La casa viva
Non gli sarebbe mai piaciuta quella casa. Damiano Facocero (da pronunciare sdrucciolo, Facòcero: ci tiene molto) lo aveva capito prima ancora di entrare, quando gli era sembrata soltanto un bizzarro tugurio costruito per chissà quale capriccio di una multinazionale. Un catorcio fatto di assi, più una impalcatura che un edificio. Come potevano chiamarla casa? Non solo: di avanguardia. Futuristica. Se quel bidone era futuristico, il ripostiglio che sua nonna riempiva di vasetti di conserva diventava fantascienza estrema, con imperi galattici e anni luce percorsi in un istante.
Poi Damiano aveva aperto la porta e capito che il tugurio assomigliava a una impalcatura perché lo era. La casa vera si trovava all’interno, protetta da danni, intemperie e violatori di copyright, fino al termine dei test e al lancio sul mercato. Che il mercato lo volesse o meno. E che la casa lo volesse o meno. Perché non era una casa normale. Ma proprio per niente.
La sua vera faccia era ancora peggio, se possibile. Grossomodo cubica, senza finestre, pelosa, strani tubi attaccati a strane parti, simili a flebo o cateteri: sembrava più una qualche bestia in agguato che un edificio. Perché, da un certo punto di vista, lo era. Glielo avevano spiegato, ma lui non li aveva presi sul serio. Adesso vedeva ed era costretto a crederci. Anzi, non credeva: lo vedeva. Non hai più bisogno di credere, quando l’oggetto della tua fede è lì, sotto il tuo naso. Lo vedi. Sai che esiste, sai che aspetto ha. Damiano Facocero vedeva e sapeva.
La porta di ingresso era un buco del culo.
D’accordo, era un orifizio contrattile, che si poteva allargare o chiudere a comando, tutto naturale, niente di strano, spiegato nei briefing iniziali. Tu dici «Apri!» e si apre, dici «Chiudi!» e si chiude. I comandi vocali più semplici, senza bisogno di invocare sesamo o altre spezie. La casa ti sentiva e la casa rispondeva alle tue richieste. Nei limiti del possibile, beninteso.
Sembrava comunque un buco del culo e l’idea di usarlo per entrare in casa non gli piaceva proprio.
Pure, Damiano lo aveva usato. Si era fermato davanti al, beh, ok, alla porta organica, aveva detto la parola magica, «Apri!», l’orifizio si era dilatato e lui era entrato, aspettandosi il fetore di escrementi che per fortuna non c’era stato. C’era peggio. L’interno della casa era un incubo.
Il pavimento era peloso. Pelo sottile, d’accordo, quasi una moquette o un tappeto molto spesso, ma restava comunque pelo. Le pareti erano rosacee, lisce, e si incurvavano lievemente per fondersi col pavimento e il soffitto, come se le avesse disegnate un designer che voleva convincerti di meritarsi lo stipendio. Non c’erano finestre e la luce scendeva da cosi appesi al soffitto. Sbagliato: non appesi ma sporgenti. Sembravano bubboni, ma splendevano come il ventre di una lucciola o quella specie di lanterna che penzola davanti alla faccia di certi pesci abissali. Una luce intensa, almeno come un LED a 30 watt o giù di lì, non diversa da quella che aveva in camera nella sua vera casa. Ci potevi leggere e scrivere senza problemi. Era normale. Solo che non lo sembrava.
«Chiudi!» aveva detto Damiano e la porta di ingresso si era contratta, sigillandolo nella casa. Non al buio e non in assenza di aria, perché si sentiva un leggero soffio caldo uscire da orifizi sparsi qui e là, ma era comunque sigillato lì dentro. Inghiottito dalla casa.
«Damiano che visse nella balena,» aveva detto, cercando di essere spiritoso. Non gli era riuscito un granché bene. Assomigliava troppo all’essere nella pancia di un grande animale. Il che, da una certa prospettiva, era la verità. Era nella pancia di un grande animale. Una casa viva, massimo prodigio di bioarchitettura. Ed era toccato proprio a lui testarla. Che fortuna, eh?
Direi proprio di no, soprattutto perché di fortuna non si era trattato. Una combine, semmai; magari una truffa; facciamo pure un raggiro, se preferite. Ma fortuna? Ritenta, sarai più fortunato.
Damiano Facocero ricordava benissimo come lo avevano scelto. A volte se lo sognava pure di notte, nel letto orribile, caldo e molliccio di quella casa, che non aveva bisogno di coperte, ma se proprio ne volevi una potevi allungare una membrana cuoiosa che... no, lasciamo perdere: non ci voleva più pensare. Forse si erano ispirati a una palpebra, forse al ventre dei marsupiali, ma provarla era stato ributtante e non l’avrebbe mai più toccata. Ma stavamo raccontando come lo avevano scelto.
Era a casa. Una casa vera, fatta di cemento, mattoni, magari anche cartongesso e sabbia di fiume o i materiai che costavano di meno al momento, ma era comunque una casa costruita, fabbricata. Era inerte, morta. Sana. E piuttosto squallida: un buco con un paio di stanze e un gabinetto, è vero, ma a lui bastava. Viveva solo, dopotutto. Non aveva bisogno di molto spazio.
A modo suo, era soddisfatto. Sistemato.
Ma l’assistente domestico gli aveva rivolto una domanda, prima di eseguire un ordine. Era una cosa che faceva di tanto in tanto e Damiano non se n’era mai preoccupato. A volte era un test di verifica, per controllare che a dare l’ordine fosse stata la persona giusta. A volte recitava una barzelletta che non faceva ridere. A volte lo aggiornava su qualche evento considerato importante. Stupido, certo, e un poco fastidioso, ma ordinaria amministrazione. Ti abitui e tiri avanti.
