L'ingegnere con l'armonica
L’ingegnere che suonava l’armonica si chiamava Riccardo Tonfo. O meglio, gli altri lo chiamavano Riccardo Tonfo e la carta d’identità concordava: lui invece preferiva pensare a sé come “io” anziché col nome e il cognome. A volte si divertiva poi a immaginarsi come l’uomo con l’armonica, ma solo nella privata privacy del proprio cranio. Un omaggio a Sergio Leone ci poteva stare, ma si sarebbe vergognato parecchio a farsi accostare al vendicatore interpretato da Charles Bronson: non al punto da morirne, forse, ma abbastanza per un ricovero ospedaliero. La vergogna è un male serio, si sa.
Riccardo Tonfo non era né un vendicatore né un pistolero, anche se alcuni lo avevano definito in più occasioni un “pistola” nel corso della sua giovinezza. E forse qualcuno lo faceva ancora, o almeno lo pensava, ma non glielo dicevano in faccia. Non è il tipo di cosa che dici in faccia a un ingegnere, almeno se non sei un suo superiore. Non di solito, ecco.
Ma l’ingegnere Tonfo suonava l’armonica, quando voleva e quando poteva. Aveva un appartamento in zona centrale dove viveva da solo, non molto grande e non molto lussuoso, ma sufficiente per la sua pacifica esistenza da scapolo. Aveva pure una stanza insonorizzata, perché era persona perbene e non voleva disturbare i vicini: era il sacrario in cui si ritirava, quando lo coglieva la malinconia e si sentiva fuori posto nella realtà. Anche un ingegnere può avere attacchi di malinconia, nonostante le apparenze. Nel caso di Riccardo Tonfo, essere ingegnere era una delle cause di malinconia.
Non era insoddisfatto, non esattamente, ma non era neanche soddisfatto. Si trovava in quella terra di nessuno dove ogni tanto la vita ti scarica perché le cose sono andate così e punto. Aveva studiato, si era laureato, aveva trovato un lavoro senza grandi difficoltà, ambiente normale, capi moderatamente simpatici, stipendio buono, eccetera eccetera. Su un piano pratico non si poteva lamentare, e infatti Riccardo Tonfo non si lamentava. Lamentarsi sarebbe stato offensivo nei confronti di tutti quelli che se la passavano peggio di lui, cioè la maggior parte delle persone in una società capitalistica.
Pure, non era contento. A volte, dopo cena, si domandava pigro se ci fossero alternative. Se avesse fatto scelte diverse, per esempio: come sarebbe andata? Meglio? Peggio? E ne sarebbe stato felice? Riccardo ruminava quei pensieri fino a diventare malinconico, poi di solito si ritirava nella stanza insonorizzata, pescava una diatonica Hohner e suonava qualcosa di triste, nostalgico, antiquato, e il resto mancia. Dopo un po’ la malinconia passava e cominciava a divertirsi.
A volte nel fine settimana, quando era libero e le condizioni meteo lo permettevano, andava anche a suonare in un parchetto di periferia, che durante il giorno era quasi vuoto ma che di notte tendeva ad animarsi parecchio. O almeno glielo aveva confidato l’architetto Perolli durante la pausa caffè, e lui aveva l’aria di essere il genere di persona che certe cose le sapeva. Riccardo Tonfo frequentava il parchetto solo durante il giorno, ma le tracce rinvenute qui e là gli suggerivano che sì, Perolli aveva ragione, anche se era meglio non indagare su come lo avesse scoperto.
Indagare non era mai una buona idea, secondo l’ingegnere. C’era il pericolo di trovare qualcosa e le cose che trovavi, beh, poi non le potevi più non avere trovate. Te le dovevi tenere.
Così Riccardo Tonfo non indagava, ma suonava. All’aperto quando poteva e in casa quando l’aperto non era così consigliabile. Senza esagerare, beninteso: era uno hobby, non un lavoro. Il lavoro ce lo aveva già e gli bastava, grazie. L’armonica doveva farlo sentire meglio, non affaticarlo. E così era.
