Adriano - racconti e altro

Per il suo bene

Li vide per la prima volta dopo aver svoltato l’angolo. Passavano piano lungo la via principale, che apparteneva soltanto a loro. Nessuno in giro. Si muovevano in silenzio, quasi scorrendo, e li poteva sentire, percepire, i loro occhi che scrutavano, spiavano, cercavano.

Lui? Non necessariamente. Gente come lui, però.

Si appiattì contro il muro, quasi senza respirare. Bestemmiò, ma solo nella testa. Se le pensi e basta, non contano: così aveva deciso molti anni prima. Forse non una gran decisione, d’accordo, ma una che funzionava. Almeno per lui. Non che le bestemmie fossero il problema, adesso.

La strada lo era. La strada e chi la stava percorrendo.

Era mimetico? Era invisibile? Era visibile? Troppo tardi per pensarci. Immobile, premuto contro un muro che aveva visto giorni più puliti ai tempi in cui un poeta fiorentino lavorava a una commedia in lingua volgare, il signor Gino Pari poteva solo aspettare e sperare.

Aspettare che passassero. Sperare che non lo vedessero.

Fu cosa di pochi secondi oggettivi e due ere geologiche soggettive. Passarono. Gino si concesse un sospiro di sollievo, poi lo colse l’improvvisa certezza che era una finta, una farsa, stavano giocando con lui, gatto col topo e palle varie. Lo avevano visto, ma non avrebbero colpito subito, oh no, non sarebbe stato divertente. Meglio lasciargli credere di averla scampata, che il peggio fosse passato, il nemico lontano e poi bam! Si sarebbe girato e li avrebbe trovati lì. Ad aspettare. A sorridere.

Anzi, a ghignare. Certa gente non sorride mai: ghigna e basta. Deve essere una questione genetica, o professionale. Roba simile. Il punto era che lo attendeva un ghigno. E le sue conseguenze.

Gino Pari si preparò al peggio e si girò.

Nessuno.

Ok, erano passati oltre, ma questo non significava che anche il pericolo fosse passato, anzi. Era il tipo di pericolo che non passava mai. Potevi scamparla adesso, ma ogni adesso diventava un poi e il poi li avrebbe visti tornare. Ancora, ancora e ancora. Per lui o gente come lui, che era più o meno la stessa cosa.

Sole. Batteva ma non troppo. Il signor Gino Pari lo aveva desiderato a lungo, nelle sue giornate che non sembravano passare mai. Era stato qualcosa che accadeva fuori, ad altri. Non a lui. Adesso era a portata di mano, in senso figurato, e ne sentiva i raggi sulla faccia, la testa, i vestiti. Come faceva un tempo, come avrebbe dovuto fare sempre. Solo che.

Ma basta pensare. Meglio muoversi, finché poteva.

Gino Pari si mosse. Si sporse oltre l’angolo, scrutò la via in entrambe le direzioni. Vuota. Nessuno a percorrerla, nessun movimento. Erano passati oltre davvero, per adesso. Attraversò in fretta, non di corsa ma col passo più veloce che il fisico gli consentisse di mantenere. Non una gran velocità, ma poteva anche bastare, per adesso. Era sul marciapiede opposto. Bene.

No che non era bene. Troppo esposto, troppo visibile.

Strisciò a passo rapido lungo una fila di negozi chiusi e case silenziose. Sembravano morte, vuote, e illudersi era facile, ma illusione era, non realtà. Anche le case guardavano. O i loro occupanti, che li potevi immaginare anche se non li vedevi. Il signor Gino Pari li immaginava benissimo.

Viveva il genere di illusione che è facile vivere in una città, quando sei l’unico per strada. Tutto pare vuoto, tutto pare silenzioso, magari è anche notte, e tu ti illudi che il resto dell’umanità sia sparito, il tuo passo sia l’unico a risuonare nel mondo, nessuno ti vede, nessuno ti sente, sei libero.

Non lo sei. Decine, centinaia di altri umani sono ammassati nelle case attorno a te, forse dormono o forse vegliano, ma esistono, ti possono vedere, ti possono sentire e la solitudine è solo un sogno. Il mondo è sempre lì, accanto a te, solo che tu non lo noti. Non ci pensi.

