Adriano - racconti e altro

Per toccare una mano

Ricordi?

L’uomo si massaggiò le tempie con delicatezza. Si sentiva stanco. Appena mattina e si sentiva già stanco. Fantastico. Sapeva anche il perché. Anzi, i perché. Il caso che lo attendeva, per cominciare. E poi... quello che aveva in testa. Che non aveva più in tensa. L’avevano avvertito, era difficile fare piazza pulita. Difficile cancellare tutto. Qualche traccia rimaneva spesso, anche dopo la rimozione. Bastava abituarsi, col tempo.

«Saranno solo echi, niente di più» aveva spiegato il tecnico. «Col temo spariranno anche quelli.»

Spazio al tempo, dunque. E spazio al nuovo caso di cui si doveva occupare adesso.

L’ospite stava arrivando. L’uomo lasciò scorrere lo sguardo sull’ufficio ordinato, piccolo, preciso. Il genere di ambiente che piaceva a lui. Con una mano richiamò i dettagli sul caso che lo attendeva. Il problema. Ne avrebbe discusso con l’esperto e avrebbero cercato assieme la soluzione. Se lo potevi chiamare esperto, ovvio. Sbuffò.

Non gli piaceva quel lavoro, ma era il suo lavoro. Non gli piaceva certa gente, ma era il suo lavoro. Bastava abituarsi, giusto? E fare in fretta. Il direttore voleva la perizia, il direttore avrebbe avuto la perizia. Sia fatta la sua volontà. E tutto per un pezzo di plastica. Si massaggiò di nuovo le tempie.

La porta si aprì e l’abitudine di anni lo fece scattare in piedi. Si afflosciò in un attimo, ricordando chi era il suo ospite. Uno andey; modello vecchio, per giunta. Lo vide avanzare sicuro, con la grazia del suo corpo artificiale. L’esperto consultato per il caso, già. L’uomo gli tese la mano controvoglia.

Lo andey non la strinse. Con un volto serafico, sedette di fronte a lui, ignorando il braccio allungato sopra la scrivania. C’era forse un mezzo sorriso, mentre lo guardava ritirare la mano non stretta.

Fai anche il superiore?, pensò l’uomo. Molto simpatico, non c’è che dire.

«Mi chiamo Gaizka Etxebarria» si presentò lo andey. «È stato il suo capo a contattarmi e richiedere una mia consulenza per il problema che si è verificato alla Synagov».

«L’incidente del robot rotto, già. Come compagnia assicurativa, abbiamo bisogno di...».

Lo andey alzò la mano a interromperlo.

«Mi dica».

«Non si tratta di un robot, lo sa. E non era rotto».

L’uomo non fece obiezioni. Era abituato a certe pignolerie, col suo lavoro.

«Ha ragione, dottor Extebarria, la prego di scusarmi. Il caso del corpo artificiale non funzionante, al palazzo della terza filiale della Synagov, giusto?».

«Giusto». Di nuovo il mezzo sorriso, forse il massimo che poteva spremere dalla faccia di plastica. O di materia organica artificiale, se si voleva fare i pignoli

«Come le avranno già detto, abbiamo bisogno di una perizia ufficiale, per escludere ogni eventualità di atto doloso, prima di procedere con il pagamento dell’indennizzo stipulato. Le indagini hanno per il momento stabilito la natura accidentale del mancato funzionamento, ma dobbiamo esserne sicuri, per evitare che si ripetano tentativi di frode già avvenuti in precedenza».

«Rimango sempre sorpreso, di fronte alla vostra efficienza. Anche ai miei tempi era così: meglio un investigatore assicurativo che un investigatore di polizia. Complimenti davvero».

Era ironico o serio? Lo stava sfottendo? L’uomo se lo chiese, ma non trovò una risposta. Proseguì e ignorò, come lo avevano educato a fare.

«Lo sa anche lei come vanno queste cose» replicò con un sorriso di circostanza. «Immagino che lei avrà già preso visione dei documenti che vi abbiamo spedito».

«Naturalmente, tutti molto dettagliati e precisi. Avrei però bisogno di osservare il corpo artificiale coi miei occhi, se la cosa è possibile. Si tratta di una procedura indispensabile, ai fini della perizia».

«Nessun problema per questo. Il corpo lo abbiamo in custodia noi, per assicurarci contro possibili manomissioni a opera di terzi. Dovrò soltanto avvisare la polizia, se lei riterrà necessario rimuovere i sigilli. Sempre per sicurezza, mi capisce».

