Adriano - racconti e altro

Nato sotto a un cavolo

Quando Pietro Sbafo vide il neonato, capì subito che era uno scherzo. Era la sola spiegazione logica che ci fosse, capite anche voi. D’accordo, poteva anche essere una qualche esibizione artistica o una messinscena di, non so, qualche gruppo di attivisti che volevano rivendicare qualcosa di sociale e di serio, quello che pare a voi, ma non aveva senso, se ci pensate bene. Cose del genere le fai in luoghi pubblici, in città o in altri posti dove puoi farti notare e rompere le scatole a un sacco di gente, no? Questione di pubblicità. Mentre lì...

Pietro sospirò e alzò le spalle. Cosa c’era lì? Niente, ecco cosa c’era. Campagna. Cavoli. Campagna e cavoli. Quindi non poteva essere una esibizione. Restava lo scherzo. Che era stupido e di cattivo gusto, a suo parere, ma pazienza. Non c’erano ancora leggi contro la stupidità, purtroppo. Sarebbero finiti in galera tutti, a partire dagli autori della legge. Ci voleva pazienza, dunque. Solo che scegliere proprio quel punto per mettere un bambolotto era triste, sì. E fastidioso.

Era un campo di cavoli e questo lo rendeva ancora più ridicolo. Ma aveva senso, se accettavi che si trattava di uno scherzo, e Pietro ormai lo aveva accettato. Restava da capite chi avesse mai fatto uno scherzo simile e a chi fosse destinato, ma non era poi così importante. Era importante che lui aveva una spiegazione e poteva proseguire con la camminata. C’era un bambolotto a forma di neonato e lo avevano messo in un campo di cavoli: ridicolo, ma accettabile. Comprensibile, anche.

«Sarà il rimasuglio di una qualche messinscena,» si disse, guardandolo ancora un poco e scuotendo la testa. Aveva senso. Non uno scherzo per lui, ovvio, ma per qualcun altro. Finita la festa, avevano dimenticato di toglierlo e lui lo aveva visto durante la sua passeggiata triste. Il caso è chiuso. Forse lo avrebbe dovuto rimuovere, ma perché darsi la pena? Non erano affari suoi. Non lo riguardava.

Verissimo. Erano poche le cose che riguardavano Pietro Sbafo. Ancora meno numerosi erano i suoi affari. Non era la persona più insignificante del mondo soltanto perché esserlo lo avrebbe reso da un certo punto di vista significante. Lui non lo era. Non lo poteva essere. Era così insignificante che era insignificante persino la sua insignificanza. Ne era quasi orgoglioso, il nostro Pietro.

Ci era soprattutto abituato. Tutta la sua vita era trascorsa nell’insignificanza, dai tempi ormai lontani della scuola fino a quelli ormai logori del lavoro. Era così insignificante che sceglieva sempre quel tratto di campagna appena fuori città per le sue passeggiate. Il tratto coi campi di cavoli. Perché non ci passava mai nessuno di lì. Non avevano un buon odore, tutti quei cavoli. Pietro Sbafo ci passava, e ci passava proprio perché non ci passava mai nessuno. Era il suo modo per darsi un significato.

Non ci era mai riuscito, ma pazienza.

Quel pomeriggio, però, qualcosa era successo. Aveva visto un neonato in mezzo ai cavoli. Non sotto un cavolo, non proprio, ma abbastanza coperto da essere più o meno la stessa cosa. Praticamente era il tipico scenario da storiella per bambini. Mancava giusto la donna che lo veniva a raccogliere e lo portava a casa. Perché i bambini nascono così, giusto?

Pietro Sbafo sbuffò una mezza risata. Già, ovvio. Solo che non lo aveva trovato una donna: lo aveva trovato lui. Oh beh, ritenta e sarai più fortunato, giusto? Scuotendo la testa, voltò le spalle a tutto e fece per riprendere il cammino.

«Potresti almeno salutare, già che ci sei.»

Pietro si fermò. Chi gli aveva parlato? Era da solo in quel campo. Era sempre da solo in quel campo che puzzava di cavoli. Le persone sane di mente sceglievano zone migliori per le loro passeggiate e sì, qualche contadino doveva esserci, visto che i campi erano coltivati, ma lui non li aveva mai visti e non ne sentiva la mancanza. Quindi chi gli aveva parlato?

«Girati e lo scoprirai, fesso.»

Pietro sospirò e si girò. Il neonato aveva gli occhi aperti e lo stava fissando. Non si era raddrizzato o messo a sedere: rimaneva coricato nel campo, avvolto in una specie di coperta che lo imbozzolava a mo’ di crisalide, ed era immobile. Ma aveva aperto gli occhi e lo stava fissando.

«Sì, bravo, sono io a parlare. Ti sembra tanto strano?»

A Pietro sembrava tanto strano, ma non se la sentiva di rispondere. Doveva essere un’allucinazione, una specie di sogno a occhi aperti, ma il neonato lo stava fissando e sì, aveva anche mosso le labbra per parlare. Quindi non aveva senso. E poi era un bambolotto, non un neonato. Non poteva essere un neonato. Bambolotto, giusto. E siccome era un bambolotto...