Peggio: il mondo è attorno a te e tu sei nella sua bocca, a muoverti piano sulla sua lingua. Presto o tardi ti divorerà. Non c’è solitudine nella città, non c’è isolamento, non fisico. Sei una piccola parte di un grande organismo, che non ti molla mai. Qualunque cosa fai, dovunque vai, ci saranno sempre occhi che ti guardano, orecchie che ti ascoltano. Sorvegliato, sempre.

Filosofia spicciola a parte, il signor Gino Pari doveva cambiare strada. Era troppo esposto. Lo fece. Dieci, venti metri e alla sua destra si apriva un vicolo, piuttosto stretto e parecchio sporco. Poteva anche avere un nome, ma la targa si leggeva a malapena e in fondo non aveva importanza. Era però il genere di strada in cui poteva essere sicuro, moderatamente sicuro, e questo aveva importanza. Ne aveva molta. Gino lo infilò di buon passo e si lasciò portare. Dovunque andasse, non poteva essere un posto peggiore.

Non lo era. Un paio di giravolte, un sacchetto di immondizie imprecisate da scavalcare, e il signor Gino Pari era in vista della zona pedonale. Poteva respirare. Un poco. Anche perché l’aria tendeva a grattargli la gola, se respirava troppo. Brutto tempo, brutta stagione, brutto tutto.

Vide un cartello attaccato al muro, sulla destra. Era giallastro, annunciava una zona videosorvegliata e non era un bel segno. Il signor Gino Pari cercò come sempre una telecamera e come sempre non la trovò, così alzò il dito medio e lo mostrò in giro a casaccio, come faceva sempre. Gesto infantile, ne conveniva, ma era l’unica forma di ribellione personale che si poteva permettere in quella società di spioni che la Gestapo avrebbe invidiato tanto. Meglio cambiare posto.

La zona pedonale era appena più avanti, appena più sicura. Sarebbero passati anche di lì, le ronde non si fermano per così poco. Le ronde devono fare rispettare le leggi, non rispettarle. Nella zona pedonale, a tratti anche vagamente storica, c’erano però strade più strette, sassi fastidiosi al posto di un normale asfalto, impalcature di qualche cantiere, cianfrusaglie assortite. E scalini. Non scalinate reali, ma gradini per pareggiare alcuni dislivelli. Da una stradina a una piazzetta, da una strada a un’altra strada. Ci siamo capiti. Quel genere di toppe architettoniche per unire parti di città costruite in tempi diversi e con idee diverse su come la città dovesse funzionare. C’erano ostacoli, insomma.

Al signor Gino Pari non piacevano gli ostacoli, in circostanze normali. Siccome le circostanze non erano normali, adesso gli ostacoli andavano benissimo. Erano ostacoli per lui, ma anche per gli altri. Tutto si bilanciava, se ci pensava bene. Ma il problema non era pensarci: era muoversi e continuare a muoversi. Lo fece.

Per un poco tutto sembrò andare bene. Girò avanti e indietro in quel ristretto angolo della città, più un criceto in gabbia che una persona a passeggio, ma era all’aperto, era libero, nessuno lo cercava e il clima non era poi così malaccio, tutto sommato. Troppo caldo per la stagione, d’accordo, ma non troppo caldo in generale. Piacevolmente tiepido, e l’aria non puzzava neppure troppo. Sì, era il tipo di giorno che pare fatto apposta per passeggiare e non pensare ad altro. Ma nessuno passeggiava.

A parte lui.

O incluso lui, perché ci voleva davvero un bel coraggio a descriverla come una passeggiata. Era più che altro il genere di spostamento furtivo adottato da chiunque voglia far notare al resto del mondo che sta cercando di essere mimetico e non farsi notare. Funzionava, per carità: quando sei da solo in strada, è ovvio che gli altri passanti non ti notano. Non ci sono altri passanti. Eventuali spettatori da finestre e balconi, invece, potevano godersi uno spettacolo blandamente comico.

Un rumore. Il ronzio di un’auto. Si avvicinava.