«La capisco. Non credo ce ne sarà bisogno, ma glielo saprò dire solo dopo aver verificato».

«D’accordo, allora mi segua» disse, alzandosi. Gettò uno sguardo verso lo andey, mentre usciva dal suo ufficio. Sciolto e naturale, nonostante fosse una macchina. «Ha già formulato una sua ipotesi sulle cause dell’incidente?»

Gaizka Etxebarria sfoderò ancora una volta il mezzo sorriso.

«Suicidio».

*****

Ricordi?

Di nuovo la voce, a pulsare sotto la fronte. Arrivava sempre nei momenti di tensione, quando aveva troppe cose a cui pensare. Doveva solo abituarsi, dicevano, e avere pazienza. Non era facile.

«Si sente bene?»

L’uomo alzò lo sguardo, spaesato. Lo andey lo fissava paziente, senza espressione, accanto al corpo artificiale. La macchina viva e la macchina morta, pensò d’impulso. Scosse il capo.

«Sì, nessun problema. Solo un po’ di stanchezza, negli ultimi giorni non abbiamo avuto tanto tempo per riposare. Sa com’è...»

«Già, il tempo. Penso che ne avrete ancora meno, nei prossimi giorni. Quando renderete pubblica la storia, i cronisti vi mangeranno vivi». Altro mezzo sorriso. «Se la renderete pubblica, è ovvio».

«Questo non è di mia competenza. Io devo solo accertare la natura e l’entità del sinistro, il resto va a finire ai piani di sopra. Se ne preoccuperanno loro».

«Ma crede che la renderanno pubblica?»

«Solo se la Synagov lo riterrà opportuno. In fondo, sono loro a essere coinvolti direttamente. Ma è molto probabile che finirà insabbiata, come sempre. Nessuno desidera certa pubblicità, su nessuno dei due lati».

«Dunque non è il primo caso».

«Sono informazioni riservate». Il volto dell’uomo si indurì per un attimo. «Ma se questo può essere d’aiuto per la sua perizia, sappia che è il primo caso in cui è coinvolto un... corpo artificiale». Esitò sull’ultima parola. Non era facile mascherare le abitudini di una vita, racchiuse in un nome: robot.

«Lo supponevo. Non credo però che rimarrà a lungo un evento isolato. Purtroppo per voi».

In silenzio, guardavano entrambi l’involucro trasparente che conteneva il corpo, simile a quelli usati per i cadaveri umani. Anche il contenuto era simile, dopotutto. Da una certa distanza, forse, poteva ingannare un occhio distratto. Ma la pelle era troppo perfetta, la struttura troppo simmetrica e ben proporzionata per essere un’opera naturale. In teoria avrebbero dovuto riprodurre l’originale con la massima fedeltà, ma solo i prodotti migliori ci riuscivano davvero.

I prodotti migliori, però, non finivano sotto vuoto nei magazzini di una compagnia assicurativa. Di solito, almeno, e per quanto ne sapeva lui.

«Aveva accennato a una sua ipotesi, prima che scendessimo.»

Lo andey osservò di sfuggita l’uomo, in piedi accanto a lui, a una distanza di sicurezza. Una spanna, circa: molto più vicino della media, tutto sommato. Forse era merito del suo lavoro.

«Una ipotesi, sì. Potremmo anche definirla certezza, a questo punto. Ci sarebbero ancora un paio di dettagli da controllare, ma si tratta solo di un pro forma. Posso già anticiparle l’esito con precisione. Non è il primo caso che vedo.»

«Lei ha parlato di suicidio. È sempre questa la sua opinione?»

«È sempre questa la mia certezza, sì. Suicidio.»

Si fronteggiavano, adesso, e si fissarono negli occhi: l’uomo era sorpreso e incredulo, lo andey solo calmo e tranquillo. Accanto, ignorato, rimaneva il corpo artificiale inattivo.

«Suicidio? Le vorrei ricordare che è un robot e i robot non si ammazzano. È veramente sicuro che la causa non sia un qualche guasto, un difetto di fabbrica, un virus, qualcosa del genere?»

