Paolo lo sapeva
Il sentiero era sparito e il mondo pure. Restava la collina, alta su entrambi i lati, ad avvolgerlo come una minaccia. O come qualcosa di molto grande, che occupa tutto il tuo campo visivo. Eppure Paolo gli aveva detto che quella era la strada giusta, per andare a Pietra Nera, e lui sapeva sempre tutto. Giusto? Il dubbio lo sfiorò per un attimo, ma subito lo scacciò indignato. Certo che Paolo aveva ragione!
Il bambino si guardò attorno, ma attorno non c’era poi granché da vedere. Campi di erba gialla e pungente, che gli faceva prudere le gambe; squarci di terra secca e spaccata; un cielo bianco di candeggina, a coprire il tutto. Era agosto e lui si era perso in mezzo alle colline, nel pieno della sua avventura. Anzi, della sua Avventura, con la A maiuscola. La prima, vera esplorazione da solo, alla faccia di sua madre, che lo credeva come al solito insieme a Paolo. E invece no, c’era andato da solo. Haha! E puntualmente si era perso. Da solo.
Eppure era cominciata bene. Aveva seguito la strada asfaltata fino alla trattoria, poi si era fermato a bere e a bagnarsi la testa lì dove c’era la fontanella, aveva girato a destra e imboccato la carraia tra i campi, seguendo le istruzioni. Fin lì, tutto perfetto. Si era lasciato indietro una casa, poi aveva fatto una pausa davanti alle ragnatele tra le siepi, sulla sinistra: quelle grosse, fatte dai ragni strani, con la pancia a strisce gialle e nere, quelli che Paolo diceva che fossero velenosi. Lui non ci credeva molto, ma ci stava lontano lo stesso, perché non si sa mai. E poi... poi, a un certo punto, aveva disinserito il cervello e si era lasciato trasportare dalla fantasia. Come al solito.
Colpa del posto, naturalmente. Perché lo ispirava, sembrava proprio uno di quei luoghi delle storie fantasy, che gli piacevano tanto. E allora era diventato un fuggitivo, braccato da una squadra di orchi, che arrancava sotto il sole, senza cibo né acqua. Si guardava indietro a ogni curva, fingeva di dover nascondere le tracce, ogni tanto si piegava al riparo dei cespugli, sempre più radi. E così, tra una cosa e l’altra, aveva perso di vista la strada giusta.
Paolo avrebbe saputo cosa fare, questo era certo. Ma Paolo non c’era e c’era lui, da solo, in mezzo alla collina gialla e aspra. L’aria era quasi solida e il calore del primo pomeriggio lo stordiva. Tutto era giallo nei suoi occhi, luce riflessa che lo abbagliava. Il terreno gli frusciava sotto i piedi, mentre ciondolava in quella valletta tra i pendii, così alti visti da lì, e cercava di scegliere quale dei due fosse meglio scalare, per guardarsi attorno e orientarsi un poco.
Il bambino sospirò. Lui voleva soltanto andare a Pietra Nera da solo, a piedi, e fare una cosa da grandi. Paolo gli aveva detto che era facile e Paolo c’era già andato, quindi poteva farcela benissimo anche lui. E poi quel posto gli piaceva. C’era stato una volta, in macchina coi genitori, ma in macchina era facile. Non valeva. A piedi, ecco, quello sì che era più bello: a piedi, da solo, e seguendo strade che gli altri non sapevano. Già si immaginava di arrivare fin là e vedere quella roccia scura, alta e brulla, con un laghetto proprio sotto, in una conca. Sarebbe stato grande. La sua Avventura, appunto.
Ma come avrebbe fatto, adesso? Provò ad andare un poco più avanti, poi cambiò idea e tornò indietro. Non si ricordava più neppure da dove fosse arrivato, ormai. Storse la bocca, un poco preoccupato. Così non andava mica bene. Proprio per niente. Doveva pensare, invece di farsi venire paura. C’era pieno di posti, da qualche parte lì attorno. Non era nel deserto! C’erano posti abitati, dappertutto, e di sicuro ci sarebbe arrivato, prima o poi. Doveva pensare!
Osservò entrambi i fianchi, non proprio ripidi, ma neanche piacevoli da salire, nell’agosto padano che lo soffocava. Ed erano coperti di erbacce, che gli facevano prudere le gambe. Pazienza. Gli sarebbe piaciuto avere Paolo, lì con lui: si sarebbe affidato alla sua guida e Paolo lo avrebbe riportato dritto a casa, come tutte le altre volte che erano andati in giro assieme. Ma Paolo non c’era. Era solo.
Si avviò pian piano su una collina, che gli sembrava quella giusta. In alto, almeno, si sarebbe potuto guardare attorno, per trovare qualche punto di riferimento. E quando in alto ci fu davvero, si accorse subito che non era la collina giusta. Attorno vedeva solo distese gialle e marrone, come se il mondo fosse tutto una grande campagna inaridita dall’estate. Dietro, si intuiva il profilo dei primi Appennini, confusi nell’afa padana, e di fronte, stesa fino a chissà dove, cominciava la vasta pianura, dove ogni tanto qualcosa luccicava.
E fra molte cose belle ma inutili, vide anche la strada. Una strada vera, asfaltata, con tanto di pali della luce. Era un poco lontana, per i suoi gusti, ma si sentiva praticamente certo che fosse quella giusta, la strada che lui aveva percorso prima e che, adesso, lo avrebbe riportato a casa. Bastava solo scavalcare quelle tre colline ripide, passare quei fossi spinosi, che sicuramente avrebbe trovato sul cammino, e poi eccolo già arrivato. Arrivato alla strada, ovvio: da lì, poi, chissà quanto era lontana casa sua. Ma piuttosto che niente, era meglio piuttosto, come diceva il nonno.