Quel giorno, prima di fargli ascoltare la musica richiesta, l’assistente domestico gli aveva chiesto la capitale della Francia. Domanda stupida. Damiano aveva risposto Parigi e l’assistente era esploso in una scarica di musica trionfale, neanche fosse appena stato nominato dittatore dell’universo. Piatti, trombe, tamburi e chi più ne ha, più ne metta. Parecchio diversa dalla sua richiesta, che era stato un Bach tranquillo, per rilassarsi dopo il lavoro.
«Ti ho detto di farmi ascoltare Bach,» aveva ripetuto Damiano. «Un Bach tranquillo.»
«Complimenti! Con la tua risposta corretta ti sei appena aggiudicato un fantastico premio,» aveva recitato la voce femminile dell’assistente, in toni da orgasmo in arrivo. «Sei stato selezionato per un ruolo di grandissima responsabilità e di grandissimi onori! È l’occasione della tua vita!»
Damiano non ne era rimasto impressionato. «E cosa sarebbe? Carta igienica profumata?»
«Sarai il primo a provare il più grande sogno dell’umanità!»
Damiano, che aveva pessime esperienze coi sogni, dove quasi sempre gli succedevano cose brutte, ne era rimasto ancora meno impressionato. «E quale sarebbe questo sogno dell’umanità?»
«Potrai vivere per primo nella casa perfetta, che esaudirà tutti i tuoi desideri!»
Che puzza di fregatura... «Ma io sto bene nella mia casa di adesso,» aveva spiegato. «Non ho molti desideri e mi sento a posto così come sono. Ma grazie del pensiero.»
«Fra una settimana potrai trasferirti nella tua nuova, fantastica casa e sperimentare per primo la vita del futuro! In esclusiva per te! Grazie al fantastico risultato nel nostro quiz a sorpresa!»
«Era solo la capitale della Francia. Non ci voleva molto.»
«La tua brillante intelligenza ti ha confermato come la persona giusta per testare la casa del futuro! I dettagli ti saranno comunicati domani e nei prossimi giorni cominceranno i test per prepararti a una fantastica esperienza nella casa del futuro!»
«Ma non ci voglio andare nella casa del futuro! Mandateci un altro!»
La voce aveva perso tutto il suo entusiasmo orgasmico, sostituendolo con un freddo burocratese, al gusto di avvocato. «Clausola 34/B a pagina 324 del contratto di uso che ha sottoscritto al momento dell’acquisto, signor Damiano Facocero. La nostra azienda è autorizzata a sottoporla a ogni test che riterrà necessario per assicurare il funzionamento soddisfacente dei suoi prodotti, inclusi quelli non in suo possesso al momento, ma che in futuro potrebbe decidere di acquistare. Il contratto che lei ha liberamente sottoscritto la obbliga a partecipare ai nostri test, se supererà lo screening iniziale. Lei ha superato lo screening iniziale. Adesso deve partecipare al nostro test.»
Damiano Facocero aveva cercato di obiettare in ogni modo, ma era stato schiacciato da un pesante bombardamento aereo di clausole vessatorie, contratti siglati, precedenti giuridici e tutto ciò che una mente umana dedita al male e alla distruzione del prossimo è capace di inventarsi. La battaglia era stata breve e Damiano aveva perso su tutta la linea. Una settimana dopo era davanti alla casa, carico di test attitudinali, spiegazioni, istruzioni e con un edificio tarato in base alle sue esigenze.
Ah, aveva anche la certezza che l’assistente domestico gli aveva mentito, perché un tizio magro col pizzetto e una cravatta rossa gli aveva spiegato, durante un briefing, che c’erano già stati altri tester prima di lui, avevano notificato imperfezioni nel funzionamento della casa e il prodotto era stato di conseguenza modificato seguendo alcuni dei loro suggerimenti. Ci si aspettava lo stesso da lui: una valutazione oggettiva, critiche costruttive, spirito di cooperazione e palle varie.
Così, come si diceva, si era trovato davanti alla casa. Questo ci riporta all’inizio della storia.
Il primo giorno nella casa viva era stato orrendo. A parte qualche mobile, tipo un armadio, il tavolo, una sedia e poco altro, tutto il resto era fatto di carne. Carne e ossa. E pelle. Le ossa fornivano agli oggetti la struttura di base, rendendoli solidi e resistenti. La carne li riempiva, rendendoli morbidi e caldi, nonché un poco cedevoli. La pelle li avvolgeva per proteggerli, simile a cuoio, a volte pelosa.
Sedersi in poltrona era come essere in braccio a qualcuno. Coricarsi sul letto era come distendersi su una specie di enorme mollusco caldo. L’aria era calda, sempre e comunque, almeno trenta gradi e forse qualcosa in più. Luminosa, certo, e ventilata, d’accordo, ma i soffi d’aria sembravano l’alito di una persona e la luce era inquietate. C’erano piccoli occhi ovunque, nelle pareti, e piccole orecchie. Le porte erano tutte orifizi che si dilatavano e si contraevano a comando. E il bagno...
Damiano non avrebbe voluto pensare al bagno, ma era costretto a farlo. Peggio ancora, era costretto a usarlo, una esperienza che non avrebbe raccomandato neppure al suo peggior nemico. Non che ne avesse uno. Era una persona pacifica e riservata, Damiano. Non andava in giro a farsi nemici. Ma se ne avesse avuto uno, non gli avrebbe mai augurato un bagno simile.
Beh, probabilmente mai. Lo avrebbe augurato magari agli stronzi che lo avevano costretto a vivere in quella casa. Loro sì, loro se lo sarebbero meritato. O anche peggio.
Era un bagno orrendo. L’impianto idraulico era modellato sul sistema renale degli esseri viventi, se doveva credere alle spiegazioni che gli avevano dato prima di costringerlo ai test. C’era stata molta altra roba sul funzionamento preciso, ma Damiano l’aveva in gran parte dimenticata. Il poco che si ricordava, poi, non lo capiva proprio. Aveva fatto studi umanistici, non scientifici. Il punto era che i rubinetti pisciavano a comando.
