Adriano - racconti e altro

La mano a briscola

Attilio Brigola odiava il suo appartamento. O meglio, odiava quello che sua figlia Camilla e quello sciagurato del genero avevano combinato all’appartamento. Lo avevano trasformato in una gabbia. Una per criceti. Ci mancava solo la ruota su cui correre, ma presto ci avrebbero infilato pure quella, poco ma sicuro. Come regalo di natale, magari. Hah! Vatti a fidare dei parenti.

«È solo per il tuo bene,» gli aveva detto lei. «Mi preoccupo a saperti qui da solo, alla tua età. Chissà cosa potresti combinare.» Ed era stata la prima botta. Camilla doveva essersi accorta che lui non era molto contento, così aveva corretto il tiro. «Quello che potrebbe succederti, dico. Potresti cadere, ti potrebbe venire qualcosa, non so, un problema di salute. Hai bisogno di qualcuno che ti controlli.»

Mi so controllare da solo, aveva obiettato Attilio. Mi sono sempre saputo controllare da solo.

«Ma adesso non sei più giovane,» era intervenuto quell’altro, Pietro o come si chiamava, il buono a nulla che Camilla si era voluta sposare. «Hai bisogno di essere controllato. Per il tuo bene.»

Per il tuo bene! Era la frase che lo mandava sempre in bestia. Per il tuo bene. C’era sempre qualche disgraziato che voleva costringerti a fare qualcosa, ed era sempre per il tuo bene. Hah! Guarda caso, era sempre anche qualcosa che peggiorava la tua vita. Mai che qualcuno gli avesse proposto di fare qualcosa di bello “per il suo bene”.

Attilio non ci aveva più visto. Avevano litigato, avevano urlato e alla fine se n’erano andati. Tempo due giorni ed ecco che era arrivato un furgone, con scatoloni e gente in tuta che gli aveva ribaltato il suo povero appartamento. Aveva cercato di cacciarli, Attilio. Aveva cercato di chiamare i carabinieri o la polizia, chiunque. Ma niente. Camilla e il disgraziato avevano già firmato tutto a nome suo e lui non ci poteva fare niente. Era per il suo bene, non lo capiva? Si preoccupavano per lui.

E adesso era prigioniero. Prigioniero del suo appartamento. Per il suo bene.

Aveva una sveglia smart e un letto smart che ogni mattina lo tormentavano fino a che non si alzava all’orario che era migliore per lui in base al suo profilo medico. Un distributore smart che gli faceva trovare le medicine di cui aveva bisogno ogni giorno, anche se lui era in perfetta forma. Una cucina smart che gli serviva pasti calibrati sui suoi bisogni nutrizionali e che facevano tutti schifo, pappette color cacca o brodaglia che sembrava uno scarico intasato. Specchi smart e un televisore smart che lo osservavano tutto il giorno e gli davano ordini su come sedersi, quanto sedersi, cosa fare e tutto il resto, peggio che i nazisti in un campo di concentramento.

Aveva pure un gabinetto smart, che misurava il prodotto quotidiano dei suoi processi digestivi, che chiamarla in altri modi era brutto, e gli ordinava purghe se sgarrava anche solo di due o tre grammi, oppure astringenti a seconda dei casi. E non dimentichiamoci porta e finestre smart, che si aprivano solo quando le condizioni meteo e la qualità dell’aria erano adatte a lui, e solo negli orari più adatti. E se Attilio non eseguiva tutti gli ordini, la porta non si apriva proprio. Un carcere, ecco cos’era!

Il peggiore di tutti era il fuhrer, come lo chiamava lui. La scatoletta attaccata alla parete del salotto, che comandava tutto il resto. Comandava e parlava. Dava ordini. Rimproverava. Si complimentava quando il cagnolino era stato obbediente. E sempre, sempre lo spiava. Sapeva tutto sul suo conto. E lo trattava come un neonato cerebroleso. Lui! Che aveva fatto la guerra!

Ok, Attilio non aveva fatto alcuna guerra, ma l’avevano fatta i suoi genitori ed era la stessa cosa, se ci pensi bene. I suoi genitori! E cosa avrebbe detto suo padre Italo, se avessero rinchiuso lui in una cella simile? Non si sarebbe fatto rinchiudere, ovvio. Anche a ottant’anni avrebbe preso a pedate nel sedere i figli, uno dopo l’altro. Che erano solo due, ma fa lo stesso. Altri tempi, altre persone.

