Orfeo del piffero
Se c’era una cosa che il signor Ennio Scamorza amava fare, ogni volta che aveva tempo libero, era salire in collina poco fuori dal paese dove viveva, infilarsi in un boschetto sull’altro versante, quello sul lato appennini, sistemarsi comodo su un tronco caduto da tempo ma ancora resistente, e suonare il piffero. Il suo piffero. E no, questa semplice affermazione non contiene riferimenti freudiani o maliziosi, grazie. Si parla dello strumento musicale in legno, ad ancia doppia. Sul serio.
Il signor Ennio se n’era innamorato da bambino, quando nel periodo di Natale circolavano ancora in paese gli zampognari e i pifferai, a suonare... beh, diciamo “varie cose”, perlopiù natalizie. Come si chiamassero di preciso i brani, ai tempi, il piccolo Ennio non lo aveva saputo. Oggi che lo avrebbe potuto scoprire, invece, non se li ricordava più, ma non ha importanza. Il punto è che ai tempi gli erano piaciuti molto e gli erano piaciuti ancora di più gli strumenti. Il piffero, in particolare, e il suo suono, che era un po’ come una zampogna, da sola. O meglio, la zampogna era come un insieme di pifferi. O... beh, ci siamo capiti. A ogni modo, gli era piaciuto il suono del piffero. Ecco tutto.
Non aveva mai avuto occasione di imparare a suonarne uno, da giovane. Un peccato, ma sono cose che capitano nella vita e non c’è niente da fare. Adesso che giovane non lo era più da un pezzo, se non in senso strettamente relativo, aveva cominciato a studiarlo da solo, da autodidatta, nel tempo libero che il suo lavoro di ortolano gli dava. Non era molto bravo, ma si applicava ed era sicuro che prima o poi sarebbe migliorato. Era solo questione di tempo. Di pratica. Di impegno. Giusto?
Giusto o sbagliato che fosse, quella domenica pomeriggio uscì poco dopo pranzo, nella borsa il suo prezioso piffero, fabbricato a mano da un artigiano di Bobbio, e nel cuore tanta voglia di suonare. O di stonare, d’accordo, ma è questione di punti di vista. Dal suo, avrebbe suonato. Gli altri invece la pensassero pure come volevano, tanto non lo avrebbero sentito. Non c’era mai nessuno in collina a quell’ora ed era proprio per questo che lui ci andava. I vicini di casa non erano molto comprensivi.
Ma era una bella giornata, il cielo era sereno e luminoso, non pareva neanche di essere già ai primi di novembre, faceva caldo a sufficienza da lasciare aperto il giubbino e se non era il tempo perfetto per starsene all’aperto a pensare ai fatti propri e suonare, beh, Ennio non sapeva in quale altro modo definirlo. Così non lo definì, ma uscì di casa e salì verso la collina. Si sarebbe divertito di sicuro.
Per un poco si divertì. Si inoltrò nel boschetto, raggiunse il tronco, lo spazzolò, si sedette, aprì la borsa, prese il piffero, lo preparò, raddrizzò la schiena, cominciò a suonare. O almeno a esercitarsi.
I primi problemi arrivarono quando spuntò lo scoiattolo.
Era grigio, il che lo identificava subito come un estraneo, immigrato clandestino dall’America, che era venuto a rubare il lavoro e lo habitat agli scoiattoli rossi nostrani. Una vera piaga sociale. Specie perché non se se stava zitto. O fermo. O non se ne andava da un’altra parte. Tipo in America, a casa.
Ennio lo sentì per la prima volta durante una pausa, mentre provava un pezzo tradizionale che dava più difficoltà del solito, ma che lui avrebbe davvero voluto imparare a suonare bene. Ennio si fermò e stiracchiò un poco la schiena; sentì un fruscio sopra la testa o quasi; guardò.
C’era uno scoiattolo grigio che sgambettava su un ramo più in alto. O meglio, graffiava. Raspava. E soprattutto lo infastidiva. Gli aveva anche fatto cadere qualcosa sulla borsa, che forse era un pezzo di corteccia o altra porcheria simile. Uno scoiattolo rumoroso e incivile. Roditore maledetto.
Ennio Scamorza lo guardò molto male, si augurò che quella specie di topo se ne andasse, sospirò, si sistemò meglio e riprese a suonare. Per poco. Meno di un minuto e quello scoiattolo dannato aveva aggiunto uno strano verso al suo raspare: un suono simile a uno schioccare di lingua, ma acuto. Non lo voleva definire uno squittio, ma Ennio pensò che ci assomigliava abbastanza.