La forma era quella e la meccanica pure. Potevi ripeterti che anche le fontanelle erano fatte così, più o meno, e che la sola differenza era il materiale: carne per i rubinetti della casa, metallo per le varie fontanelle nei parchi. Potevi ripetertelo fino a seccarti la gola. Non ti convinceva.
Rubinetti e doccia erano fondamentalmente peni. Ecco tutto. E l’acqua che usciva era calda. Usciva quando Damiano diceva «Apri!» fissando il rubinetto e si fermava quando diceva «Chiudi!». Come per le porte. Fissavi la cosa che volevi azionare o fermare e ripetevi la formula magica. Facilissimo da ricordare, orribile da fare. Perché funzionava, certo, ma le associazioni mentali restavano. Sapevi che era un rubinetto, ma quello che vedevi non assomigliava a un rubinetto, se non in senso molto metaforico, allegorico o quelchetiparorico.
I lavandini sembravano un palato capovolto e appiccicato sopra uno strano collo. Funzionavano, ma con le solite associazione mentali orribili: sembrava che il rubinetto pisciasse in bocca a qualcuno. E la vasca sembrava la metà inferiore di una bocca. Senza denti, d’accordo, ma il fondo somigliava a una lingua, se lo toccavi, e non potevi non toccarlo, quando entravi a fare il bagno o la doccia. Ti lavavi dentro una bocca. Una bocca che ti leccava i piedi o, beh, ci siamo capiti. Quello che appoggi quando ti siedi. Mentre la doccia ti piscia in testa acqua calda. E gli scarichi erano orifizi, come le porte ma molto più piccoli.
La cosa peggiore era il gabinetto. La tazza, il cesso, chiamatelo come volete. Sembrava un piccolo vulcano di carne, sorretto da uno scheletro robusto. Quando ti sedevi era morbido e caldo. Come se tu fossi in grembo a qualcuno. Damiano ci aveva messo tre giorni prima di riuscire a produrre: tutta colpa del blocco mentale. E di un altro pensiero: dove finivano le acque di scarico?
Nessuno glielo aveva spiegato durante i briefing e lui non se l’era sentita di indagare troppo. Aveva però un orrendo sospetto sull’origine di certi alimenti. O di tutti gli alimenti, in effetti. Perché anche la cucina era un orrore, forse persino peggiore del bagno. Questione di gusti, in effetti.
Non c’erano fornelli. Non c’era frigorifero. Piatti e bicchieri sì, conservati in un mobiletto nascosto in un angolo (o meglio in un’ansa: non c’erano angoli veri e propri), ma nessuna posata, a parte due cucchiai da minestra. Damiano si era chiesto come avrebbe fatto a mangiare, illudendosi, non so, di ricevere rifornimenti dall’esterno, vassoi tipo mensa o roba simile. Si era sbagliato. Ma tanto.
Una specie di esofago saliva lungo una parete fino a un’altezza di un metro circa, dove si apriva una specie di bocca. Sporgeva ed era leggermente ricurva verso il basso. Tu tenevi il tuo piatto lì sotto e urlavi il solito ordine, dopodiché una poltiglia multicolore cominciava a colare, accompagnata da un concerto di rumori gastrici. La casa ti vomitava nel piatto. Vomitava una specie di omogeneizzato.
Nei briefing prima dell’ingresso gli avevano spiegato che c’era una riserva di cibo a cui la sua casa avrebbe attinto liberamente, per fornire gli alimenti più adatti ai suoi bisogni di giorno in giorno. Era sempre poltiglia multicolore. Il gusto non era male, se tenevi gli occhi chiusi e avevi il coraggio di mangiarla, però non era neanche bene. Potevi chiamarlo commestibile, ma niente di più.
Damiano non aveva idea di come la casa si rifornisse di cibo. Non lo voleva neanche sapere. Aveva i suoi sospetti, misti a timori e incubi, e se li faceva bastare, ma grazie dell’interessamento. In fondo era un beta tester, lui: il suo incarico era sperimentare la casa. Altri lo avevano già fatto prima di lui e probabilmente erano sopravvissuti. Futuri abitanti avrebbero avuto la possibilità di scegliere i cibi e immagazzinarli in un qualche modo, forse. Sarebbe stato logico. Giusto?
Damiano non riusciva a crederci davvero.
Fosse come fosse, la sua vita in quella casa da incubo era stata regolare, fino a quel momento. Ogni giorno scopriva nuovi dettagli e non mancavano mai di disgustarlo. La temperatura era soffocante e non osava immaginare come potesse essere d’estate, i minuscoli occhi che lo fissavano ovunque lo rendevano più paranoico di un complottista allo stadio terminale, gli orifizi che prima si dilatavano e poi si contraevano, di continuo, lo disturbavano a un livello fon troppo profondo e la sensazione di vita che lo premeva da ogni lato, lo avvolgeva, lo inglobava... beh, neppure riusciva a dare un nome al genere di fastidi che gli causava. Superavano la sfera del linguaggio.
All’inizio aveva pensato che si sarebbe abituato, a poco a poco. Dopo una settimana aveva smesso di illudersi ed era stato costretto a guardare in faccia la realtà: non si sarebbe abituato mai. Era come se il suo corpo stesso rifiutasse di abituarsi. Damiano non poteva dargli torto.
Aveva un mese da passare lì dentro. Tanto durava il periodo di test, almeno per lui. Un mese e poi si sarebbe liberato. E una volta tornato a casa, nella sua casa vera e inerte, aveva già un lavoro che lo attendeva: ringraziare il carissimo assistente domestico. Con un grosso martello.
Nonostante lo schifo e la paranoia soffocante, tutto sarebbe andato bene per Damiano Facocero, per valori molto elastici di bene, se solo non ci fossero stati i sogni. Cominciarono l’ottavo giorno.