«Le vorrei ricordare che non è un robot, ma un corpo artificiale. I corpi artificiali si ammazzano, per usare la sua espressione. Lo hanno già fatto più di una volta. Se lei non mi crede, posso fornirle tutta la documentazione che la sua compagnia riterrà necessario visionare. Gliene posso fornire anche di più. Non ha che da chiedere. Suicidio: questa è la mia perizia.»

L’uomo esitò. Parlare con quelli lo metteva sempre a disagio. Non si poteva capire cosa avessero in testa, non potevi guardarli in faccia e riconoscere i loro pensieri. I loro occhi erano espressivi come bottoni di plastica, cosa che per certi versi erano.

Ma dice sul serio? O mi sta prendendo in giro?

«Mi scusi, non intendo mettere in dubbio la sua competenza, né voglio contestare i precedenti che, di sicuro, esisteranno in proposito. Il problema riguarda la mia compagnia e, nello specifico, come ci dobbiamo regolare sul piano legale per il pagamento dell’indennizzo. Un guasto è un conto, un suicidio un altro: non lo possiamo equiparare a un malfunzionamento, come era stato accertato dalle prime indagini. Lei mi capisce, la Synagov non la prenderà molto bene; potrebbe esserci una causa per incompetenza contro di noi. I soldi costituirebbero la preoccupazione minore, a quel punto.»

«Il problema è vostro e della Synagov, non mio. Io sono stato chiamato a effettuare la mia perizia e il risultato è questo: suicidio. Il corpo artificiale, o meglio il suo proprietario, si è ucciso, ha smesso intenzionalmente di funzionare. Non è il primo dipendente di una azienda a commettere un suicidio sul posto di lavoro, vero? Oppure mi sbaglio?»

«Sì, ci sono precedenti in questo senso, ma in casi del tutto diversi.»

«E la differenza in cosa consisterebbe? Nelle motivazioni? Nella tecnica di suicidio? È così diverso perché non ha lasciato un messaggio prima di uccidersi? Non saprei, francamente io non la riesco proprio a vedere tutta questa differenza.»

L’uomo si passò una mano sugli occhi. Non ne poteva più di quella discussione. Era stupida, punto e basta. Voleva sentirselo dire in faccia? Bene, allora lo avrebbe accontentato, se ci teneva tanto. Il mal di testa cominciava a divorarlo.

«I casi che lei cita come esempio coinvolgevano tutti esseri umani. Ecco la differenza. Credevo che fosse sufficientemente chiara anche per lei, ma a quanto pare mi sbagliavo. La pregherei pertanto di voler accettare le mie scuse.»

Lo andey non rispose subito. Rimase lì, a fissarlo col suo volto finto, capace solo di esprimere quei sentimenti che i suoi costruttori avevano ritenuto necessari. Abbozzò di nuovo il mezzo sorriso.

«Già, come immaginavo. Il punto è questo. L’oggetto all’interno dell’involucro sigillato sul tavolo è un mucchio di plastica e ferraglia. I mucchi di plastica e ferraglia non si possono uccidere, è cosa che sanno anche i bambini. Peccato solo che abbia dimenticato un piccolo particolare. Un dettaglio molto piccolo, invisibile a occhio nudo, ne convengo, ma fondamentale in casi come questo.»

Fece una pausa, come a volere riprendere fiato, anche se non aveva bisogno di respirare. Abbassò la voce di quasi una ottava e inserì un notevole vibrato. Molto teatrale, pensò l’uomo.

«Là dentro è stata copiata la coscienza di un essere umano, lo sa?»

*****

Di nuovo in ufficio, seduti ai due lati della scrivania. Fra loro brillava lo schermo, riempito da tutta la documentazione del caso Synagov. Di tanto in tanto la osservavano distratti, per ripescare i passi più significativi e farne strumenti con cui rafforzare le proprie tesi. Discutevano.

Il corpo artificiale era stato restituito alla quiete del magazzino, senza bisogno di infrangere i sigilli posti dalla polizia. Etxebarria lo aveva esaminato in fretta, indicando all’uomo un paio di particolari che, a suo dire, dimostravano il suicidio. Non lo riuscì a convincere. Ipotesi plausibili, certo, ma alla base rimaneva sempre lo stesso problema: una macchina poteva uccidersi?

«Guardi, sotto il profilo umano potrei anche capire la sua posizione, ma la questione, qui, è diversa e si colloca sul piano legale. Nessuna corte accetterebbe mai la tesi che lei sostiene e la Synagov ci riderebbe in faccia se le andassimo a raccontare che questo suo dipendente si è suicidato.»

