo troppi problemi, Michele,» gli disse Alberto Gioppini, posando sul tavolo il suo boccale quasi vuoto. La birra sintetica faceva schifo, ma era sempre meglio di niente. Sempre meglio che sentire le lamentele del vicino di casa ed ex collega, per esempio, ma in fondo si faceva a turno, oggi mi lamento io e domani tu, e pace. Però aveva bisogno di una svegliata, quel tipo.
«Non mi sto facendo troppo problemi,» disse Michele. «Sono solo responsabile. Non lo capisci? Se solo ci comportassimo tutti meglio, avremmo anche un governo migliore e il paese funzionerebbe.»
Alberto lo fissò, sopracciglia inarcate. «Ci credi davvero. Tu ci credi davvero a quella storia.»
«Certo che ci credo davvero! È... vera, no? Voglio direi, funziona. Ha senso.»
«Ha senso. Funziona. Quindi secondo te mi hanno licenziato perché ci siamo comportati tutti male? Hanno deciso di sistemare ovunque casse automatiche per, non so, correggere le nostre azioni?»
Michele si morse le labbra. Finiva sempre con quella obiezione. Ok, non era bello essere licenziati così e poteva capire l’amarezza dell’ex collega, che aveva perso il posto per essere sostituito da una di quelle casse automatiche, ma non era anche quella una prova che, cioè, qualcosa non era andato a buon fine, che c’era un errore da correggere? Non che l’errore fosse proprio Alberto, non l’avrebbe messa in quei termini, ma c’era un errore, da qualche parte, e il governo l’aveva corretto così. Forse non il modo più piacevole, ma il più efficiente, visto che lo aveva calcolato l’algoritmo. Prima c’è la comunità e solo dopo l’individuo. Cose così. Capite.
«Però adesso hai i sussidi,» obiettò. «Hai un bonus comunitario.»
«Per adesso. E per dopo?» Alberto sospirò. «Ma non è questo il punto. Il punto è che non c’entra un bel niente cosa facciamo e come ci comportiamo noi. L’algoritmo è una balla. È una scusa. Tutto è deciso da qualcuno, che poi dà la colpa o il merito all’algoritmo. Va sempre così.»
Michele Cammelli si arrese. Inutile continuare la discussione. Alberto Gioppini era anche una brava persona, a modo suo, ma era un complottista e vedeva piani segreti ovunque. Non credeva a niente e non si fidava di niente, neanche quando tutto era così chiaro e lampante. C’era un algoritmo, il suo lavoro era raccogliere tutti i dati sulle persone, intrecciarli con quelli sulla situazione internazionale e calcolare il governo migliore. Più dati raccoglieva e più corretto era il risultato. Semplice, no? Era dovere di ognuno aiutarlo sul lavoro e costruire assieme il futuro migliore. O roba simile.
«Penso che abbiamo bevuto abbastanza per oggi,» disse. «Potremmo dare una cattiva impressione.»
«A chi, al barista automatico? È solo un distributore: tu passi la carta, ordini e ricevi la tua bevanda al gusto di quello che hai ordinato. Che poi il gusto neanche ci assomiglia, ma ok.»
Michele scosse la testa. «Se continuiamo a bere, chissà che risultato avranno le nostre azioni.»
«Sul futuro governo? Sul calcolo infallibile? Posso dirti che effetto avranno sulle mie tasche: presto si svuoteranno. Questo sì. La mia quota di bevande è quasi finita. Il resto? Tutte cazzate.»
«Non sono cazzate! È che tu non...»
Alberto lo interruppe con un gesto. «Va bene, va bene, andiamo pure. Domani mi aspetta una lunga giornata di niente: ho bisogno di tanto riposo per affrontarla al meglio.»
Andarono. Poca gente per strada, lampioni smart che illuminavano solo la zona di marciapiede dove qualcuno stava passando, per risparmiare energia e non infastidire gli insetti notturni. Citofoni smart che osservavano e registravano, semafori smart che regolavano il poco traffico elettrico, negozi con vetrine smart che osservavano cosa stavi osservando, per suggerire una disposizione più efficace dei prodotti. Forse da qualche parte c’era anche una luna smart, ma le nuvole smart la coprivano. O non era ancora arrivato in cielo, lo smart? Michele non lo sapeva, ma preferiva non parlarne. Con le idee che aveva Alberto, chissà che risposte avrebbe ricevuto.
Ma non era proprio una cattiva persona. Era solo fatto così. E un poco palloso, d’accordo, ma anche uno dei pochi conoscenti che lui avesse, per cui Michele Cammelli si doveva accontentare. Meglio di essere sempre soli, come minimo. In generale. Di solito. Più o meno. Se ci pensate bene.
Superarono una panchina a castello, con entrambi i piani occupati da un senzatetto. Non avevano le coperte, ma in fondo il clima era buono, la serata piacevole e forse non ne avevano bisogno. Non un suo problema, in ogni caso. Oppure se ne sarebbe dovuto preoccupare? Michele si fermò.
«Dici che dovremmo dare loro una coperta?» chiese.
Alberto lo guardò male. «Perché?»
«Sarebbe un gesto, non so, altruista e potrebbe migliorare il calcolo.»