Sognò di essere a scuola, alle medie. Alcuni dei suoi compagni di classe erano ragazzini, come nella realtà delle scuole medie; altri erano adulti, ma nessuno ci faceva caso. Lui era nudo, ma nessuno ci trovava qualcosa di strano. A parte lui stesso, che cercava di coprirsi con quello che capitava. Non ci riusciva mai, o perché gli scivolava, oppure perché non copriva abbastanza.
Poi Damiano guardò il banco e si accorse che non era più di legno, ma di carne. Aveva gli occhi. Lo fissavano. «È tutto molto bello,» disse il banco. «Nessuno deve essere bocciato.» Qualcosa toccò la gamba destra di Damiano. Era una mano che spuntava dalla sedia. Lo accarezzava piano, gentile.
Si svegliò ed era raggomitolato al centro del suo letto di carne. Era in mutande e sudava come fosse pieno agosto a Bologna. Che schifo di sogno! Prese il bicchiere che teneva sul comodino di carne e lo mise sotto l’escrescenza da cui sarebbe uscita acqua e che davvero non riusciva a considerare un rubinetto. «Apri!» e il bicchiere fu pieno. «Chiudi!»
Era calda, ma era acqua. Probabilmente acqua. Damiano Facocero ne aveva bisogno per ripulirsi la bocca dal sogno. Bevve per dimenticare. Era stato brutto. Non tanto per quello che era successo, ma per l’atmosfera, qualcosa che non avrebbe saputo definire. Aveva parlato il banco, ma era come se la sua voce fosse venuta da fuori. Come se l’avesse sentita nella realtà e trasportata nel sogno. Più o meno. Non era facile da spiegare, neppure in un monologo interiore, ma questo era successo.
La notte dopo accadde di nuovo. Sognò di camminare in una città che non conosceva, ma in cui si mescolavano edifici e architetture di almeno una decina di città diverse, che aveva visto davvero. Il campanile della città X, il portico della città Y, il ponte della città Z, la scalinata di questa, il duomo di quella e così via, una marmellata architettonica che non aveva senso, ma in cui lui camminava.
O almeno cercava di.
All’inizio era stato facile. La città era deserta, né auto né pedoni a intasare strade o marciapiedi. Era tutta per lui e Damiano camminava di buon passo, verso una meta che magari nel sogno conosceva, ma che non avrebbe saputo indicare. Andava avanti e tanto gli bastava.
Poi le strade cominciarono a farsi più strette. C’erano oggetti che lo intralciavano, cassonetti riversi da aggirare o scavalcare, biciclette abbandonate in mezzo al passaggio, altre cianfrusaglie. E stava diventando ripida, la strada. Camminava in salita ed era sempre più dura, ma Damiano proseguiva e arrancava, arrancava e proseguiva. Neppure pensava a tornare indietro o a guardarsi indietro. Era un sogno di quel genere, sarà capitato anche a voi.
Arrivò a un punto impossibilmente stretto, un cunicolo in cui doveva strisciare e strisciare quasi in verticale. Damiana avanzava lo stesso, lento lento, fino a che trovò qualcosa a bloccare il passaggio. Era una testa umana, con zampe da ragno che le spuntavano dal mozzicone di collo.
«Tutto è bene quel che finisce bene,» gli disse la testa. «Non rifiutare, non lamentarti.» Poi avanzò verso di lui, sbattendo con forza i denti. Tac. Tac. Tac! Tac!
Damiano si svegliò, sempre sudato e sempre nel suo letto di carne. Un sottile soffio di aria calda gli sfiorò la faccia e lo fece rabbrividire, non perché era freddo (non lo era) ma perché gli ricordava il fiato della testa, il fiato che aveva sentito in faccia appena prima di emergere dal sogno.
Nuova notte, nuovo sogno. Era al mare coi genitori, come faceva da bambino, ma non era bambino: era adulto, più o meno come nella realtà. I suoi genitori, però, erano ancora giovani, forse anche più giovani di lui. In spiaggia c’erano altre persone che conosceva, o almeno ricordava dal passato. Non i nomi, ma le facce. Anche loro erano comparse nelle sue vacanze di bambino. Adesso erano attorno a lui a fare classiche cose da spiaggia: leggere, prendere il sole, giocare a carte, eccetera.
Damiano si alzò dal lettino e raggiunse il bagnasciuga. Il mare era calmo. Non molto limpido, non lo era mai stato nei suoi ricordi, ma la gente faceva il bagno, i bambini strillavano, palline volavano di racchetta in racchetta e così via. Scena normale. Tutto normale. Damiano entrò in acqua.
Era calda. Il fondale non era sabbia mista a conchiglie, ma era qualcosa di morbido e caldo, un poco cedevole. Sembrava di camminare su qualcuno. Damiano Facocero continuò fino a quando l’acqua gli arrivò alla vita, poi si lasciò andare e nuotò un poco. Nuotare era meglio. Almeno non aveva più quel fondale così strano sotto i piedi. Era rilassante, anche se l’acqua sembrava brodo.
Nuotò fino agli scogli, poi si fermò e guardò indietro. La spiaggia non c’era più. Solo mare, disteso fino a dove il suo sguardo poteva arrivare. Un mare caldo, un poco appiccicoso. Ti faceva pensare al brodo, già, ma non lo era. Non proprio. Doveva essere sempre acqua, no?
Damiano tornò a girarsi verso gli scogli. Non c’erano più. Al loro posto si alzava una cordigliera di rocce bianche e lisce, da sinistra a destra, in una linea un poco arcuata, concava. Sembravano denti. Damiano guardò verso il cielo. Una specie di velo pendulo dondolava quasi sopra di lui, attaccato a chissà cosa. Un vento caldo lo colpì in faccia. Sembrava l’alito di qualcuno. Anche come odore.
«Le cose non sono brutte come sembrano,» disse una voce, che rimbombava come un tuono. «Non è così male, se ci pensi bene. Rispondi sempre di sì. Tutto è fantastico. Accetta, accetta e accetta. O ti accetterà. Sì. La parola giusta è sì.»