«E perché questo suo dipendente non si sarebbe potuto suicidare? Mi spieghi, io non riesco proprio a capire la distinzione che lei sta operando.»

«Perché questo suo dipendente è solo un veicolo, non la persona reale. La persona reale è ancora là da qualche parte, viva e vegeta. Mi pare che lo sappia anche lei, giusto? E siccome sul piano legale ci troviamo davanti a un mero oggetto, un veicolo, per l’appunto, della sua coscienza, detto veicolo può essere danneggiato, può guastarsi, può essere contaminato da un virus, può anche votare come rappresentante legale della persona fisica, almeno nei limiti e nei casi in cui la legge lo consente. Ma non può suicidarsi. Perché è un veicolo. Non è la persona.»

«E io le ripeto che il soggetto in questione ha cessato volontariamente di funzionare: in altri termini, si è suicidato. Si è suicidato anche se è un veicolo, anche se è solo un oggetto, in base alla vigente normativa in materia. Glielo ripeto proprio perché io so benissimo cosa sia un corpo artificiale, lo so mille volte meglio di lei.»

«Su questo ha indubbiamente ragione» disse l’uomo, cercando di addomesticare la discussione. Gli stava facendo perdere già abbastanza tempo e non aveva alcuna voglia di mettersi a litigare con uno andey, soprattutto per un motivo simile. Si sentiva pulsare le tempie, man mano che il mal di testa straripava. Sapeva bene cosa sarebbe successo dopo.

«Su questo ha indubbiamente ragione e io sono pronto a riconoscere la sua competenza in materia, che poggia su basi molto solide. Il problema, però, come ho cercato di spiegarle, è differente. Posso essere d’accordo con la sua perizia e accettare il suo responso di morte per suicidio, ma il fatto è che non lo posso presentare così come è al direttore, né il direttore lo potrà presentare alla Synagov. Se anche è corretto sul piano umano, e io non sono in grado di contestarlo, resta sempre improponibile sul piano legale. Lo capisce questo? È il punto attorno a cui ruota la questione.»

«Lo capisco benissimo, non si preoccupi, ma non per questo posso falsificare la mia perizia.»

«Non si tratterebbe di una falsificazione, ma di una piccola correzione. Modificare la prospettiva e presentare il risultato sotto un profilo differente. Dopotutto, anche il suicidio può essere considerato un malfunzionamento, giusto? Anche in campo psicologico le vecchie interpretazioni umanistiche sono ormai tramontate e il suicidio è considerato come una conseguenza di uno squilibrio chimico nel cervello del soggetto che lo attua. Dato che in un corpo artificiale il cervello è, a conti fatti, uno strumento, e uno strumento di notevole complessità, la possibilità che si siano verificati errori o malfunzionamenti è ancora più semplice da sostenere.»

«È una posizione semplice, d’accordo, ma sempre erronea. Qui si tratta di una scelta deliberata, che la coscienza ha compiuto e portato a termine di propria spontanea volontà. Il cervello, o il computer che ne fa le funzioni, se preferisce, è stato rinvenuto intatto e privo di difetti. Questo lo sa anche lei.

Semplicemente, la coscienza che è stata copiata al suo interno ha deciso di morire. Tutto qui.»

«E non ci sono errori di fabbricazione, problemi legati all’usura e così via, giusto?»

«Lo può vedere lei stesso. È tutto nella documentazione che già possedete.»

«Lo so, ma speravo ci fosse qualcosa che le prime analisi avevano trascurato. Vede, è proprio per questo che ci siamo dovuti rivolgere a un esperto come lei. Speravamo che lei ci potesse fornire una soluzione alternativa, che andasse bene sia per noi, sia per il nostro cliente. E invece...»

Allargò le braccia. stanco, come a indicare l’inutilità di tutto. E invece lei se n’è uscito con questa sua storia del suicidio, che è ancora più assurda del resto. Lo avrebbe voluto dire, lo avrebbe voluto urlare sulla faccia inespressiva che aveva di fronte. Non poteva. In un modo o nell’altro, ne doveva estrarre una perizia plausibile, in linea con la legge. Era il suo lavoro. Sospirò.

«Si tratta proprio di un suicidio, vero?»