Gino si bloccò. Cercò di capire dove fosse di preciso l’automobile, ma non lo capì. C’erano persone capaci di estrarre informazioni di ogni tipo da un semplice suono: distanza, origine, intensità, quello che ti pare. Lui invece era il genere di persona che sente un rumore e si guarda attorno, magari con un commento del tipo «Cos’è stato?» o «Cosa succede?». Lo fece anche stavolta.

Ma la risposta era semplice: era un’auto e si avvicinava. Andava piano. Un passante? Possibile, ma non ci credeva. Erano loro e stavano tornando. Magari la prima volta non lo avevano notato, ma lo avrebbero visto adesso. Tutta colpa delle telecamere. Maledette zone videosorvegliate. Era come un carcere di massima sicurezza, invece era solo una città. Da incubo.

Era una via in zona pedonale, ma non era una via stretta. Potevano passarci senza problemi. Anzi, ci sarebbero passati senza problemi. Guardò a destra, a sinistra. Negozi chiusi, portoni chiusi. Poteva fingersi l’inquilino di un condominio: sistemarsi davanti all’ingresso, schiena alla strada, fingere di trafficare con le chiavi, lasciar passare l’auto senza guardarla, emanando tutta la certezza di chi sa di trovarsi dove ha ogni diritto di essere, non un dubbio, non un timore. Trucchetto semplice.

Non avrebbe funzionato. Non con lui.

Il rumore si avvicinava. Era un’auto, sì, e procedeva piano. Per un istante la sua mente dimenticò il mondo reale e si rifugiò nelle immagini di una infanzia molto lontana. Notti estive, in giro nel parco a portare fuori il cane assieme ai suoi genitori. Ogni tanto c’erano auto che passavano così, piano, e costeggiavano i marciapiedi, per poi svanire oltre. Suo padre gli aveva spiegato che erano a caccia. Uomini in cerca di donne da agganciare.

Il piccolo Gino aveva accettato la spiegazione senza domande, allora. Qualche anno dopo la aveva integrata coi dettagli mancanti e si era formato un quadro più completo di cosa fossero gli uomini a caccia, inserendoli nel contesto sociologico più appropriato. Una stupidaggine, niente di più, ma era una immagine che adesso ritornava con forza.

Auto che passavano lente accanto ai marciapiedi. Gli occhi invisibili dei loro conducenti a spiare, a cercare. A caccia. Scena simile, contesto molto diverso. Ma stavano arrivando.

Niente portoni, erano un vicolo cieco. Doveva cambiare strada e farlo adesso. Lo fece.

Scattò in avanti. Via una casa, via la seconda, ecco l’anfratto dove lo ricordava. Non una strada, non lo potevi chiamare così: era una stretta rientranza tra due vecchi edifici, che piegava poi sulla destra e probabilmente finiva sul retro di un negozio. Ingresso per le merci o roba simile. Lo aveva visto da fuori più volte, ma non ci era mai entrato. Non aveva mai avuto alcuna ragione per infilarsi in un cunicolo maleodorante, in penombra. Adesso ne aveva una. Lo infilò.

Passarono poco dopo ed era un’auto normale. Falso allarme.

Cosa ci faceva un’auto normale in una zona pedonale? Un residente, forse, o un aspirante furbo che ne approfittava per fregarsene del codice della strada. Non un suo problema, in ogni caso.

Ammesso che fosse davvero un’auto normale. Potevano essere in incognito. C’erano di sicuro certi gruppi in incognito. Era il genere di cose che gente simile si divertiva a fare. Che brutto mondo.

Il signor Gino Pari raggiunse l’imboccatura del vicolo, si sporse a guardare, rientrò di scatto e fuggì a nascondersi nel punto più remoto. Adesso stavano arrivando ed erano loro.

Seguivano la prima auto? Forse sì, forse no. Irrilevante. Non lo dovevano trovare: questo sì che era rilevante. Quindi, meglio rimanere nascosti e aspettare.