Smise di suonare e guardò molto, molto male la bestiaccia. Che lo ignorò, continuando col rumore.
Ennio sospirò. Prometteva male, quel pomeriggio. Se lo sgorbio non si levava dalle palle, rischiava di sprecare la giornata. Come poteva concentrarsi a dovere, con una specie di topo che faceva tutto quel casino sopra la sua testa? La vita era davvero ingiusta.
Ricominciò a suonare, cercando di non sentire lo scoiattolo, ma più lui cercava di non sentirlo e più lo sentiva, come succede sempre. Provò a suonare più forte, sperando che il suono lo avrebbe, chi lo sa, spaventato e fatto scappare, qualcosa del genere. Non servì. Al contrario, il rumore aumentò.
Ennio Scamorza abbassò il piffero e augurò allo scoiattolo che gli venisse un canchero. Non ebbe il più piccolo effetto concreto, ma almeno lo fece sentire un poco meglio. Piuttosto che niente. Scosse la testa e suonò di nuovo, cercando di pensare solo alla musica.
Per un poco sembrò funzionare, poi il rumore sopra di lui si intensificò. Guardò in alto. Era arrivato un secondo scoiattolo e si era unito al primo a raspare e squittire.
«Zana vaca...»
Ma gli scoiattoli non erano animali selvatici? E gli animali selvatici non avevano paura dell’uomo? E allora perché quei due sgorbi maledetti dovevano starsene proprio sopra la sua testa a fare casino, con tutti gli alberi e i rami che c’erano da quelle parti? Non potevano, chessò, cercare un altro posto per i loro giochi, o magari andare a farsi spiaccicare da un camion, già che erano nelle spese? No. Lì se ne stavano. Lì, sopra la sua testa. E continuavano a far cadere robaccia sulla sua borsa.
Ricominciò a suonare aumentando il volume, con la speranza di spaventarli, farli scappare, quel che era. Fargli venire un accidente sarebbe stato ancora meglio, ok, ma nella vita bisogna anche sapersi accontentare ed Ennio si sarebbe accontentato di levarseli dai piedi, o anche da altre parti del corpo che di solito sono presenti in coppia. Come i due scoiattoli. Che non se ne andavano.
Con un sospiro, sollevò il piffero per controllare l’ancia e sistemarla, se necessario. Non era il caso di fare danni, solo per scacciare due sorci dalla coda pelosa. Aumentare un poco il volume ci stava, ma sempre con moderazione. Ci teneva parecchio al suo piffero, era un ottimo strumento e il prezzo era soltanto l’ultima indicazione della sua qualità, la meno importante. Era uno...
Qualcosa cadde dai rami sopra di lui. Gli passò a filo davanti alla punta del naso e atterrò poco sotto la sua testa. Sul piffero. Una immondizia qualunque, magari anche un pezzo di escremento, per quel che ne sapeva lui. Lo avevano fatto cadere i due scoiattoli. Lo avevano fatto cadere sul suo piffero.
Ennio Scamorza lo tolse delicatamente con un fazzoletto. Ci rimase una macchia. Era piccola e per vederla dovevi sapere che c’era, la dovevi proprio andare a cercare, però c’era, era lì, sul piffero, e l’avevano causata i due sgorbi.
Da quasi cinque anni Ennio veniva a suonare in quella specie di radura nel boschetto sulla collina a due passi dal paese. Mai quando faceva troppo umido, mai quando c’era il rischio di pioggia, ma era stato un appuntamento regolare, lo aveva frequentato alcune centinaia di volte, forse di più, forse di meno, e mai, mai era successo qualcosa al suo piffero. Neanche una mosca ci si era mai posata.
E adesso quei due maledetti sorci volanti...
Cadde qualcos’altro e gli finì in testa.
Ennio Scamorza accarezzò il piffero, lo ripose nella borsa, la chiuse, la posò accanto al tronco dove era seduto. Si guardò attorno. Trovò quello che gli serviva. Lo raccolse. Si alzò. Guardò in alto.
I due sgorbi erano ancora lì a squittire e raspare, come se niente fosse.
Non avevano più paura dell’uomo? Si erano già dimenticati di chi fosse l’animale più bastardo della foresta? Tempo di un rapido corso di ripasso. Era per il loro bene, dopotutto.