Damiano si svegliò. Nell’ultimo frammento di sogno qualcosa gli aveva leccato un piede, ma non ci voleva più pensare. Voleva dimenticare tutto. Probabilmente non ci sarebbe riuscito.
Non ci riuscì. Nei giorni seguenti i sogni orribili continuarono e il copione era sempre lo stesso. Un inizio normale in un posto grossomodo familiare, incremento progressivo delle stranezze, finale con voce che lo invita a dire sì, accettare, apprezzare, e poi qualcosa di brutto che gli sta per accadere. E il risveglio: sudato, accaldato e affannato nel letto, sfortunatamente non per cause piacevoli.
Damiano Facocero aveva da poco superato le due settimane di vita nella casa e sedeva sconsolato a tavola, mangiando senza entusiasmo qualcosa che sembrava prodotto da un cane affetto da un grave caso di gastroenterite. Non faceva poi schifo, se tenevi gli occhi chiusi. Era come un pure con grumi semisolidi, ma quasi privo di sapore, giusto un lieve retrogusto che poteva essere vegetale. O anche non esserlo. Era di sicuro organico, almeno a un qualche livello.
«Non potresti darmi ogni tanto qualcosa di decente da mangiare?» esclamò Damiano a fine pasto.
La casa non rispose. Il che, a modo suo, era un bene. Se avesse anche cominciato a sentire le voci, in quel posto che era già un incubo di suo, probabilmente sarebbe impazzito. O forse lo sono già, si disse, ma era una via che non valeva la pena di percorrere. Non c’erano uscite.
A proposito di uscite.
Damiano si fermò davanti all’orifizio di ingresso, che dalla sua prospettiva era l’orifizio di uscita, al momento. «Apri!» disse. L’orifizio non si dilatò. Damiano scrollò le spalle. Se lo aspettava già, ma tanto valeva provare, giusto? Non aveva nulla da perdere. Era un beta tester, per l’appunto, ed era il suo dovere: collaudare non solo gli usi corretti, ma anche le possibili scappatoie, i difetti, cose così.
Chissà come se l’erano cavata i suoi predecessori? Forse uno di loro aveva davvero trovato una via di fuga. Secondo il tizio col pizzetto, avevano fornito critiche costruttive. O qualcosa del genere, al momento non ricordava più le parole esatte. Gli sarebbe piaciuto incontrarne uno, per chiedergli che impressione gli avesse fatto la casa. Gli era piaciuto? Probabilmente no. Dovevano essere stati altre vittime di un assistente domestico stronzo, come lui.
«Se solo io riuscissi a trovare una falla,» si disse. «Un errore che mi permette di uscire in anticipo. Mi farebbero rientrare, ovvio, ma anche solo un paio di minuti a respirare aria vera...»
Niente da fare, ancora non ne aveva trovato. Respirava aria, sì, ma era calda e sembrava sempre già usata da qualcuno. Dalla casa, quasi di sicuro. Probabilmente era quello schifo di posto a respirare e poi soffiare all’interno l’aria che raccoglieva fuori. O roba simile. Tutto usato, tutto riciclato. E tutto caldo. Risparmiavi di sicuro in inverno, ma era opprimente. Chissà chi si era inventato un posto del genere, davvero. E speravano anche di venderlo? Solo un pazzo se lo sarebbe comprato. O un ricco demente, che non sa cos’altro fare coi soldi arraffati e ammassati. Che brutto mondo.
«Schifo di posto,» borbottò, tornando verso la cucina. Doveva lavare il piatto. Significava metterlo sotto il, beh, il rubinetto, e lasciare che la casa ci, beh, ci siamo capiti. Tutti i rubinetti erano fatti in quel modo e imitavano la stessa parte del corpo umano. O animale in genere. Non ci si sarebbe mai abituato. Non ci si voleva abituare. Era una questione di dignità, dal suo punto di vista.
«Schifo di posto,» ripeté.
Quella notte sognò di essere in una casa normale. Per un qualche motivo aveva deciso di scrivere un insulto su una parete, con un pennarello o un gesso, non era molto chiaro. Il punto è che il Damiano onirico lo aveva scritto e adesso lo contemplava tutto soddisfatto. C’era una specie di coro a fare da sfondo, come un pianto lontano o un lamento funebre: molto film horror, in effetti. E molto ridicolo.
Damiano lo aveva ignorato, era entrato in bagno e si era seduto nella vasca, che era piena d’acqua e sapone, o almeno qualcosa che faceva le bolle. Lui era nudo, anche se fino a due secondi prima era vestito. Logica da sogno, ovvio. Sempre in tema di logica da sogno, quel corpo non era il suo, era di un altro uomo, molto più muscoloso di lui. Magari fosse stato il suo, che invece tendeva di più allo stecchino e aveva il petto incavato. Dettagli. Damiano cominciò a lavarlo come se fosse il suo.
«Mi hai deturpato!» gridò una voce che era tanto umana quanto l’annuncio di un treno in arrivo. Un attimo dopo la vasca da bagno si chiuse attorno a lui e lo ingoiò, come una pianta carnivora con un insetto che ha avuto la pessima idea di infilarsi in un suo fiore. Damiano vide che il suo corpo stava cominciando a colare, a sciogliersi nell’acqua, che dunque acqua non doveva essere, perché il corpo umano non è solubile in acqua, per quanto ne sapesse lui. Quel corpo però si stava sciogliendo. E se all’inizio era stato indolore, adesso non lo era più. Ma proprio per niente.
Damiano urlò nel sogno e si svegliò nella realtà.
Seduto nel suo letto di carne, boccheggiava nella penombra della stanza. Sul soffitto un bubbone lo innaffiava di una vaga luce da luna quasi piena, chiara a sufficienza da vederci ma non abbastanza per leggere. Era sempre così, quando voleva dormire. Non buio, ma una luce tenue. Damiano aveva provato a convincere la casa a spegnere tutto, ma ancora non c’era riuscito. Forse era per questo che dormiva sempre male. Era almeno una possibilità.