Mentre si nascondeva e aspettava, il signor Gino Pari si guardò attorno. Il vicoletto era proprio una specie di appendice, intesa come parte anatomica. Sembrava qualcosa avanzato dalla costruzione di quella casa, forse per un errore nel progetto, forse per ragioni perse nel tempo. Non portava a nulla. Non c’erano porte sul retro, non c’erano finestre, niente. C’erano cassonetti per la differenziata, per cui a qualcosa lo stavano usando. A giudicare dall’odore, poi, qualcuno lo usava anche come bagno di emergenza. Molti qualcuno. Non un bel posto dove attendere. Non un bel posto in generale.

Pure, aspettava, ma respirando il meno possibile.

Il ronzio di un’auto si avvicinò, quasi si fermò, passò oltre. Un altro paio di minuti e Gino valutò di poter uscire, ma con cautela. Raggiunse l’imboccatura del vicolo e sporse appena la testa, come una comparsa di un film d’azione che sa di dover morire per dimostrare che gli eroi sono in pericolo. La strada era vuota. Probabilmente gli eroi non erano ancora così in pericolo. Meglio.

Non era stata una gran bella passeggiata, ma il punto non era fare una bella passeggiata. Il punto era fare una passeggiata. Uscire. Stare al sole. Respirare aria che non avesse passato svariate ore chiusa nel suo appartamento. Sentirsi vivo. Mostrare il dito medio (virtuale) a quei nazisti.

E, lo doveva ammettere, si stava anche divertendo. Un poco.

Era come essere tornato bambino. Anzi, era come gli sarebbe piaciuto essere da bambino, ma non lo era mai stato. Era stato una specie di paguro bernardo fossilizzato. Un trilobite. Una schifezza che si annidava sotto i sassi e non vedeva mai la luce, se possibile.

Un grande gioco di guardie e ladri attraverso l’intera città? Avrebbe dato la gamba di qualcun altro pur di poterlo fare, ai tempi. Lo stava facendo adesso che bambino non lo era proprio. Era ben più vicino all’estremità opposta dell’esistenza umana, semmai. Divertente e un poco paradossale, da un certo punto di vista magari anche filosofico. Il solo problema era che adesso non stava giocando. Succedeva davvero. Se lo prendevano, non sarebbe finito sotto lui. Sarebbe...

Cosa gli sarebbe successo, di preciso? Il signor Gino Pari se lo domandò, mentre camminava cauto e rasente i muri. Multa? Arresto? Qualcosa del genere, forse. Ricordava che una volta era stata una multa di sicuro, e piuttosto pesante. Adesso, però, poteva essere diventata qualunque cosa. La legge pareva cambiare ogni giorno ed era dura starci dietro anche per chi ci provava. Gino aveva smesso di provarci già da un po’. Per questo era uscito.

E anche perché era vietato.

Stupido? Forse. Infantile? Probabile. Umano? Certamente. Pure, il signor Gino Pari si identificava in tutti e tre gli aggettivi, per cui aveva deciso di uscire e adesso giocava a guardie e ladri per le vie della sua città. Beh, non che giocasse proprio, ma il risultato era quello. Sfidava l’autorità, se volevi metterla in una prospettiva diversa, più seria. Il signor Gino Pari non lo voleva granché. Metterla in una prospettiva più seria, dico. Sfidare l’autorità lo voleva sì, a modo suo.

Voleva anche riposarsi un poco. Gli faceva male la schiena e le sue gambe non erano più forti come un tempo. Non che lo fossero mai state tanto, ma quando aveva ancora la metà dei suoi attuali anni riusciva a camminare molto di più e neppure se ne accorgeva. Adesso, invece...

Ma non si sarebbe arreso per così poco. Avrebbe continuato, a costo di trascinarsi.

Sempre guardandosi attorno e sempre strisciando lungo le pareti si avviò nella stessa direzione dove erano sparite le due auto. Gli sembrava la più sicura, almeno per cominciare. Infilò la prima traversa che vide, cambiò di nuovo strada, girovagò un poco a casaccio e finì in uno stretto nodo di viuzze e cortili, dove gli unici veicoli erano posteggiati e pareva la tipica area a traffico limitato aperta solo a residenti e affini: arrivi, parcheggi, sali in casa. Quel genere di zona.