Li avrebbe presi a pedate molto volentieri anche lui, lui Attilio, ma quei vigliacchi traditori mica gli avevano dato la possibilità. Avevano complottato tutto da lontano e l’avevano messo davanti al fatto compiuto. Vergogna! E adesso che il fatto era compiuto, mica si facevano più vedere, quelli. Non ne avevano proprio voglia. Non ne avevano mai avuto voglia. Chiudi in gabbia il vecchio rimbambito e tanti saluti: un problema in meno per noi.

Ma un problema in più per lui. E bello grosso.

Quella mattina il letto e la sveglia lo avevano costretto ad alzarsi alle sette. Niente di male, fin qui: i tempi delle lunghe dormite mattutine erano finti da anni, almeno per Attilio, e alzarsi presto non lo infastidiva. Era quasi normale, alla sua età. Avere una sveglia che ti suona nelle orecchie il canone in re di Pachelbel finché non ti alzi è molto meno normale. Avere un letto che vibra sotto di te e per poco ti scaraventa a terra, poi, è così non normale che la normalità la vede solo dal lato opposto.

Pure, era il risveglio tipico a casa Brigola. Quando gli andava bene.

Il fuhrer gli aveva detto che quel giorno forse poteva uscire, ma solo se faceva il bravo e prendeva tutte le sue medicine, senza capricci. Glielo aveva detto con la sua voce femminile falsa e artificiale, che era come strofinargli una sega sui nervi. Attilio aveva brontolato una risposta, ma al fuhrer non era piaciuta e gli aveva ordinato di ripeterla scandendo bene le parole. Borbottare non andava bene: quando aveva qualcosa da dire, lo doveva dire forte e chiaro.

Attilio glielo aveva detto forte e chiaro.

Il fuhrer aveva risposto che era una operazione impossibile per un assistente domestico, perché non possedeva le necessarie parti anatomiche, e comunque era una espressione scurrile e non la doveva usare. Doveva ricordarsi di mostrare sempre rispetto a chi lavorava per il suo bene.

Attilio aveva descritto in forma molto precisa la sua posizione riguardo agli oggetti che lavoravano per il suo bene, senza neppure essersi presi la briga di chiedergli quale fosse per lui il suo bene.

Il fuhrer lo rimproverò perché il suo linguaggio era davvero inaccettabile. Sua figlia si preoccupava per lui e lo aveva affidato alle cure migliori sul mercato. Avrebbe dovuto ringraziarla, lui, invece di rendere il lavoro più difficile a chi lo accudiva e lo proteggeva.

Attilio Brigola si era gonfiato come un rospo, poi aveva agitate le braccia ed era passato oltre, testa bassa e passo rapido. Stupido lui che si metteva a discutere con un affare di plastica, uno che era più stupido anche di quel lavativo di suo genero. Ah, che brutta vita.

Pure, uscire gli avrebbe fatto bene. Era almeno una settimana che la casa lo teneva chiuso lì dentro, ogni giorno con una balla diversa. Troppo freddo. Troppa umidità. Elevato rischio di pioggia. Tasso di polveri sottili nell’atmosfera superiore di tre volte ai livelli massimi consentiti. Non hai mangiato tutto il pranzo. E bablabla, nei secoli dei secoli. C’era da diventare scemi.

Attilio sapeva anche cosa avrebbe fatto, una volta uscito. Sarebbe andato al solito bar, dove c’erano gli altri, e avrebbe giocato a carte fino a sera, strozzando e bestemmiando quanto voleva. Non che di solito lui bestemmiasse molto, ma vivere lì dentro era un tormento e in un qualche modo si doveva pure sfogare, quando poteva. Poteva così poco... Ma aveva una voglia di briscola che gli usciva dal naso, quasi. Tenere in mano le carte, mentre chiacchierava e si divertiva con gli altri.

«Il tuo naso sta colando, Attilio. Hai bisogno di soffiarlo.»

Attilio Brigola guardò malissimo il fuhrer, poi si soffiò il naso. Era solo una similitudine, la sua. Si era già accorto del naso e se lo sarebbe soffiato da solo anche se quell’affare non gli diceva niente.