E proprio per sentirsi meglio, dopo quasi un mese parecchio pesante in ufficio, fatto di modifiche al nuovo progetto per adeguarlo agli ultimi decreti sicurezza, una domenica pomeriggio di metà aprile il nostro ingegnere Tonfo si recò al parchetto con due armoniche in tasta e un sorriso che attendeva il proprio turno per apparirgli sulle labbra, dopo troppi giorni chiuso in un cassetto.
Il meteo aveva promesso temperature sotto i trenta gradi, e in effetti lo erano. Aveva promesso sole e tempo stabile, e anche in questo aveva avuto ragione. Non una grande sorpresa, secondo Riccardo: non pioveva più da febbraio e predire giornate di sole era come predire acqua bagnata. Il clima era un problema serio, che pochi prendevano sul serio. Non lui: lui donava regolarmente a Greenpeace e si impegnava a consumare il meno possibile, ricorrendo spesso ai mezzi pubblici. Peccato che non lo imitassero in molti. Scosse la testa sconsolato, mentre scendeva verso la metro.
Un viaggio tranquillo e circa dieci minuti di camminata lo portarono al solito parchetto, vuoto come si augurava di trovarlo. Ottimo. Di tanto in tanto capitava di trovarci un anziano o due col cane, ma era raro a quell’orario. L’ingegnere Tonfo lo sceglieva apposta. Non aveva niente contro gli anziani, i cani o i cani anziani, ma quando suonava preferiva suonare, non fare conversazione.
Osservò alcuni mozziconi abbandonati nell’erba secca e storse la bocca. Bisognava essere scemi sul serio per buttarli lì. Certa gente non aveva proprio idea di come stare al mondo. Vide anche le tracce lasciata da qualche intestino, forse un cane ma non necessariamente. Brulicavano di mosche. Girò al largo e puntò verso la solita panchina, seminascosta da alberelli stentati e cespugli secchi, sperando di non trovare altre sorprese sgradite. A volte capitava.
Non le trovò. La panchina era pulita come lo può essere la panchina di un parco di periferia, coperta di intagli e bassorilievi di varia volgarità, ma l’aria era piacevole, si era alzato un venticello sottile e cortese che riduceva la temperatura di un paio di gradi e la sagoma della piramide occupava il solito posto sull’orizzonte. Tutto andava bene nel mondo, almeno nei limiti in cui lo poteva fare. Riccardo Tonfo si sedette, tolse di tasca un’armonica, la osservò, la accarezzò, suonò.
Il drone di sorveglianza si avvicinò dopo una ventina di minuti, mentre l’ingegnere si era lanciato in una struggente interpretazione della “Storia di un soldato” di morriconiana memoria. L’aggeggio si fermò a mezz’aria davanti a lui e lo fissò per quasi un minuto, prima di partire col suo beep dannato a un volume crescente, già fastidioso dalla prima nota. L’ingegnere Tonfo sospirò. Che scusa aveva stavolta per rompergli le palle? Ma lo capì subito, senza bisogno di attendere il messaggio vocale.
Il tesserino. Aveva dimenticato di esibire il tesserino.
Riccardo sospirò. La sicurezza poteva anche essere una buona cosa, ma solo a dosi moderate. Se ne assumevi troppa, diventava più nociva dello zucchero negli alimenti. Secondo il suo modesto parere di bravo cittadino, le dosi erano diventate eccessive già da almeno una decina di anni, ma che cosa ci poteva fare lui? Scrollò le spalle, frugò in tasca, estrasse il tesserino e lo appuntò sul petto. Là!
Il drone lo scansionò, trasmise al server il codice personale dell’ingegnere, ne ricevette in risposta il codice che lo identificava come professionista ad alta qualificazione e buon reddito, col permesso di dedicarsi ai propri passatempi in luoghi pubblici. Suonare rientrava tra i passatempi autorizzati. Un altro paio di bip, a volume basso, poi il drone si scusò per il disturbo e augurò buona giornata con la sua voce meccanica da annunciò ferroviario. Si allontanò in cerca di altre prede.