Lì non sarebbero passati. Aveva tempo per tirare il fiato e decidere la prossima mossa. Poteva stare fuori ancora un poco, era primo pomeriggio e di fretta non ce n’era. Si stava pure divertendo, anche più di quanto si sarebbe immaginato. Però... però forse era meglio rientrare, adesso. Incamminarsi e puntare più o meno in direzione del rientro, quantomeno. Cominciava davvero a sentirsi stanco e la vescica gli inviava certi segnali che non erano ancora un allarme, per carità, niente di serio, però era una specie di preallarme, un modo per dirgli «Hai ancora tempo, non è urgente, però forse è meglio se ci avviciniamo a un bagno, giusto per sicurezza».

Tornare indietro adesso, però, era un po’ come dargliela vinta.

A chi? Irrilevante. Il problema era che gliel’avrebbe data vinta e non gli piaceva, ma proprio no, per niente. Il suo fisico gli suggeriva di tornare indietro, ma la sua testa si ribellava. Doveva decidere e non sapeva cosa scegliere. Come al solito, come era successo per decenni.

Girò un poco avanti e indietro nel minuscolo angolo di città in cui si era rintanato. Dalle case veniva di tanto in tanto la voce di qualche persona, il suono di uno stereo, un televisore, segnali di vita o di attività sufficientemente simili da poterlo sembrare. C’era gente attorno a lui, ovunque, ma chiuse in casa. Lui era fuori. Il signor Gino Pari era fuori. Forse in più di un senso.

Notò un altro avviso di zona videosorvegliata e di nuovo alzò il dito meno della mano destra, con la speranza che qualche telecamera lo riprendesse e il guardone dietro la telecamera si offendesse. Un guardone c’era di sicuro. Ce n’era sempre uno dietro le telecamere, anche quando dicevano che era tutta roba computerizzata e nessuna persona controllava. Sì certo. Qualcuno guardava sempre. Non ti potevi fidare di certa gente, lo sapevano tutti.

Alla fine decise di non decidere. Sarebbe tornato indietro, pian piano, e magari sì, alla fine sarebbe anche rientrato, ma se lungo il cammino gli fosse venuto in mente qualcosa di meglio, o se gli fosse venuta voglia di vedere un qualche posto specifico, allora avrebbe cambiato strada. Sì. Ottimo.

Si riaffacciò su una strada vera e la prima cosa che vide fu un’auto.

Indietreggiò. Schiena contro il muro, si mosse come un granchio per tornare al riparo, poi si fermò e respirò. Aspettò. Nessun suono. L’auto era ancora lì? Se n’era andata? Forse, che era una risposta a entrambe le domande, ma di fatto non rispondeva a nessuna delle due.

Perché aveva visto l’auto, sì, ma non aveva badato se fosse anche in moto. Se era parcheggiata lì e basta? Possibile. Sempre schiena contro il muro e sempre camminando da granchio, il signor Gino Pari avanzò di nuovo verso l’angolo. Lo raggiunse. Si fermò. Sporse a poco a poco la testa, come la più miope delle tartarughe.

L’auto era ancora lì. Sembrava spenta.

Falso allarme, ma non si lamentava. Meglio cauti che caughti, per buttarci una parola mista che non ha senso, ma suona bene. Non che Gino la usasse nel suo monologo interiore. Non sapeva l’inglese. Se lo avesse saputo e se si fosse creduto spiritoso, però, magari l’avrebbe usata davvero. Se proprio non avesse trovato di meglio. O di peggio.

Il signori Gino Pari non si era mai creduto spiritoso. Al contrario, aveva sempre odiato le persone che si credevano spiritose. Erano la feccia dell’umanità, secondo il suo modesto parere. Gente che meritava i più orribili supplizi che la mente più depravata al mondo sapesse immaginare. Giusto per cominciare. Come riscaldamento.