Si alzò e andò in bagno a sciacquarsi la faccia. Lo asciugò una forte alitata calda da un orifizio poco a destra del lavandino, che sembrava attivarsi da solo quando ne aveva bisogno. Strano, ma non poi così tanto. Ricordava i cosi per asciugarsi le mani con l’aria calda che trovi nei bagni pubblici, se ti andava di pensarla in quel modo, ma non lo era. Non proprio. Era una specie di bocca che ti alitava addosso, dopo che il rubinetto ti aveva, beh, solita storia. Rubinetti, già. Molto renali.
Damiano guardò la vasca. Assomigliava alla metà inferiore di una bocca. Poteva pensarla come una vasca, se lo voleva, ma la sua forma non cambiava e la sua forma era quella della metà inferiore di una bocca. Forse umana, forse di un animale simile. Bocca gigante, lunga un metro e mezzo o giù di lì, ma pur sempre una bocca. E lui ci entrava per fare il bagno. In una bocca. Gnam.
O faceva in fretta a dimenticare l’ultimo sogno, oppure non averebbe più avuto il coraggio di lavarsi lì dentro. Già ci voleva uno stomaco notevole a entrarci in circostanze normali, con la doccia che ti pisciava in testa, oppure coricarsi per un bagno su una superficie che sembrava una lingua. Dopo un sogno in cui la vasca ti mangiava, tanti auguri! Meglio non pensarci.
Damiano cercò di non pensarci, ma entrare in bagno divenne ancora più sgradevole del solito. Non che fosse mai stato piacevole, ma adesso era peggio. Si sentiva guardato. Studiato. Pregustato?
Si sentiva guardato e studiato anche nel resto della casa. Era normale. La casa lo stava guardando e studiando, con quegli occhietti sparsi ovunque. Doveva sempre essere pronta a reagire, gli avevano spiegato nei briefing. La casa era vigile per il suo bene. Per proteggerlo.
Proteggerlo da cosa, se nella casa ci sarebbe stato solo lui? I tecnici non avevano risposto. Avevano proprio finto di non sentire, continuando con le loro spiegazioni come se lui non avesse parlato. Ma la casa lo avrebbe protetto, su questo erano stati molto chiari. La casa era la sua balia, era la madre che vegliava sempre sui figli, per aiutarli e assisterli. Era questo, quello e quell’altro ancora.
«Se è una madre, deve essere Medea,» borbottò Damiano mentre lavorava a mangiare a occhi chiusi un fantastico piatto che gli ricordava quando aveva avuto la pertosse, a cinque anni o dintorni. Forse a quattro? Quasi di sicuro andava all’asilo e l’aveva presa da altri bambini, come aveva preso anche la rosolia. Certe volte era così pieno di muco e catarro che lo vomitava. E se guardava nel piatto, le associazioni mentali erano quelle che potete immaginare.
La casa era calda, quasi afosa. I soffi di aria che venivano dalle varie bocche erano altrettanto caldi e non davano alcun sollievo. Girava quasi sempre in mutande o in pantaloncini, ma sudava lo stesso e sudava tanto. Logico: era dentro un essere vivente, e gli esseri viventi sono caldi, almeno finché lo sono. Viventi, dico. Un ventilatore non sarebbe stato male, ma non c’erano prese, non c’era energia elettrica. In apparenza. Perché era ancora un prodotto di prova? Sarebbe stata aggiunta alla versione finale, una volta modificato e corretto sulla base del giudizio dei tester? Possibile. Non sarebbe stata un granché di casa, senza energia elettrica. Non per come Damiano la riusciva a immaginare.
«Farà schifo comunque, questo bidone,» borbottò uscendo dalla cucina, dopo l’ennesimo pasto che forse era stato nutriente ma di sicuro insoddisfacente. Non che lui ci sarebbe mai tornato a vivere in quella casa, neppure con tutta l’elettricità del mondo. Era un inferno.
E i sogni continuavano. Inquieti, soffocanti, claustrofobici. C’erano sempre pareti che lo pressavano e corridoi che si stringevano, cose che lo fissavano e cose che sussurravano. A volte finivano male, a volte si svegliava prima. Accetta, accetta, rispondi di sì, dicevano le voci.
Damiano non capiva. Era una specie di delirio suo? Possibile. Era costretto a vivere rinchiuso in un essere vivente e non vedeva la luce solare da giorni, sembrava più che plausibile andare almeno un poco fuori di testa. O anche molto, in effetti. Non era un ambiente salutare. Ma c’era anche un’altra ipotesi, molto più paranoica, ed era ancora più brutta.
La casa era viva, giusto? E lui la doveva testare e giudicare, giusto? Che i sogni fossero una specie di, non so, ipnosi? Forse la casa cercava di influenzarlo, di plagiarlo, fargli un lavaggio del cervello, costringerlo a dare un giudizio positivo, roba simile? Era inquietante, assurdo, surreale. La casa non era senziente, giusto? Non era neanche telepatica, giusto?
Per quanto ne sapeva Damiano Facocero, poteva anche essere sbagliato. Ed era un pensiero molto, ma molto brutto. Una sola cosa era certa: non sarebbe mai e poi mai tornato a vivere in un incubo di luogo come quella casa. Quella maledettissima casa viva. E l’avrebbe sconsigliata a tutti, ammesso e non concesso che quell’inferno sarebbe mai entrato davvero in produzione. Sembrava assurdo.
Tornò di nuovo a pensare agli altri beta tester. Chissà se anche loro avevano fatto incubi simili. Non gli sembrava probabile, perché era il genere di problema che dovevi per forza indicare nel rapporto finale, no? E lui non lo avrebbe mai definito una critica costruttiva. Quindi...