Si sforzò di restare tranquillo per il resto della mattinata, o almeno di ignorare le provocazioni della casa. Era difficile, ma ci riuscì quasi sempre. Il premio sarebbe stato un pomeriggio di briscola e lui lo voleva vincere, a ogni costo. Non sarebbe rimasto rinchiuso un altro giorno in quel manicomio di spettri elettrici, oggetti nazisti che sapevano solo dare ordini. Sarebbe uscito.

E magari non sarebbe più rientrato.

Era una idea affascinante. Ci aveva pensato più di una volta, ma il problema era sempre lo stesso: se fuggiva da lì, poi dove poteva andare? Non poteva mica mettersi a fare il barbone alla sua età. Cioè, sì, avrebbe anche potuto, non si era mai né troppo giovani né troppo vecchi per ritrovarsi a vivere in strada, ma non gli sembrava un grande miglioramento. Sarebbe stato più libero, d’accordo, ma solo di morire di freddo su una panchina, o magari bruciato vivo da un branco di ragazzi annoiati. Non la sua idea di libertà, insomma.

E rintanarsi a casa di uno dei suoi amici? Più fattibile, ma anche loro avevano problemi e non erano molto diversi dai suoi. Anzi, erano più o meno identici ai suoi, per quello che aveva sentito. Ennio e Athos erano stati chiusi dai figli e nipoti in una gabbia smart, come la sua. Danilo era a piede libero, vero, ma aveva una badante che aveva ribattezzato Adolfa, per motivi evidenti. E gli altri... no, era sempre più difficile diventare vecchi, ormai. Brutta storia, proprio.

Ma almeno avrebbe potuto giocare a briscola e distrarsi per un po’, quel giorno. Ah, che bello.

Solo che non lo poté fare.

Si presentò davanti alla porta smart nel primo pomeriggio, ben lavato e vestito, come lo specchio gli aveva imposto di fare. Aveva un mazzo di carte in tasca, più un portafortuna che altro. Al bar usi le carte del bar, era una tradizione, ma avere il tuo mazzo in tasca era, come dire, una specie di rito. Ti sentivi meglio ed era rassicurante. Diceva che un piano B lo avevi sempre, un’alternativa, una via di fuga, quello che era. Eri attrezzato e pronto a ogni imprevisto. O qualcosa del genere.

La porta smart si rifiutò di aprirsi.

«Cos’hai adesso, Cristo santo!»

«Non puoi uscire di casa senza il tuo smartphone,» recitò la voce del fuhrer.

Attilio Brigola si sarebbe messo a piangere. Lo smartphone. Quel coso di plastica inutile. Neanche ci fosse qualcuno che gli telefonava. Ogni tanto lo faceva Camilla, era vero, ma gli ogni si facevano sempre più rari e i tanto sempre più lunghi, specie da quando lo avevano rinchiuso in gabbia. «Così non avrai più bisogno che ti controlliamo noi,» aveva anche avuto la faccia tosta di dirgli, la figlia degenere. «Avrai la tua indipendenza e nessuno ti disturberà più. Contento?»

No che non era contento, perché di indipendenza non ne aveva, anzi: gliel’avevano rubata. Nessuno lo disturbava? Forse vero, se si parlava di esseri umani. Peccato solo che adesso ci fossero aggeggi di plastica a disturbarlo ogni volta che si muoveva. Ma per il suo bene, eh?

«Non mi serve, vado solo al bar qui dietro,» disse Attilio.

«Non puoi uscire di casa senza il tuo smartphone. Potrebbe succederti qualcosa.»

«Se mi succede qualcosa, mi succede al bar. Ci penseranno loro a chiamare la pubblica o quello che mi serve. Non ho bisogno di un telefono in tasca.»

«Non puoi uscire di casa senza il tuo smartphone. È per il tuo bene.»

Attilio Brigola alzò le braccia al cielo, o almeno al soffitto, e invocò il nome di dio, ma senza usare la voce. C’erano orecchie ovunque ed erano tutte sue nemiche. Con un sospiro e tanta infelicità nel cuore andò a recuperare lo smartphone, se lo infilò in tasca proprio davanti al fuhrer, quindi tornò a sistemarsi di fronte alla porta. «Posso uscire, adesso?»

«Le previsioni indicano una probabilità del settantasei virgola otto per cento che la temperatura cali e il tasso di umidità salga ben oltre i limiti accettati per il tuo benessere psicofisico,» disse il fuhrer. «Indossa una giacca più pesante. Ricorda la sciarpa.»