Diede un’ultima occhiata nei dintorni, giusto per scrupolo, ma di Pietra Nera neppure l’ombra. Si passava davvero di lì, per arrivarci? O Paolo gli aveva raccontato una balla? No, impossibile: era stato lui che si era perso, tutto qui. Era la spiegazione più sensata. Paolo non sbagliava mai. Qualunque cosa succedesse, Paolo la sapeva sempre e aveva sempre ragione. Lui, invece, sbagliava spesso. Così andava la vita.
Con un sospiro, il bambino cominciò a scendere ciondolante la collina, verso il ritorno.
Poco più in là nello spazio, ma parecchio più in là negli anni, gli scarponi dell’uomo calpestavano le tracce fantasma, lasciate da piedi molto più piccoli dei suoi. Si guardava attorno, aggrottando la fronte, per ripararsi dalla luce sparsa del pomeriggio. Con una mano si asciugò la fronte e le sopracciglia, fradicie di sudore. Non era certo la sua stagione preferita, l’estate, ma a modo suo l’amava. Amava il sapore che gli lasciava sempre in bocca, quel periodo dell’anno così pieno di ricordi. Ricordi sereni, adesso che erano ricordi e non vita.
Era passato di lì, sicuro. Poteva quasi sentirne l’odore, nella terra secca e nelle erbacce spinose. Era passato proprio da quella parte. Ormai era inutile studiare il terreno, lo sapeva benissimo anche lui: di impronte non ne avrebbe trovate, non in quella terra asciutta, eppure lo studiava lo stesso, quasi per vezzo. No, non per vezzo. Ne aveva bisogno, anche se gli altri non lo avrebbero capito. Capiva lui, e questo gli bastava. Gli era sempre bastato.
In un riflesso di lucidità da età matura, tolse il cellulare di tasca e osservò il display. Le tre e mezza del pomeriggio, non una tacca a pagarla oro. Un buco in mezzo al niente, ecco cos’era quel posto. Cioè proprio il posto che sarebbe piaciuto a lui, da bambino, quando ancora non c’era il cellulare e le tacche erano quelle che facevi sul muro, per misurarti. Proprio un bel posto, sì, dove anche le cavallette si rifugiavano all’ombra, a quell’ora, oppure ti sbattevano contro le gambe, rimbambite dal clima.
Ma faceva sempre così caldo, lì? Non ci era più abituato, dopo tutti quegli anni. La sua maglietta bianca pesava almeno il doppio, col sudore che aveva assorbito, ma in fondo l’aveva scelta apposta. Sapeva già a cosa sarebbe andato incontro, almeno a grandi linee, e il bianco gli aveva sempre risparmiato quelle terribili chiazze scure. Non gli avrebbe risparmiato la scottatura in faccia, ma questo era un altro discorso. Pazienza. Ci sono cose per cui vale la pena sciogliersi e scottarsi, dopotutto, o almeno lui la pensava così, anche se non tutti lo avrebbero compreso e condiviso.
Salì pian piano la collina, la stessa su cui si era arrampicato il bambino, per guardarsi attorno. E come lui, vide una distesa di campi gialli e secchi, forse meno numerosi di allora, forse c’erano più case, più giardini recintati, ma la terra ancora brulli come la ricordava lui. Di Pietra Nera, nemmeno l’ombra. Già, il posto era proprio quello, non si poteva sbagliare. E adesso era tempo di portare a termine la sua avventura.
Quanti anni erano passati, da quel pomeriggio? Venti, venticinque, forse trenta. Non aveva tenuto il conto e non aveva molta importanza. Il tempo era sempre stato qualcosa di evanescente, per lui, un tessuto elastico che si allunga e si accorcia, per capriccio. Non aveva molto senso darsi da fare per misurarlo. Il tempo ce l’avevi dentro, il tempo era il gomitolo che ti avvolgeva, erano le tue ossa, strati su strati di vita, e il resto non contava più. Il resto era un pomeriggio d’estate, della tua infanzia.
Contava però portare a termine ciò che avevi cominciato, che fosse per gioco o per altro. E trovare così la tua risposta.
Non c’erano orchi a inseguirlo, stavolta, né monaci neri o barbari assetati di sangue. Quelli li aveva persi per strada, a una qualche curva. Forse si erano stancati di inseguirlo, forse avevano trovato una preda più facile. O forse si era stancato lui di scappare. Ma c’erano la collina, l’estate, il caldo torrido di un agosto secco e stopposo, lì ai margini della pianura padana. Erano i suoi veri nemici, come lo erano stati in quel giorno di tanti anni prima. Allora lo avevano sconfitto, stavolta era tutta da giocare. Non si sarebbe arreso così presto.
E dietro a tutto, sullo sfondo, rimaneva sempre la domanda a cui non aveva mai trovato una vera risposta. Da bambino non aveva voluto o potuto arrivare fino alla fine, fino a scoprirlo, forse perché temeva un poco di restare deluso, ma soprattutto perché sarebbe stato sbagliato farlo. Sarebbe stato blasfemo.
Adesso, invece, era giunto il momento di sapere, di scoprire, e osare ciò che, da bambino, era l’impensabile: guardare le carte e, se così doveva essere, abbattere il suo amico e idolo di infanzia, la sola persona che non avrebbe mai messo in discussione, ai tempi, perché sapeva sempre tutto. Era tempo di rispondere, ora.
Si arrivava davvero a Pietra Nera, per quella strada? Oppure Paolo si era sbagliato?