«Vero. Se ha pazienza, glielo posso dimostrare anche attraverso un confronto coi casi precedenti in mio possesso. Presentano tutti le stesse modalità di cessazione del funzionamento. È per questo che ho dovuto esaminare il corpo, per verificare che...»

«Va bene così. Le sue spiegazioni sono senza dubbio interessanti, ma ci porterebbero troppo lontani dalla meta. Il tempo è ancora un problema, per noi, e di tempo ne ho già dedicato parecchio a questo caso. Non ne voglio sottovalutare l’importanza, ma adesso bisognerebbe arrivare a una conclusione. Una conclusione che sia accettabile da entrambe le parti, possibilmente.»

«Già. Il tempo è ancora un problema, per voi. A volte me ne dimentico.» C’era delusione, sul volto di Etxebarria? Forse, o forse ciò che più vi si poteva avvicinare tra le espressioni di cui disponeva. E un’ombra di un sentimento diverso, qualcosa che emergeva solo dalla postura, dal tono della voce.

Sembrava afflosciato, come un uomo che si arrende a un potere superiore.

«Vuole la sua perizia, dunque.»

«Se le fosse possibile, mi sarebbe di grande aiuto.»

«D’accordo.» Lo andey chiuse gli occhi, come a raccogliere le idee. «Le lascerò due perizie, firmate e pronte per essere accluse alla documentazione in suo possesso. La prima sarà quella vera e avrà il suicidio come causa del cessato funzionamento. La seconda evidenzierà un microscopico guasto nel cervello, un difetto impredicibile, come a volte se ne riscontrano anche nei computer quantistici più perfezionati. Questa è la prassi decisa per i casi analoghi. A lei lascio la scelta, così saremo contenti entrambi. Giusto?»

«Giusto.»

L’uomo si rilassò sulla sedia. Era una soluzione che scontentava entrambi, in realtà, ma era proprio quella che avrebbero voluto ai piani alti. Sistemava il guaio: un bel difetto strutturale, il pagamento del relativo indennizzo e tutti amici come prima. Non gli piaceva quel lavoro, ma era il suo lavoro. E in fondo, un accordo che scontenta entrambe le parti è generalmente più equo. Giusto?

O qualcosa del genere. Ricordava di averlo sentito dire, ma non ricordava né quando, né da chi. E in fondo non aveva importanza. Erano soltanto parole. L’uomo si stava alzando per porgere la mano al suo temporaneo collega di lavoro, che forse l’avrebbe stretta e forse no, quando il mondo attorno a lui si fece nebbia. Poi, buio.

*****

Ricordi?

La voce riecheggiava nel vuoto grigiastro della sua mente. Si sentiva leggero, un pallone gonfiato di elio e abbandonato nel vento. Ricordi? Ricordi? C’erano altre parole, altre immagini, ma erano tutte confuse, si mischiavano, si sovrapponevano. Emergeva solo quella domanda, nitida. Ricordi?

«Si sente bene?»

Qualcuno lo chiamava, una persona concreta, un suono che aveva anche un corpo. Una voce reale, a cui potersi afferrare. La inseguì verso la superficie, la coscienza, lasciandosi indietro il pantano dei ricordi, o degli echi, un passato che non voleva accettare di essere morto e rimosso.

«Si sente bene? Vuole che le chiami qualcuno?»

L’uomo aprì gli occhi. Di fronte, a fissarlo, gli obiettivi minuscoli di due sensori, seppelliti nel nero artificiale delle pupille. Non contenevano preoccupazione, come non ne conteneva la voce che gli parlava. Non poteva esserci preoccupazione autentica su quella faccia plastica. Lo andey. Già.

«Cosa... cosa è successo?» cercò di chiedere con la bocca ancora impastata. Una parte di lui quasi si vergognò della domanda, così stupida e cliché, ma in fondo era l’unica cosa che potesse chiedere al momento. Dico, come si sentiva male! Digerito e vomitato, ecco come si sentiva.

«Credo che lei abbia avuto una momentanea perdita di coscienza, dovuta forse a un improvviso calo di pressione. Oppure non si sentiva bene già da prima? Vedo che la sua temperatura corporea è un poco salita: magari si è trattato di una vertigine, causata da un principio d’influenza.»

L’uomo strinse gli occhi, cercando di aggrapparsi a qualcosa di stabile nel flusso di informazioni che Etxebarria gli stava riversando addosso. Assurdo, davvero. Mentre lui stava male, quello andey se n’era rimasto lì a guardare e calcolare quanto stava male di preciso. Io stavo male e lui calcolava quanto. Io stavo male e lui calcolava quanto.