I suoi genitori si erano ritenuti spiritosi. Lo avevano dimostrato nel farlo battezzare. Quale genitore può essere così stronzo da rifilare al proprio figlio il nome Gino, quando già lo attende un cognome come Pari? Bene, i suoi genitori lo erano stati. Pari Gino. Molto spiritoso, vero? Io non direi. Per il signor Gino Pari aveva significato una infanzia di merda, con una vita scolastica di merda. Soltanto in anni più maturi avevano smesso di prenderlo in giro, ma qualche sorrisetto ci scappava sempre e al lavoro capitava sempre qualcuno che non gli credeva. Pari Gino? Ma dai, non può esistere un nome del genere. Mi stai prendendo in giro? Invece no. Esisteva. Ce l’aveva lui.

Contemplando l’auto spenta, il signor Gino Pari ripensò per un istante ai suoi genitori e decise che il vero motivo della sua escursione era questo: non aveva il permesso di uscire per il suo bene. Questo lo irritava. Peggio, lo faceva incazzare. Chiunque cercasse di imporgli qualcosa per il suo bene, per la sua salute, per quel cavolo che volete. Odio! Per il tuo bene: espressione ipocrita, che detestava.

Non era mai il suo bene. Era sempre il bene di qualcuno altro. Ok, magari qualche volta era anche il suo bene, indirettamente, magari ne avrebbe beneficiato anche lui, ma non era il punto. Il punto era che il suo bene lo poteva decidere soltanto lui, non altri. Chi decideva cosa fosse bene per un altro e glielo imponeva, che l’altro lo volesse o meno, era un genitore, e noi conosciamo l’opinione di Gino sui genitori. I suoi genitori, soprattutto, ma spesso la estendeva all’intera categoria.

Come avrete notato, è anche una persona che pensa spesso in corsivo. Succede.

Ma passiamo oltre. Il signor Gino Pari guardò l’auto in sosta, sbuffò, svoltò l’angolo e si immise su una strada più larga. Era vuota. Vedeva solo auto parcheggiate, ma quelle non contavano. A contare erano gli umani e le eventuali ronde, che non c’erano. Ottimo. Si avviò in una direzione che, senza fretta e alla lunga, lo avrebbe ricondotto al punto di partenza. Cominciava a sentirsi piuttosto stanco e i messaggi della vescica non erano ancora urgenti, ma lo erano più di dieci minuti fa.

Se proprio non voleva rientrare in fretta, avrebbe almeno dovuto pensare ai bagni pubblici. A dove li poteva trovare, per esempio. Giusto nel caso, sapete.

Non ne ricordava, almeno nelle vicinanze. La stazione, d’accordo, ma la stazione era un po’ troppo lontana. Volendo c’era anche il parco, ma presentava problemi di altro tipo. Era esposto e non c’era un buon riparo, specie per chi è affaccendato in certe faccende.

Il rumore di un’auto lo spinse a infilare la prima via traversa, ma era un falso allarme. Meglio così, perché la copertura era pessima. Altro rumore e altro falso allarme. Il signor Gino Pari cominciava a trovarlo fastidioso. Fuggire da un pericolo reale ci stava, ma continuare a fare il cucù, dentro e fuori da strade laterali, per evitare il nulla? Era ridicolo.

La prossima volta non si sarebbe nascosto. La prossima volta avrebbe continuato a camminare bello sicuro, testa alta e un mezzo sorriso sulle labbra, come se ne avesse tutto il diritto. Giusto. Così si fa e così avrebbe fatto. Bisogna sempre essere sicuri. Se sembri sicuro, nessuno ti ferma. È uno di quei così, i trucchi della mente o come si chiamano. Se ti comporti come se lo fossi, gli altri penseranno che tu lo sia. Più o meno. Gino sapeva cosa intendeva dire, ma non sapeva come dirlo bene.

Irrilevante. Il punto era che non si sarebbe nascosto. Come esperimento. E anche perché era un poco stanco di farlo e il divertimento era finito. Il bel gioco dura poco, no? Così riprese a camminare sul marciapiede, adesso con una punta di fiatone, mentre la testa gli vagava qui e là, in parte a casaccio e in parte seguendo geometrie non euclidee di pensiero.

Passò un auto e Gino non si nascose. Sarebbe stato meglio se lo avesse fatto.

Accostarono. Un finestrino si abbassò.