Attilio provò un intenso bisogno di causare male fisico a quell’aggeggio. Non poteva, perché non si può fare del male a una scatola di plastica, ma lo desiderava lo stesso. Sarebbe stato giusto, ecco.

Inutile. Spalle piegate, andò a cambiare la giacca e si mise la sciarpa attorno al collo, stando davanti a uno specchio smart. A posto? C’era altro? Posso uscire? Sua maestà me lo concede?

Per un poco non accadde nulla. Attilio Brigola contemplava la porta, il fuhrer taceva e il tempo gli sgocciolava sulle spalle. Cos’altro aveva adesso? Poi sentì una specie di clic e il fuhrer parlò.

«Puoi uscire. Ma torna presto.» La porta si aprì. Miracolo!

Attilio Brigola uscì. Rimase per quasi un minuto a battere le palpebre davanti al portone d’ingresso, il sole sulla faccia e l’aria ad accarezzargli la pelle. Da troppo tempo non la sentiva. È vero, l’aria puzzava di bruciato e il sole era piuttosto smorto, ma era fuori, era libero, non c’erano al momento aggeggi infernali a dargli ordini e poteva quasi sentirsi rinato. Poteva quasi credere che la vita non fosse poi un inferno, o almeno non sempre e non necessariamente. Libero!

Ma basta pontificare: tempo di briscola.

Si avviò di buon passo verso il solito bar, che aveva frequentato per anni prima nei giorni di ferie e poi, una volta in pensione, più o meno quasi sempre. Non aveva molto altro da fare, non da vedovo e con una figlia grande e sposata, che lo passava a trovare con lo stesso entusiasmo con cui andava a farsi fare una lavanda gastrica. Era il suo rifugio: forse non il migliore al mondo, ma un posto dove i vecchi catorci come lui potevano incontrarsi, chiacchierare, passare il tempo e fingere che nella loro vita ci fosse ancora uno scopo. Potevano anche lamentarsi senza problemi, di solito.

Chissà chi ci sarebbe stato quel giorno? Sperava almeno altri tre, per una bella briscola in quattro. Il resto della banda probabilmente lo aveva già dato per morto, come si faceva sempre quando sparivi per un po’ senza lasciar detto niente, ma poi si era sempre contenti di veder resuscitare il morto e lo sarebbero stati anche nel suo caso. Scherzando perché ci aveva messo più di tre giorni, magari, e poi il resto dello spirito macabro che avevano sempre, ma erano risate e facevano bene a tutti. Un modo come un altro per esorcizzare il peggio, forse, o forse quello che era. Non importava.

Attilio Brigola si fermò davanti al bar. Chiuse gli occhi per un attimo, ad assaporare fino in fondo la scena che lo attendeva. I soliti amici al solito tavolo, le solite carte chi giravano, i soliti bicchieri ma sperabilmente lavati dopo l’ultima volta. Il solito tutto. Dopo l’inferno in casa, ne aveva bisogno: lo avrebbe aiutato a mantenersi sano ancora per un poco. Un passo alla volta e così via . Attilio fece un passo ed entrò nel bar.

Non c’era nessuno.

D’accordo, c’erano altri clienti, non molti, ma non erano mai molti i clienti di quel bar, non durante il pomeriggio e non agli orari in cui ci andavano loro. Erano facce che riconosceva, anche se non le avrebbe sapute identificare. Facevano parte dello sfondo, non erano rilevanti: niente più che quadri e decorazioni varie, appese a un collo invece che alla parete. Mancava però la sua banda.

Non erano ancora arrivati? Possibile, ma... no. Conosceva i loro orari. A quell’ora c’erano sempre. E se a quell’ora mancava qualcuno, significava che quel giorno non sarebbe venuto. Capitava spesso e nessuno ci faceva caso: era una buona occasione per parlargli dietro. Senza cattiveria, eh.

Possibile che mancassero tutti?

Possibile, perché non c’erano. Niente Ennio, niente Athos, niente Danilo. Niente Giorgio, che ormai si vedeva poco ma ogni tanto passava di lì anche lui, quando la gamba lo reggeva. E Mariano? Pure lui disperso in Russia? Ma non era mai mancato, il vecchio Mariano! Se ne stava sempre a guardare e giocava solo se proprio c’era bisogno e lo costringevi a forza, ma era un monumento, un pezzo del paesaggio, un qualcosa che vedevi sempre e ti rassicurava, perché era lì e tutto funzionava ancora.