«Il calcolo. Se hai una coperta in tasca, dagliela pure. Se ne hai due, meglio ancora. Se non ne hai, è meglio che lasci perdere queste scemenze e ce ne andiamo a casa. Chissà che risultati potrebbe dare l’algoritmo se torniamo troppo tardi, no?»
Michele non ci aveva pensato. Meglio aiutare qualcuno o rientrare presto? E l’aiuto era richiesto? Il mondo aveva troppe variabili e nessuno le poteva calcolare. A parte l’algoritmo, ovvio: proprio per questo ne serviva uno e proprio per questo tutti gli ex stati della comunità lo avevano adottato più o meno spontaneamente. Era necessario per sopravvivere ai tempi moderni. Lo dicevano gli esperti.
«Forse è meglio tornare subito a casa.»
«Forse è meglio, sì. E forse è meglio anche se smetti di pensare a queste scemenze. Tutta la storia di algoritmi e governi calcolati è solo una balla per fregarti. È sempre solo una balla per fregarti.»
Michele non abboccò e lasciò cadere l’argomento. Raggiunsero il modulo abitativo, salutò il vicino e si diresse verso l’appartamento, che era un monolocale triste, ma era almeno tranquillo e in fondo a lui non serviva molto di più. Non hai davvero bisogno di molto spazio, quando vivi da solo. Meno cose da pulire, poi. Pulire la casa non era la sua attività preferita, dopotutto.
Si identificò alla porta, entrò, si tolse le scarpe e si abbandonò sulla poltrona. Un altro giorno andato e tutto, beh, forse non funzionava al meglio, ma almeno proseguiva sulla strada giusta. Tanti clienti disordinati e maleducati, sì, ma in strada c’era meno sporcizia, i locali erano più tranquilli e prima o poi il mondo sarebbe stato davvero il migliore possibile, non ne aveva dubbi. Ok, qualche dubbio lo aveva, ma erano piccoli e in fondo non contavano, se ci pensava bene. Bisognava guardare sempre a quello che sarebbe venuto poi, il bene delle generazioni future e palle varie. Era più responsabile.
Era stata la scelta giusta, quella delle coperte?
Michele non lo sapeva, ma non riusciva a liberarsi dal pensiero.
Prese lo smartphone e lanciò l’app di cittadinanza. Il suo status non era cambiato, i suoi punti erano ancora allo stesso livello di ieri e tutto sembrava a posto. Solo che non lo sembrava. Qualcosa c’era, una qualche differenza che non riusciva a identificare ma che sentiva. Cosa?
Lo scoprì il giorno dopo, guardando il notiziario mentre faceva colazione con una poltiglia rosacea che aveva un sapore orrendo, ma era molto nutriente ed ecologica. Era la prima notizia, più o meno l’unica per cui c’era spazio. Il governo era caduto.
Perché? Perché l’algoritmo aveva calcolato che non rispondeva più alle esigenze della cittadinanza e dei mercati ed era tempo di cambiare. Così lo aveva cambiato. C’erano discorsi e dichiarazioni, e panegirici e analisi, e questo e quello: tutta la paccottiglia che accompagnava sempre quegli eventi. Il nuovo governo si sarebbe insediato il giorno seguente e tutto sarebbe tornato a posto. La squadra era già pronta e il programma pure, calcolato nottetempo dall’algoritmo. Dicevano.
Michele Cammelli si sentì la colazione piantata in gola. Era stata colpa sua? Il governo era caduto a sorpresa perché lui non aveva portato due coperte a quei senzatetto? Il suo gesto aveva spezzato un equilibrio misterioso e aveva fatto pendere la bilancia nella direzione sbagliata? Ogni gesto conta, e lui lo sapeva benissimo, ma davvero poteva essere stato così poco?
Poteva. Lo ripetevano sempre nei telegiornali e altrove. Era dovere di tutti comportarsi bene, perché ogni gesto poteva avere conseguenze a lungo termine. Non lo sapevi mai. Pure, gli sembrava strano.
«Ne parlerò con Alberto,» si disse, lavando piatto e cucchiaio. «Questa è la prova. È la prova che io avevo ragione. Ogni azione conta e l’algoritmo lo sa. È ovvio. Dobbiamo comportarci tutti meglio.»
Per un attimo si sorprese a meditare sull’ineffabile, il principio base della società. Le sue vie tu non le puoi conoscere, ma le devi seguire, perché conducono al bene. Il bene di tutti. Credi all’algoritmo e sarai salvato. Non dubitare, mai. Ed era ovvio, se ci pensavi bene. Perché l’algoritmo era fatto per calcolare la vita migliore per tutti. Era evidente. Era lapalissiano. Quindi era dovere di tutti aiutarlo e servirlo nel migliore dei modi, per raggiungere il migliore dei risultati. Ovvio, già.
Ovvio o meno che fosse, Michele si avviò verso una nuova giornata di lavoro al supermercato. Non il migliore dei mondi possibili, forse, ma quello che gli era capitato. E lo avrebbe migliorato lui. Un gesto alla volta, lo avrebbe migliorato. Era il suo dovere e lo ripetevano sempre gli esperti in tv. Se lo ripeti abbastanza spesso anche tu, alla fine ci credi davvero e magari diventa realtà.
Nel nome dell’algoritmo sovrano, che tutto controlla e calcola per il bene dell’umanità.