«Buongiorno, signor Gino. Di nuovo in giro?»

«Io non esco mai!» rispose il signor Gino Pari, agitando un dito. «E voi non mi prenderete!»

«Va bene, va bene. Solo, ci hanno chiamato dalla casa di riposo, sa. Quella dove abita lei.»

«Io non abito in una casa di riposo. Non sono un vecchio rimbambito, eh? Per chi mi ha preso?»

«Certo, certo. Ma, sa com’è, ci hanno chiesto di riaccompagnarla indietro, se la trovavamo. Come al solito.»

«Non mi avete mai trovato!»

«Giusto, giusto. È lei che ha trovato noi. È stanco? Ha camminato molto?»

«Perché lo volete sapere? Non avete il diritto di chiederlo!»

«Solo per fare conversazione, lo sa. Due chiacchiere. A camminare molto ci si stanca, no?»

Il signor Gino Pari storse la bocca. Gli pesava ammetterlo, ma gli toccava. Anche perché c’era pure il piccolo problema della vescica, che minacciava di diventare un grosso problema, se lasciato così. «Eh, un po’ stanco, sì,» rispose. «Ma mica tanto. Sono in forma, io.»

«Naturalmente. Vuole farci compagnia per un po’? Facciamo due chiacchiere e intanto la riportiamo a casa. Così siamo contenti, sa.»

Beh, se era proprio per farli contenti... «Eh, va be’, se insistete. Ma non ne ho mica bisogno, io.»

«Lo sappiamo, lo sappiamo. Salga pure.»

Il signor Gino Pari salì. Lo avevano fregato anche stavolta. Come facevano a trovarlo sempre? Era ovvio che lo spiavano. Maledette zone videosorvegliate. Ma la prossima volta avrebbe vinto lui, di sicuro. Anzi, quei carabinieri non lo battevano mai. Era lui che li lasciava vincere. Gli facevano un po’ pena, tutto qui. Ecco. E poi si divertivano. In pratica li faceva contenti. Già. Perfetto. Ora, se si sbrigavano a riportarlo indietro, magari non se la faceva addosso.

L’auto ripartì con un passeggero in più accomodato sul sedile posteriore, attraverso una città deserta e silenziosa. Tutto chiuso, tutti sigillati in casa, come previsto dall’ultimo decreto “Respira Italia”. Il clima non era salutare in quel periodo dell’anno, troppe polveri sottili e altre tossine, ma l’industria non si poteva fermare e costringerli a inquinare meno avrebbe danneggiato la crescita e i profitti, ed era male, molto male. Meglio mettere agli arresti domiciliari chiunque non lavorasse o non facesse crescere il paese. Per il loro bene, era ovvio. Aveva funzionato con le malattie e avrebbe funzionato anche con l’inquinamento. Più o meno erano la stessa cosa, se ci si pensa bene.

E il vecchio rimbambito che continuava a scappare dall’ospizio. Il carabiniere alla guida sospirò. Se continuava così, il vecchio Pari non sarebbe durato ancora molto. Il che, da un certo punto di vista, poteva essere un bene. Non c’era proprio più con la testa, se mai c’era stato.

Ma non succedeva. Aveva la fortuna del diavolo, il vecchiaccio. Era sempre fuori nelle ore più letali del giorno e mai che gli venisse anche solo un raffreddore. Come faceva? Aveva polmoni di amianto o roba simile? E il fastidio era che poi toccava a loro andarlo a recuperare. Gli avevano già multato i prossimi dieci anni di pensione, per il suo bene, e ancora non serviva. Che nervi!

Il suo collega tossì dal sedile accanto. Ecco, appunto. Fortuna del diavolo, il vecchiaccio.

Mentre un nuovo, lungo pomeriggio di aria altamente cancerogena si stendeva sulla pianura e le sue città, gli improvvisati pastori riaccompagnavano la pecorella smarrita e rimbambita al suo ovile. In cuor loro, augurandosi che fosse per l’ultima volta, ma sapendo già che non sarebbe stato così.

Ma la crescita continua era tutelata e tutto andava bene. Respirando con cautela.

di Adriano Marchetti