Quindi il tizio col pizzetto poteva averlo riempito di balle. Molto probabile, ma Damiano Facocero non avrebbe mai avuto la possibilità di dimostrarlo, per cui era inutile pensarci. C’era stata gente in quella casa, che ci aveva vissuto prima di lui e aveva fatto rapporto a fine lavoro. Forse utile, forse ignorato, forse altro ancora. Sarebbe stato bello poter parlare con uno di loro e confrontare appunti, opinioni, impressioni. Non sarebbe mai successo. Oh beh, pazienza. L’importante era uscire.
Il venticinquesimo giorno ricevette un messaggio dall’esterno. Era il primo segno di vita dal resto del mondo. Il mondo sano, come lo considerava Damiano Facocero. Solo in senso relativo, è ovvio: di veramente sano c’era ben poco, sia dentro che fuori. Paragonato però alla casa viva, l’esterno gli sembrava un paradiso, l’eden da cui un assistente domestico lo aveva scacciato.
Damiano doveva preparare un rapporto e rispondere a una serie di domande sulla casa. Le avrebbe ricevute dal sistema di comunicazione interno della casa stessa: lui doveva solo rispondere, recitare il suo rapporto e poi gli avrebbero fatto sapere. Fine del comunicato.
Gli avrebbero fatto sapere cosa? La voce non lo aveva specificato. La data precisa della liberazione, forse, o il suo risultato come tester. A Damiano non interessava. Gli interessava farla finita con quel posto e tornare alla sua casa reale. Avrebbe preparato a mente il rapporto, lo avrebbe recitato come un bravo scolaretto, avrebbe risposto alle domandine della maestra e poi, se c’era un dio e non era il gran pezzo di merda che a volte poteva sembrare, lui sarebbe uscito da quel posto. Ottimo.
Si sentiva così bene che cominciò a fischiettare.
Pranzò, poi vennero le domande. Furono tante e furono dettagliate, quasi un bombardamento tattico e con un gran numero di danni collaterali, come ogni buon bombardamento tattico nella storia. Non li potevi quantificare in vite umane, ma in neuroni? Sì, ci poteva stare, e Damiano Facocero sentiva di averne persi parecchi, in gran parte sotto il fuoco amico. Relativamente amico, almeno.
La voce della casa lo interrogò sulla struttura generale dell’edificio e volle sapere le sue reazioni; la qualità del cibo e le sue reazioni; la qualità dei servizi e le sue reazioni; l’ambiente e le sue reazioni; il quello che vi pare e le sue reazioni. Durò parecchio. Damiano stroncò quasi tutto, dapprima su un piano estetico, poi su quello psicologico: certe soluzioni potevano anche funzionare, ma il cervello umano faticava parecchio ad accettarle e ad abituarsi. Associazioni mentali e roba simile, capite. Un prodotto funzionante non è sempre un prodotto funzionale, o anche solo appropriato. Eccetera.
E il cibo? Nutriente, forse, ma anche quello era pessimo sotto il profilo psicologico, per l’aspetto e per il modo in cui te lo serviva. Idem l’impianto idraulico, terribili associazioni mentali. E pure le porte potrebbero essere ripensate e adattate alle abitudini umane, già che ci siamo. L’elettricità non c’è e il clima fin troppo caldo la rende poco abitabile, non c’è niente a cui si possa adattare in modo normale o comprensibile. Opprimente sul piano psicologico. Meglio modificare qui e ritoccare là, e correggere questo e ripensare quello. Eccetera eccetera.
Erano critiche costruttive? Non lo sapeva, ma ormai non gli importava più. Voleva solo uscire.
Il suo rapporto finale non fu migliore. Nel silenzio della casa, seduto davanti a un orecchio simile a un grosso imbuto, Damiano riassunse tutto ciò che secondo lui non funzionava e l’effetto che aveva l’edificio sulla sua mente. Raccontò anche dei sogni che aveva fatto e che, secondo lui, erano segno di un influsso poco salutare dell’ambiente. «Perché non ho mai sognato niente del genere nella mia casa, capite,» spiegò. «Deve essere tutta questa carne a darmi i brividi. Magari l’idea generale può anche essere buona, non lo so, ma è realizzata malissimo. Non è il genere di posto dove una persona normale vorrebbe andare a vivere, capite?»
In un paio di occasioni, mentre parlava elencando tutti i difetti che aveva trovato, Damiano credette di sentire un leggero brusio nell’aria, come un disturbo nella rete di comunicazione. Si fermò per un attimo ad ascoltare, quando lo notò, ma il disturbo sparì quasi subito. Per un attimo gli era sembrato di sentire un suono tipo “anketunò”, ma doveva essere stato qualche tipo di energia statica, come in certe vecchie radio. Un altro difetto di fabbrica, di sicuro. Scrollò le spalle e riprese la sua lista di motivi per cui la casa non andava bene. Secondo il suo modesto parere, beninteso.
Finì a sera inoltrata. La voce ringraziò e garanti che avrebbe avuto notizie quanto prima. Damiano avrebbe preferito averle subito, ma si rassegnò all’attesa. Il più era fatto, no? Ancora poco e sarebbe stato libero. Cenò quasi con gusto, anche se il cibo di gusto non ne aveva. Sentì altre due volte quel brusio nell’aria e fu felice di essere ormai alla fine della sua permanenza nella casa: se non stava già andando a pezzi, ci sarebbe andata a breve. Pessima storia. Sempre che non fosse la sua mente che si preparava ad andare a pezzi: storia ancora peggiore.
Le case vive potevano morire? Damiano se lo chiese mentre sciacquava il piatto. Se la casa era viva come sembrava, allora prima o poi sarebbe morta anche lei, no? Era semplice logica. Se vivi, muori. Puoi durare tanto o puoi durare poco, ma alla fine muori anche tu. Forse il brusio significava che la casa aveva un piede nella fossa. Demenza senile o quello che era. Una casa di prova, da abitare per un mese, poteva benissimo morire alla fine del mese, no? Aveva senso. Solo un prototipo, prodotto a titolo di test: i modelli successivi sarebbe stati migliori, quelli destinati al mercato. Ovvio.