Solo che adesso non c’era. Sparito anche lui.

Attilio si guardò attorno, cercando di evocare col pensiero gli amici di briscola e lamentele. Ma non funzionava. Gli altri si ostinavano a non apparire. E adesso lui? Confuso e sconsolato, si avvicinò a Gianni, il barista.

«Non c’è nessuno oggi? Cosa è successo?»

Gianni si strinse nelle spalle. «Sono tre giorni che non si vedono,» rispose da dietro i baffoni di cui andava fiero, anche se erano ingrigiti e sembravano qualcosa schiacciato da un’auto. «Non so mica che fine hanno fatto. Nessuno li ha più visti.»

Attilio digerì la notizia. «Non è mica successo qualcosa di brutto, vero?»

«Non lo so. Sentito niente, io. Anche te però non ti sei fatto vedere per un po’.»

«Perché la casa... problemi in casa, tutto qui.» Non una gran conclusione, ma Attilio non gli sarebbe certo andato a dire che la porta non lo aveva lasciato uscire. C’erano limiti a tutto e ognuno aveva la sua dignità, per quanto sgangherata e arrugginita potesse essere.

«Magari li hanno anche gli altri,» concluse Gianni.

Già, magari li avevano anche gli altri. Attilio pensò a Ennio e Athos, che come lui erano stati chiusi in una casa smart da parenti serpenti. Che fossero prigionieri? Possibile. Che, e questo era proprio il più brutto dei pensieri, che le loro case si fossero messe d’accordo, per farli uscire uno alla volta, un giorno uno e un giorno l’altro, ma mai tutti assieme? Sembrava paranoico, ma sembrava anche quel genere di dispetto che il fuhrer gli avrebbe potuto fare. Perché sì, poteva essere un pezzo di plastica e basta, ma era un pezzo di plastica malvagio. Lo potevi sentire.

Ma adesso lui come avrebbe passato il pomeriggio? Con chi avrebbe giocato a briscola?

Con nessuno, perché non c’era nessuno.

Ma no, non era possibile. Sarebbero arrivati, prima o poi. Erano in ritardo, d’accordo, ma li avrebbe aspettati e prima o poi sarebbero entrati. Si sarebbero seduti con lui al solito tavolo. Una mano non più molto agile avrebbe preso il mazzo di carte e avrebbe cominciato a mescolare. Un altro avrebbe tagliato. Sotto con la prima partita. Poi la seconda. La terza. E tutto sarebbe tornato a posto.

Tutto normale. Già. Bastava solo aspettare. Tutto si aggiusta da solo, se aspetti abbastanza.

Attilio Brigola ordinò e chiese un mazzo di carte. Gianni eseguì.

Seduto al solito tavolo, Attilio cominciò un solitario, uno a caso. Era solo un modo per far passare il tempo e tenersi occupato, mentre aspettava. Gli altri sarebbero arrivati di sicuro. Intanto lui avrebbe tenuto il posto e scaldato le carte. E aspettato. Poi avrebbero giocato a briscola come sempre.

Qualche tempo dopo, lo smartphone vibrò. Attilio guardò. Un messaggio. Del fuhrer. Gli diceva che era ora di tornare. Per il suo bene. Cominciava a fare freddo. Attilio lo ignorò.

Un altro messaggio. E un altro. Tempo di tornare. Per il tuo bene. Attilio li ignorò. Perché aveva una partita a briscola da fare. Gli altri sarebbero arrivati. Era questione di tempo. Bastava aspettare.

A colpi di solitario, Attilio Brigola proseguì la sua lunga veglia. Sarebbero arrivati. Bastava soltanto aspettare un poco. Poi sarebbero arrivati. E se non fossero arrivati loro, sarebbe arrivata la polizia. Il fuhrer l’aveva chiamata di sicuro, ormai, per denunciare il vecchio disobbediente. Per il suo bene.

Arrivassero pure. Ad Attilio non importava più. Una mano di solitario, un’altra mano. E aspettava. I suoi amici, la polizia, chiunque fosse arrivato. Sperando che fossero Ennio, Athos e Danilo. Per una partita a briscola, dopo tanto. Per rivederli, dopo tanto. Li aspettava e smazzava, da solo.

Perché sarebbero arrivati, giusto?

di Adriano Marchetti