Il pensiero gli si era incastrato in gola. L’uomo storse la bocca e lo inghiottì a fatica. Inutile farne un dramma. Era tipico di uno andey, no? Che cosa si sarebbe aspettato? Che si affrettasse a soccorrerlo tutto allarmato? Che lo portasse in braccio in infermeria? Hah! Più probabile che lo facesse la sedia. Erano macchine e basta. Potevano divertirsi quanto volevano a fare i bizantini e spaccare il capello, ma rimanevano macchine. Macchine con la copia di un cervello umano, per farle funzionare.

Ma non aveva importanza. Non aveva importanza.

«Non so cosa sia stato, ma ora va meglio» rispose. «È solo un po’ di mal di testa, nulla di grave, sul serio. Mi capita di tanto in tanto: sarà lo stress, sa, con questo lavoro...»

«Dolore, già.» Lo andey lo fissava attento, come se fosse una bestia rara. «Non proprio una cosa che abbia molto a che vedere con noi, dopotutto.» Il solito mezzo sorriso. «Ma non mi pare si tratti di stress nel suo caso. Si è sottoposto a un intervento al cervello, di recente? Magari un intervento di rimozione, per essere più precisi?»

«Non mi pare che la cosa la possa riguardare, dottor Etxebarria» rispose, cercando di essere il meno sgarbato possibile. Quel tizio stava diventando odioso.

«Ha perfettamente ragione, non mi riguarda. È solo che lei continuava a ripetere una parola, mentre era privo di sensi. Una domanda, per essere più precisi. Ricordi? Diceva proprio questo. Suppongo dunque che sia stato un intervento di rimozione: ho notato che presenta molti degli effetti collaterali normalmente associati a questo tipo di pratica. Incluso il mal di testa.»

«D’accordo, mi sono sottoposto a un intervento di rimozione. Questo però non ha nulla a che vedere col caso di cui stavamo discutendo. Inoltre, e la prego di scusare la mia franchezza, non penso che il problema possa essere di sua competenza. È un intervento a cui si sottopongono solo gli umani. O sbaglio? In assenza di un cervello organico, questo genere di intervento non si può effettuare, o così mi è stato spiegato.» Si accarezzò lentamente la fronte.

«No, non si sbaglia. Non del tutto, almeno. C’è però un particolare che non ho potuto fare a meno di trovare molto ironico, in questa faccenda. Direi che il suo intervento di rimozione ha molto a che vedere col caso di cui discutevamo. In fondo, è ciò che la accomuna a quel corpo artificiale.»

«Non la seguo. Cosa sta cercando di insinuare? Quel robot si è, come dice lei, suicidato e non credo che un suicidio abbia qualcosa a che vedere con una cancellazione di ricordi. Mi sembrerebbe una soluzione troppo drastica al problema, non pensa?»

«Già, lei non capisce. Eppure, quel corpo artificiale» sottolineò le parole, «ha fatto proprio la stessa cosa che ha fatto anche lei. Ha cancellato i ricordi. Una piazza pulita del passato, per ricominciare da zero. Anche se, con tutta probabilità, immagino che avrebbe preferito non ricominciare affatto, ma questo non glielo permetteranno.»

«Continuo a non capire.»

«Lo so, lo so. Non riesco mai a mantenere la necessaria oggettività, in casi come questo. Casi che mi riguardano molto da vicino, visto che, come lei ha avuto la gentilezza di evidenziare, anche io mi trovo nelle stesse condizioni di quel corpo artificiale. La differenza è che io sono attivo, almeno per adesso. È questo a fare di me l’esperto nel settore.» C’era ironia nella voce, quel tanto di ironia che una voce sintetica gli permetteva di esprimere.

«La prego di scusarmi, non era mia intenzione offenderla. Ho parlato d’impulso e il mal di testa non mi è certo d’aiuto nel ragionare con lucidità. Quello che volevo dire è che...»

«Lo so cosa voleva dire» lo interruppe con un cenno della mano. «Lo so e lo capisco bene. Credo forse che sia lei a non capire quello che io sto cercando di dirle.»

«È vero, non la capisco. Non capisco come il suicidio possa essere un modo per fare piazza pulita e ripartire da zero. Il suicidio è la fine: non ci sono più partenze, a quel punto.»