Riccardo Tonfo sospirò di nuovo, batté piano l’armonica sul palmo della mano e riprese a suonare. I luoghi pubblici stavano diventando davvero invivibili, e non solo per il clima. O tempora, o mores! O anche qualcos’altro, già che ci siamo. Ma era bello rilassarsi ogni tanto all’aria aperta, col sole a battergli sulla pelle e gli occhi semichiusi, a fingere un panorama migliore. Meglio che rimanersene tappato in casa, quantomeno, e finché le temperature non superavano i trenta gradi se lo poteva pure permettere. Aveva mesi di climatizzatore davanti a sé: non c’era fretta.
La seconda interruzione del pomeriggio arrivò mentre stava tentando senza successo un bending. Al solito, insomma. Era una tecnica che avrebbe desiderato molto poter aggiungere al suo repertorio, e presto o tardi era sicuro che ci sarebbe riuscito. Forse. La teoria la conosceva; era la pratica che non funzionava molto bene. O non funzionava proprio, a voler essere onesti.
Ma il punto era l’interruzione.
Un barbone, o un umano sufficientemente simile da non fare differenza. Si trascinò bofonchiando attraverso il suo campo visivo, disfatto e non profumato, e si accartocciò su una panchina poco più in là, distante quanto bastava da non doverlo annusare, ma non abbastanza da non doverlo vedere.
L’ingegnere Tonfo storse le labbra. Non gli piacevano i barboni. Li evitava ogni volta che poteva; se proprio non poteva, cercava almeno di fingere che non esistessero. Si sentiva un poco in colpa per il suo atteggiamento. Non era corretto. Non era gentile. Non era umano. Dopotutto non era colpa loro se la vita li aveva scaraventati sul fondo. Erano i rimasugli calpestati dallo juggernaut sociale. Erano vittime. Erano questo e quello. Pure, non gli piacevano e non poteva farci niente.
O non voleva farci niente? Riccardo Tonfo si leccò le labbra, a disagio. Un ricordo scomodo gli era appena riemerso dalla memoria, come una bolla sulla superficie di una palude. Il ricordo della scena molto brutta a cui aveva assistito l’autunno scorso, proprio in quel parchetto. Il bambino mosca.
«Ma non potevo farci niente,» si disse, ed era vero. Ma non lo faceva sentire meglio.
Avrà avuto cinque, sei anni. Forse qualcosa di più, forse qualcosa di meno: difficile capirlo, quando sono ridotti così. Gattonava avanti e indietro sul prato, saltellando di tanto in tanto. Tuffava la faccia nell’erba smunta, in mezzo alle foglie secche, sotto le panchine. Cercava, frugava. A volte si alzava e strofinava le mani, poi tornava a chinarsi e cercare. Finché non l’aveva trovata.
C’era un foglio di giornale, vecchio e sporco. La copriva a malapena, abbastanza da non costringerti a vederla direttamente, non abbastanza da impedirti di immaginare cosa ci fosse sotto. E tu proprio non lo volevi immaginare, ma lo immaginavi lo stesso, perché con certe cose funziona così. Uno dei tanti difetti del cervello umano, almeno secondo il parere di una ragazza che studiava psicologia e che Riccardo aveva frequentato ai tempi dell’università.
Il bambino mosca aveva gattonato in fretta verso quel foglio di giornale, lo aveva sollevato, storto il naso, sospirato e infine chinato la testa a mangiare. C’era qualcosa di così indicibilmente triste nella scena che superava persino il puro disgusto dato dall’atto di coprofagia. Era... ma Riccardo Tonfo si era alzato e allontanato in tutta fretta, incapace di sopportarlo oltre.
Sapeva già dei bambini mosca, come sapeva degli altri umani insetto, diventati sempre più necessari a mano a mano che i veri insetti si estinguevano. Per mantenere l’equilibrio ecologico, per impedire pandemie, per offrire lavoro a un personale non qualificato, per quello che ti pare. Ma non li aveva mai visti in azione, non fino a quel pomeriggio. Era orrendo, qualunque fosse la maschera che usavi per giustificarlo. C’era voluto quasi un mese prima che gli tornasse la voglia di suonare nel parco.