«Questo è uno scherzo, vero?» disse.

Il neonato lo fissò con una vaga pietà. «No, non è uno scherzo. Ti sto parlando davvero. Se solo tu avessi un briciolo di cervello, ci saresti arrivato da solo e non avresti bisogno di fare domande tanto stupide.»

«Non è una domanda stupida! I neonati non parlano, lo sanno tutti! E non si trovano sotto i cavoli!»

«Ah, davvero? E allora dimmi un’altra cosa che sanno tutti, forza. Visto che sei così bravo...»

Pietro si morse le labbra. Doveva ragionare, non parlare a casaccio. Era uno scherzo, e questo non si poteva mettere in discussione. Era la sola spiegazione ragionevole. Dunque...

Perché continuava a considerarlo un neonato? Era un bambolotto, maledizione. Un bambolotto! E i bambolotti possono parlare. Pietro sorrise. Tempo di tornare alla realtà. «Sei solo un pupazzo che si muove un poco, apre e chiude gli occhi, cose così. Normale giocattolo, ma hai anche un microfono dentro di te e da qualche parte qui attorno c’è qualcuno che mi guarda e parla. Ovvio.»

Il neonato annuì. «Ovvio, certo. E sai anche dirmi dove sarebbe nascosta questa persona?»

Pietro si guardò attorno. Non c’erano luoghi per nascondersi, o almeno lui non ne vedeva. Soltanto i campi di cavoli, poi campi abbandonati, ancora campi e insomma niente di che, pianura ovunque, le sagome di case in lontananza e un’aria di desolazione. Se qualcuno lo stava davvero osservando, gli serviva un buon binocolo per riuscirci. Sospirò.

«Ok, a questa non so rispondere, ma c’è comunque qualcuno che guarda e ti fa parlare. È logico.»

Sulla faccia del neonato c’era un mezzo sorriso ironico. «E sei invece fossi io a parlare? Non ti pare la spiegazione più logica e semplice?»

«I neonati non parlano!»

«E non si trovano sotto i cavoli, d’accordo, ma è sbagliato. I bambini si trovano sotto i cavoli e lo puoi vedere tu stesso. Se un’affermazione è chiaramente falsa, non pensi che potrebbe esserlo anche la seconda? Soprattutto perché è confutata dai tuoi sensi.»

«Ok, un neonato può trovarsi sotto un cavolo, ma solo perché qualcuno ce lo ha messo. Qualcuno a cui farebbe bene una denuncia per maltrattamento di minore, secondo me. Il punto è che secondo la storia i neonati spunterebbero sotto i cavoli, ma questo è palesemente falso! Non ha proprio senso.»

Il bambino scosse la testa. «Grande e grosso lo sei, ma anche tanto stupido. Cosa ti dice che non ha senso? Di senso ne ha eccome, invece. Sei tu a essere cieco. È una scena mitica.»

Pietro Sbafo sorrise e annuì. «Di cosa stai parlando?»

«Sto parlando di mitologia. Hai presente? Quello che vedi non è assurdo e non è falso: è le memoria di un antico mitologema. I figli della terra, non lo conosci?»

«Di cosa stai parlando?» ripeté.

Il neonato sbuffò. «Ti si è incantato il disco? Non importa. Sto parlando dell’antica concezione per cui i figli non sono di questa o quella madre, ma sono figli della terra stessa. La madre umana ne è il tramite, d’accordo, ma a produrre davvero il bambino è la terra. La Grande Madre. È l’idea che sta alla base delle nascite in terra, delle tradizioni di posare a terra i neonati, e anche di tutte le storie in cui i bambini spuntano dal terreno. Può essere dal suolo, oppure da una pianta, o altro ancora. Non ne hai mai sentito parlare? Possibile?»

Possibile. Pietro Sbafo si sentì molto stupido. Chiunque stesse dando la voce al bambolotto (perché questo era, un bambolotto, non un neonato!) doveva almeno essere una persona di una certa cultura. Deviata, ovvio, e probabilmente pervertita, ma comunque cultura. Da un ceto punto di vista. Perché certe scemenze non ti vengono spontanee: devi studiare per riuscirci. O qualcosa del genere.

«Ok, diciamo che non ne ho mai sentito parlare. E allora?»

«E allora quello che vedi non è strano. Tra non molto arriverà una donna e mi raccoglierà e io sarò suo figlio. Lo sarò in tutti i sensi. Ciò non toglie che resterò anche il figlio della terra, e in un senso molto più profondo e accurato.»

«Stiamo parlando di una qualche filosofia new age?» Pietro aveva sempre trovato sospette entrambe le cose: filosofia e roba new age. Mescolandole, non ne poteva uscire alcunché di sano. Era logico.

«No. Stiamo parlando di mitologia. Puoi anche etichettarla come storia delle religioni, se questo te la fa sembrare più seria, ma la sostanza non cambia. I figli della terra. Spuntati dalla terra, spesso, e a volte è un animale a portarli da lontano, ma sono dettagli: i figli vengono dalla natura, che è poi la Grande Madre. Perché tutta la vita viene da lei. Capisci?»