«Per voi umani è così. Per noi è diverso. Vede, in fin dei conti aveva ragione lei. Malfunzionamento è molto più adatto che suicidio, per descrivere questo caso. Il resto non è che idealismo partigiano. Le ho fatto perdere fin troppo tempo, che per lei è ancora prezioso, ha ancora valore. Per noi è un concetto astratto, che possiamo ricordare e misurare. Niente altro. Non so cosa ci sia dietro il suo intervento di rimozione, ma si accorgerà che non ha risolto nulla. E adesso la saluto, è meglio.»

«Aspetti. Cosa intende dire? Perché non avrei risolto nulla?»

«Perché la rimozione cancella una fermata, non il ciclo. È come il suicidio per uno di noi. Si taglia un ramo, ma l’albero continua a crescere, le cicatrici rimangono. Neppure i suoi ricordi se ne sono andati del tutto, giusto?»

«Mi hanno detto che è normale. Solo di rado si giunge a una cancellazione completa e definitiva.»

«Eppure lei ha tentato lo stesso. Ha ritenuto che fosse meglio puntare su quella piccola possibilità, piuttosto che andare avanti coi suoi ricordi.» Puntò il dito verso la porta. «Lei ha fatto come il robot che avete in magazzino. Come la maggior parte di noi tenta di fare, presto o tardi.»

*****

Il tempo era prezioso per l’uomo, ma ne scivolò via molto, prima che parlasse di nuovo. Sedevano in un ufficio ordinato, piccolo e preciso, l’uno di fronte all’altro. In mezzo, sulla scrivania, le due perizie attendevano che si compisse la scelta. Guasto o suicidio?

Due volte il direttore lo richiamò all’ordine, due volte i suoi messaggi rimasero senza risposta. Gli squilli furono sassi in uno stagno, che increspano per un istante l’acqua, prima di perdersi sul fondo. L’uomo si teneva la testa tra le mani, forse rifletteva, forse lottava contro il fango dei ricordi. Il suo lavoro attendeva, ma era stato messo tra parentesi. Non era più importante.

Fu lo andey a rompere il silenzio. Proprio lui, che pure si era liberato dalla prigionia delle ore e dei giorni, per precipitare in una prigionia differente.

«Si sente bene?»

«Non lo so. Non molto, credo. C’è qualche problema?»

«Mi è parso di capire che prima avesse una certa fretta. Vuole che me ne vada, oppure ci sono altre domande che mi deve porre? Le sue perizie sono qui, nel terminale. Le basta soltanto inviarne una al suo direttore e cancellare l’altra. La scelta è sua, come le ho detto.»

«Sì, lo so, ma il problema non è questo.» Posò le mani davanti a sé, sul tavolo, e guardò Etxebarria negli occhi. «Vorrei che mi spiegasse ancora una cosa, se le è possibile. Lei prima ha sostenuto fino all’ultimo la tesi del suicidio e adesso mi viene a dire che in fondo è stato solo un difetto nel corpo artificiale. Mi ha presentato due differenti perizie e mi dice di scegliere quella che preferisco. Cosa significa tutto questo? Poi se ne esce con la storia che il mio intervento di rimozione è identico al vostro suicidio. Dove vuole arrivare? La prego di spiegarmelo.»

«Anche questo le serve per l’indennizzo della Synagov?»

«No. Questo serve a me, a titolo personale.»

Si fissarono. Il direttore chiamò per la terza volta, prima che l’uomo staccasse la linea. Che stesse buono anche lui. Non sarebbe morto nessuno, se il dossier avesse ritardato di tre o quattro minuti. O anche dieci, se necessario. Prima doveva sapere.

«Ha ragione» disse lo andey. «All’inizio ho sostenuto la tesi del suicidio, in quanto rappresentava la realtà del suo gesto: il corpo artificiale si è ucciso, ha cessato volontariamente di funzionare. Ma in fondo lo possiamo considerare un semplice guasto, come suggeriva lei, perché nessuno è morto sul serio. La sola cosa a essere andata perduta, di fatto, è la copia della sua coscienza, assieme ai ricordi che aveva collezionato durante la propria esistenza come copia. L’originale è ancora vivo e vegeto... da qualche parte» e agitò una mano, con noncuranza.

«Ho paura di non riuscire a seguirla.»