Con un ruggito da gorilla con le emorroidi Ennio cominciò a bombardare di sassi i due scoiattoli. Li mancò, ma le bestiacce dovevano aver capito l’antifona, alla buon ora, perché scapparono sull’altro albero, corsero lungo il ramo, saltarono sul prossimo, corsero di nuovo, un altro salto e via, sempre più lontani, veloci come, ahaha, sorci. I sassi li incalzavano, ma senza causare danni apparenti, fino a che qualcosa successe, finalmente. Forse colpito, forse sbilanciato, uno scoiattolo cadde. Sparì nel sottobosco e il signor Ennio Scamorza ululò al cielo il suo trionfo, con una gran voglia di battersi il petto. Non lo fece. Poteva essere pericoloso, alla sua età.
Qualche tempo dopo si calmò, sudato e col fiatone.
Come se niente fosse, si spazzolò le mani sui pantaloni e guardò che non ci fossero altri scoiattoli a portata di sasso. Non ne vide. Soddisfatto, tornò a sedersi, riprese la borsa, estrasse il piffero e il suo esercizio quotidiano poté ricominciare. Per un poco.
Suonava ancora peggio del solito e sembrava incapace di tenere basso il volume. Era distratto e non aveva senso continuare ancora. Tutta colpa degli scoiattoli. Lo avevano innervosito, fatto arrabbiare e in generale gli avevano reso un inferno quel pomeriggio. Tanto valeva sbaraccare, ormai. Non ne avrebbe cavato alcunché di buono.
Aveva cominciato ad asciugare e pulire il piffero quando sentì dietro di sé il rumore, seguito da una specie di grugnito. Una potente zaffata di maiale selvatico gli raggiunse le narici. Ennio si girò.
Un cinghiale lo stava fissando con occhi, beh, diciamolo pure, porcini. Era grosso. Anzi, era grasso. Il genere di cinghiale che puoi trovare nei dintorni di un insediamento umano, a ingozzarsi di rifiuti e tutto ciò che riesce a raccattare da cassonetti, discariche e gente maleducata. Il suo pelo era scuro e aveva cicatrici sul grugno. Non tante e non profonde, ma facevano il loro effetto. Si vedeva anche una linea frastagliata su un fianco, piuttosto sottile, che poteva pure essere un’altra cicatrice. Ennio non si intendeva di cinghiali, o anche solo di animali in genere. Era un ortolano. Gli animali e i loro derivati li lasciava ai macellai. Era il loro campo. A ognuno il proprio mestiere.
Non ci voleva un esperto per notare che quel cinghiale non era contento. Fissava Ennio ed emetteva strani suoni. O magari erano suoni normali, ma non erano piacevoli da sentire.
«Buongiorno,» disse Ennio.
Il cinghiale non rispose, per fortuna, ma i rumori che emetteva si intensificarono un poco. Forse non gli era piaciuto il saluto. Doveva essere un suino molto maleducato.
Che fare? Ennio cercò di valutare le sue possibilità. Primo, gli animali selvatici fuggivano davanti a un essere umano. Lo sapevano tutti. Quel cinghiale no, perché non stava fuggendo. Il che era male. D’altra parte, non aveva mai sentito di qualcuno aggredito da un cinghiale, almeno dalle sue parti, il che poteva essere un bene. Forse era solo incuriosito. Forse lo stava solo studiando. Forse voleva da mangiare. Sì, questa sembrava la cosa più probabile. Era solo un maiale peloso, dopotutto.
Peccato che Ennio non avesse cibo con sé. Dunque?
Il cinghiale continuava a fissarlo. Stava diventando un poco inquietante, a dire il vero.
Idea! Agli animali piace la musica, lo sanno tutti. Anzi, gli animali restano incantati dalla musica, il che è ancora meglio. Forse era proprio per questo che gli scoiattoli maledetti non se ne andavano. A pensarci subito, si sarebbe risparmiato parecchi problemi.
Fortuna che ci aveva pensato adesso.
«Aspetta un attimo che ho qualcosa per te.»
Ennio Scamorza si alzò lentamente, il piffero in una mano, gli occhi fissi sul cinghiale. Mai girare lo sguardo, ecco un’altra cosa che tutti sanno sugli animali. O era mai distogliere lo sguardo? Uguale. Il punto era che dovevi continuare a guardarli ed Ennio continuò.
«Questo ti piacerà,» aggiunse, con tono rassicurante. Non sapeva di preciso chi stesse cercando di rassicurare, ma una rassicurazione generica non faceva mai male. Aveva davanti un pubblico molto esigente, a modo suo, ma era certo di poterlo soddisfare. Si era allenato parecchio.
Tempo di verificare il risultato di tutte le ore spese a suonare lì. Doveva per forza essere positivo, giusto? Era un ottimo strumento e lui era un appassionato. Si impegnava. Ci credeva davvero.
Ennio annuì e cominciò a suonare.
Alla terza nota stonata consecutiva, il cinghiale caricò.