Pietro sorrise e annuì. Gli ricordava certe discussioni che avevano fatto ai tempi dell’università, che non avevano senso e non seguivano alcun filo conduttore, ma erano divertenti e aiutavano a passare il tempo, anche quando degeneravano davvero e si cominciava a parlare di politica. Questa pareva leggermente più culturale e profonda, ma sempre stupida rimaneva. Era ovvio.

Il neonato sospirò. «No, non mi capisci, te lo leggo in faccia anche se non so ancora leggere, ma va bene lo stesso, non ha importanza. Perdo tempo a parlare con te soltanto perché di tempo ne ho pure troppo e nessun altro modo per sprecarlo. Sai anche tu le storie dei bambini portati da qualche tipo di animale, vero? La cicogna, per esempio. La cicogna porta i bambini. Non dirmi che non l’hai mai sentito dire, ti prego.»

Ah, ecco qualcosa di familiare. «La cicogna sì, quella la conosco.»

«Ecco, bene, almeno quello. Ci sono vari animali che portano i bambini, a seconda della cultura. Da noi ci sono le cicogne, ma non è importante il tipo di animale. È importante il concetto. È un modo per dire che i bambini vengono dalla natura, dalla madre terra, e allo stesso tempo da lontano. Non è qualcosa che proviene da te, ma te lo portano da fuori. Gli animali o altre figure fantastiche.»

Pietro sorrise e annuì. «E allora? Voglio dire, che significa?»

Il neonato agitò le braccia. «Non ha importanza. Parlare con te è peggio che stare zitto ad aspettare. Guarda in alto.»

Pietro Sbafo guardò in alto e la vide. Una cicogna, che attraversava il cielo e aveva qualcosa tenuto nel becco. Una specie di fagotto di stoffa, ma dalla forma molto sospetta. Non aveva senso, era una delle cose più assurde che lui avesse mai visto da sobrio, eppure la stava vedendo ed era sobrio.

Era anche piuttosto infelice di esserlo.

«Dimmi che non è quello che penso,» balbettò. «Dimmi che sono i Monty Python.»

Il neonato cercò di stringersi nelle spalle. «Non desidero conoscere i tuoi pensieri, ammesso che tu ne abbia davvero, ma quella è una cicogna che porta un bambino. È un altro esempio di figlio della terra, come ho già cercato inutilmente di spiegarti. I bambini arrivano a te, i bambini spuntano; tu li ricevi, li raccogli, li cresci, ma non sono tuoi. Sono della terra e alla terra ritorneranno, alla fine. Ma neppure quella è una fine, perché dalla terra germoglieranno di nuovo, come semi. È un ciclo.»

Pietro scosse piano la testa. «E tu cosa sei? Come fai a sapere tutto questo?»

«Lo so perché continuo a passarci. A breve non lo saprò più, fino a che non ci passerò di nuovo. La conosci questa storia? O non sai neppure questa?»

Pietro Sbafo credeva di ricordare una fiaba di angeli che mettevano un dito sulla bocca ai bambini e li facevano tacere, ma al momento non era sicuro neppure di quale fosse il proprio nome, figurarsi il resto. Scosse piano la testa, più confuso di quanto si fosse mai sentito in tutta la vita.

Il neonato sospirò. «Non importa, non importa. Adesso te ne devi andare, perché mi stanno vedendo a prendere. Non è stato un piacere parlare con te, ma almeno ho passato un po’ di tempo. Ci si deve accontentare, specie nelle mie condizioni.»

Pietro si sentì girare la testa. Aprì la bocca senza sapere cosa ne sarebbe uscito, ma fu irrilevante: la realtà attorno a lui cominciò a svaporare, si fece nera, qualcosa gli svanì sotto i piedi ed era a letto, il suo letto, comodamente avvolto nelle lenzuola. La testa gli girava ancora e si sentiva ballare, ma non aveva importanza. Era a casa. Era tutto finito. Era stato solo un assurdo sogno.

E che sogno! Da dove gli erano venute tutte quelle idee? Pietro non lo sapeva, né desiderava saperlo più di tanto. Gli bastava sapere che non era successo, perché era stato tutto un sogno. Odiava i finali di quel tipo, come lettore, ma li adorava nella vita reale. Erano consolanti. Erano...

Era buio. Pietro aprì a fatica gli occhi, ma era ancora buio. Cosa stava succedendo? E quel letto non gli sembrava poi così familiare. Era davvero il suo letto? Sembrava più una specie di amaca, adesso che ci pensava bene. Cosa poteva significare? Dove si era svegliato? Cosa...

Un leggero tonfo. Il verso di un qualche tipo di volatile. Piuttosto grosso, in apparenza.

E la cicogna riprese il volo, lasciando il piccolo fagotto davanti alla porta della famiglia Sbafo, che aspettava un bambino e lo aveva appena ricevuto. Avevano anche già deciso il nome. Pietro. Proprio un bel nome, vero? Speriamo però che sia un maschietto, altrimenti ne dovremo scegliere un altro.

di Adriano Marchetti