Forse nel suo ragionamento c’era qualcosa di sbagliato, ma non aveva proprio voglia di pensarci più di tanto, adesso. Era stanco, stressato e accaldato. E poi chissenefrega, a un certo punto. Aveva una logica interna, la sua idea. Aveva senso. Ergo, poteva bastare.
Aveva così senso che Damiano Facocero non se ne preoccupò più. Sperava solo che vivesse ancora a sufficienza da lasciarlo uscire, poi che crepasse pure, la casa maledetta. Non ne avrebbe sentito la mancanza di sicuro. Posto ributtante.
Bevve, si annusò e decise che avrebbe fatto un bagno, prima di andare a dormire. O magari doccia, che era un poco meno schifosa. Quell’interrogatorio lo aveva fatto sudare parecchio e cominciava a puzzare sul serio. Domattina sarebbe stato sudato di nuovo, ma almeno poteva prima rimuovere una parte della puzza. La parte peggiore, più stagionata. Se Damiano aveva imparato una cosa nella sua vita, era che una soluzione parziale e temporanea era meglio di nessuna soluzione. E se c’era un dio ed era buono, sarebbe stata l’ultima volta che gli toccava usare quella vasca. Il prossimo bagno, o la prossima doccia, in una vasca vera, in un bagno vero. In una casa vera. La sua casa.
Entrò in bagno e il brusio tornò, più forte di prima. Damiano si concentrò e per un attimo credette di sentire voci all’interno del brusio. Voci che componevano il brusio, accavallandosi. «Non entrare,» dicevano. «Offesa,» dicevano. «Anche tu,» dicevano. «Come noi,» dicevano. O forse era soltanto il brzzz zraaap pffffrk trowowowowooo di un aggeggio che non riceve bene. Difficile capirlo. Era più o meno come le nuvole: se cerchi forme puoi trovare forme, ma restano comunque nuvole.
Giusto? Giusto.
«Suggestione,» si disse Damiano. Quella non gli mancava mai, poco ma sicuro. La casa gli friggeva il cervello. Era come vivere nel tunnel degli orrori, o come cavolo si chiamava quella giostra dove è buio e roba strana zompa fuori da ogni angolo per cercare di spaventarti o almeno farti impressione. Ammesso che fosse una giostra. Probabilmente lo era.
Che poi, perché stava a pensare alle giostre, adesso? Damiano Facocero scrollò la testa. Perché lui e la casa non andavano d’accordo, ovvio. Lo inquietava, lo disgustava, lo metteva a disagio e non era il genere di posto in cui sarebbe mai andato a vivere, neanche se lo avessero pagato. Era dannosa sul piano psicologico, come aveva spiegato nel rapporto finale: che adesso credesse di sentire voci era solo un’altra prova di quanto nocivo fosse l’ambiente. Ti tirava scemo. Meglio ignorare tutto.
Entrò nella vasca. «Apri!», e il facente funzione di doccia cominciò a pisciargli in testa. Damiano si strofinò e raschiò per qualche minuto, in piedi sotto lo scroscio caldo e un poco ributtante. Il trucco era non pensarci troppo. Immagina una cascata. Non gli riusciva molto bene, ma era un progresso.
«Processo di digestione attivato per il nuovo ospite insoddisfatto.»
Damiano Facocero si bloccò. La vasca sotto i suoi piedi sembrava avere perso l’elasticità viscosa da lingua umana. Era più dura, più scivolosa. Damiano guardò. Uno strato di muco copriva pavimento e piedi. Cosa stava succedendo? E, già che ci siamo, cosa significava quella frase su un processo di digestione? Significava quello che sembrava? Sul serio?
Damiano balzò fuori dalla vasca, giusto per sicurezza. «Che succede? Che scherzo è?»
«Processo di digestione attivato per il nuovo ospite insoddisfatto,» ripeté la voce della casa. «Rientri nella vasca, per cortesia.»
Il bel gioco dura poco e quello scherzo non solo non era bello per niente, ma stava già durando fin troppo. Damiano scattò verso l’orifizio di ingresso. «Apri!» urlò. L’orifizio rimase chiuso.
«Apri!» urlò di nuovo. L’orifizio si ostinava a rimanere chiuso. Il muco copriva ormai il pavimento di tutto il bagno. Era appiccicoso. Era avvolgente. Faceva anche schifo, ma era secondario.
«Apri!» e bombardò di pugni l’orifizio. Senza risultato. Come prendere a pugni il muro. Hah! Come poteva essere così solida? Non era solo fatta di carne? Ci sarà stato un muscolo che si contraeva e si rilassava, d’accordo, ma era troppo duro. Era semplicemente sleale.
«Cosa stai facendo, casa di merda?» urlò. A sorpresa, la casa gli rispose.
«Attivato programma 12/c per ospiti insoddisfatti.»
«Cosa significa?»
«Agli ospiti insoddisfatti sarà garantita una partecipazione attiva al rimodellamento della struttura.»
Un pensiero orribile attraversò la mente di Damiano. Lo fece molto in fretta: voleva andarsene alla massima velocità. Tirava una brutta aria da quelle parti, anche se sei solo un pensiero immateriale.
In che forma avrebbe partecipato al rimodellamento della struttura? Come progettista? O magari lui lo avrebbe fatto come componente della struttura? Sentì un rumore alla sua destra. Si girò.
La vasca si era sollevata e puntava verso di lui, come un bizzarro pupazzo in cima a una molla. Non sembrava un pupazzo. Non sembrava neanche un giocattolo. Sembrava un serpente pronto a colpire.
Damiano cercò di lanciarsi di lato per evitarlo. Non ci riuscì. Il muco incollava i suoi piedi. Merda.
Poi la vasca calò su di lui e lo inghiottì. Un altro beta tester che si era meritato un ruolo più attivo, grazie alle sue critiche costruttive. Questo lo avrebbe soddisfatto di sicuro.
Con un sospiro, la casa si preparò ad attendere un nuovo ospite.