E adesso il barbone. Riccardo Tonfo poteva solo sperare di non dover assistere ad altre brutte scene. Non si sentiva molto ottimista, ma era ancora presto per rientrare. Scosse la testa e tornò a suonare.
Soffiava un poco più piano e copriva di più l’armonica, per non disturbare. Non era sicuro che lo si sentisse anche dalla panchina del barbone, ma preferiva non rischiare. Aveva diritto a riposarsi, quel poveraccio, e non era bello costringerlo ad ascoltare le pessime note che lui produceva. O magari gli avrebbe fatto piacere un poco di musica? Qualcosa per allietarlo, dargli un minimo di conforto?
Riccardo Tonfo ci pensò per qualche minuto e alla fine decise che sì, un tentativo lo poteva fare. Si lanciò così in una interpretazione di “Hobo’s lullaby”, che forse era di pessimo gusto, ma gli pareva nel complesso appropriata alla situazione. Il barbone non reagì né in positivo né in negativo. Aveva l’aria di essersi addormentato. Beh, forse un poco di bene lo aveva fatto.
Guardò verso l’orizzonte, dove si disegnava la sagoma della piramide. Era una brutta sagoma, da un certo punto di vista. Con un’armonica in mano e un barbone davanti era fin troppo facile percepirla come una metafora della società in cui viveva e che, sempre da un certo punto di vista, era cresciuta assieme e attorno a lui, anno dopo anno. Il pensiero non gli piaceva, ma lo pensava lo stesso.
Al vertice di tutto, lì sulla punta, sedeva il branco di iene, di sciacalli, chiamali come vuoi: il piccolo numero di sociopatici che mangiavano e mangiavano e non erano mai sazi. Sotto, a formare la base che dal parco non si vedeva, si stendeva la schiera delle moltitudini che avevano perso la partita, in moltissimi casi perché la partita era già truccata contro di loro ancora prima che potessero giocare.
E lui? Più o meno a metà. Abbastanza in alto da non doversi preoccupare, ma non abbastanza in alto da contare davvero qualcosa. Sospirò e tornò a guardare la sua Hohner, compagna di tante canzoni suonate non particolarmente bene. Non una società molto bella, ma la società in cui viveva.
Riccardo Tonfo sentì la malinconia tornare e la scacciò come sempre a colpi di armonica. Suonò a lungo e senza pensare, preoccupandosi soltanto della giusta sequenza di fori, la durata delle note, la melodia da tenere, altri problemi semplici e senza metafore spiacevoli.
Era così immerso nel suo personale tipo di musica che il rumore impiegò parecchio a raggiungerlo, e quando lo raggiunse era un urlo. Un urlo di dolore.
L’ingegnere Tonfo alzò la testa come da un sonno profondo e guardò.
Il barbone era ancora sulla sua panchina, ma non era più solo. C’erano altri attorno a lui e lo stavano picchiando. Riccardo abbassò l’armonica, chiuse gli occhi, li riaprì. La scena non cambiò: barbone, panchina, quattro ragazzi, bastoni. O erano spranghe? No, sembravano bastoni. Non luccicavano al sole, come ci si aspetta dal metallo. Legno, dunque. Bastoni di legno.
Ma perché si preoccupava del materiale, quando c’erano problemi ben più gravi a cui pensare? La sua amica dell’università gli avrebbe probabilmente saputo rispondere, ma quasi di certo la risposta non gli sarebbe piaciuta. Una delle poche cose che aveva imparato da quella relazione era stato che a studiare psicologia si scoprivano realtà sugli esseri umani che era meglio non scoprire. Ed eccolo, di nuovo a perdersi dietro l’insignificante, invece di pensare all’importante. E l’importante lo aveva proprio di fronte. L’importante gli urlava in faccia.
L’ingegnere Riccardo Tonfo si guardò attorno. Era solo, a parte il gruppetto davanti a lui. Sospirò.
Mai che ci fosse un drone, quando serviva: passavano solo per romperti le palle. Un drone avrebbe allontanato subito il barbone, senza lasciarlo riposare sulla panchina, e tutto il resto non sarebbe mai accaduto. Invece il drone non c’era e il resto stava accadendo. Davanti a lui. Merda.
Non era un eroe. Non lo era mai stato e probabilmente non lo sarebbe stato mai. La sua idea di agire bene consisteva soprattutto nel finanziare chi agiva, tipo Greenpeace o Medici Senza Frontiere, e la sua parte nelle varie lotte sociali e ambientali era sempre stata quella di chi fa il piccolo nel proprio piccolo. Aveva funzionato bene, fino ad allora.
Ma adesso?
Riccardo Tonfo sospirò. Sapeva che prima o poi gli sarebbe toccato qualcosa del genere. Lo sapeva dal pomeriggio in cui aveva visto il bambino mosca, proprio in quel parchetto. Non aveva agito, in quella occasione. I bambini mosca erano legali, dopotutto, ed erano consenzienti, per un dato valore di consenso. Ciò che stava accadendo adesso, invece, non era né legale, né consenziente. Non urli in quel modo, se sei consenziente. Beh, non di solito: ci sono eccezioni, ok, ma non sembrava il caso del barbone e dei suoi giovani picchiatori. E dunque...
L’ingegnere batté piano l’armonica contro il palmo della mano, la ripose nella custodia, poi in tasca. Controllò che il tesserino fosse ancora al suo posto. Lo era. Riccardo si alzò, scrocchiò la schiena e camminò verso il gruppetto attorno all’altra panchina. Nessuno badò a lui.
«Scusate, ma vi sembrano cose da fare?»
I quattro ragazzi si fermarono, si girarono, lo squadrarono, videro il tesserino sul suo petto. Videro il tesserino sul suo petto. «Ma, scusi...» borbottò uno di loro.
Riccardo Tonfo lo interruppe con un gesto. «In mezzo al parco? In pieno giorno? Cosa vi ha fatto di male quel poveretto? Non vi vergognate?»
I quattro si guardarono, teste leggermente abbassate. Uno scosse piano il capo, un altro annuì, ci fu anche una scrollata di spalle e una bocca si torse un poco. Un fitto dialogo senza parole, sembrava. Il barbone non vi partecipò, troppo impegnato a lamentarsi e stringersi dove lo avevano bastonato.
Alla fine uno di loro si girò verso l’ingegnere, faccia debitamente contrita e sguardo basso. «Scusi, abbiamo esagerato. Non so cosa ci è preso. Ci dispiace.»
Riccardo Tonfo abbozzò un sorriso paternalistico, dall’alto dei suoi quasi quarant’anni. «Da giovani si fanno stupidaggini, lo so. Succede. L’importante è assumersi le proprie responsabilità e rimediare ai danni. E voi lo farete, vero?»
I quattro proclamarono in coro l’intenzione di rimediare e di accompagnare il povero barbone al più vicino pronto soccorso. L’ingegnere annuì, sorrise di nuovo e li benedisse.
Tornò a sedersi soddisfatto, guardando i giovani che aiutavano il barbone e lo portavano via. Erano stati stupidi, sì, ma almeno lo avevano capito. Forse c’era ancora speranza per il mondo. E sì, lui si era comportato proprio da persona saggia. Aveva fatto una buona azione. Da solo, senza bisogno di pagare qualcuno che lo facesse al posto suo. Come si sentiva bene, adesso!
Per dare fiato ai propri sentimenti, ma anche perché gli sembrava adatta alle circostanze, cominciò a suonare “Man of constant sorrow”, nell’arrangiamento di Joan Baez.
Più in là, lontano dagli occhi e lontano dal cuore, i quattro ragazzi si fermarono, scaraventarono a terra il barbone e partì il secondo round del linciaggio. Lurido, fetido parassita. Gli avrebbero fatto pagare anche la figuraccia che avevano fatto per colpa sua davanti a quel cretino di mezza età, lui e la sua predicozza da pirla. Ma una lezione l’avevano imparata.
Meglio imbavagliare la vittima, prima.