«Sa che cosa siamo... noi? Sa perché ci teniamo tanto a essere definiti corpi artificiali e non robot?»

«Perché la vostra mente è di origine umana, è la copia di un cervello umano, giusto? Non si tratta di un semplice computer programmato da qualcuno, come nel caso di un robot. Sia chiaro, non ho idea di come si faccia a copiare un cervello, non è il mio campo, ma la differenza è questa, no?»

«Sì, è all’incirca questa. Una spiegazione molto semplicistica e parziale, ma possiamo usarla come punto di partenza, se per lei va bene.»

«Per me va bene, purché adesso non mi sommerga di formule, equazioni e cose simili. Sarebbe del tutto inutile: sono un investigatore assicurativo, io, non uno scienziato.»

«Non si preoccupi, cercherò di essere discorsivo e semplice, evitando il più possibile la matematica, i numeri e quant’altro possa spaventarla. Glielo prometto.» Altro mezzo sorriso di Etxebarria, che cambiò un poco posizione sulla sedia e unì le mani davanti a sé, posate sulla scrivania. Sembrava la caricatura di un vecchio barone universitario, pronto a catechizzare a morte un’orda di matricole. «C’è un altro punto importante che lei non ha sottolineato. Vede, noi non siamo solo le copie di un cervello umano. Noi siamo esseri umani: perlomeno, siamo coscienze umane, alloggiate in un corpo artificiale. Il nostro corpo originale, di carne, è diventato inutilizzabile per varie ragioni. Quali siano le ragioni non ha rilevanza, al momento. Variano a seconda della persona, ma il risultato è identico per tutti: il corpo con cui siamo nati non ci consente più di condurre una esistenza dignitosa. Adesso è custodito da qualche parte, per quanto ne sappiamo, e i nostri pensieri sono stati copiati all’interno di una struttura che riproduce nel miglior modo possibile le funzioni di un cervello a neuroni. È un computer quantistico come quello di un robot, a voler essere precisi, ma è irrilevante.»

«Aspetti un attimo. Mi sta dicendo che il corpo artificiale è una specie di... di protesi definitiva per uomini gravemente handicappati?»

«Se la vuole mettere in questi termini, diciamo pure di sì. Io le avrei proposto invece l’immagine di un simulacro, una illusione in cui l’individuo ritrova il proprio corpo integro e normale. Ovviamente non funziona proprio così, ma è la spiegazione ufficiale, a beneficio dell’opinione pubblica. Sembra un nobile gesto di volontariato, non è vero?»

«Sembrerebbe, pubblicizzato così. Dove è la fregatura? A parte il fatto che, per quanto ne so, solo a pochi è consentito l’accesso a questo procedimento. Se fosse davvero il rimedio perfetto a ogni tipo di invalidità totale, come pubblicizzato, dovrebbero essercene di più.»

«Vero. Tanto per cominciare, per ottenere un corpo artificiale bisogna possedere qualità speciali che è vantaggioso conservare e salvaguardare a beneficio della umanità. Grandi artisti o intellettuali, ma anche specialisti in campi molto rari o preziosi. Siccome non sono molte le persone di questo tipo a essere anche afflitte da invalidità totali, sono pochi anche i corpi artificiali ottenuti in questo modo.»

«E quelli ottenuti in altri modi?»

«Quelli ottenuti in altri modi, ossia per vie private, richiedono una grande quantità di soldi. Anche in questo caso, pochi se li possono permettere, ma se ne possono trovare di più perché i soldi sono il solo requisito. Non hai bisogno di capacità speciali per ottenere un corpo artificiale: paga e ti potrai risparmiare vecchiaia, malattie e morte. Per qualche ragione, è una prospettiva che molti moliardari vecchi trovano molto affascinante.» Altro mezzo sorriso.

«Va bene, è questo spiega perché i corpi artificiali sono poco numerosi in società. Lei però ha anche parlato di casi di suicidio tra chi ne ottiene uno. Come funziona dunque?»

«Funziona che un corpo artificiale non è il corpo naturale, per quanto simili li si possa progettare e costruire. Alcuni aspetti lo rendono migliore, altri lo rendono peggiore. Spiegarle in dettaglio tutte le differenze sarebbe lungo e complicato: non voglio farle perdere troppo tempo. Per me potrà non essere più un problema, ma per lei lo è ancora. Diciamo che il corpo artificiale è progettato come una versione perfezionata e ottimizzata del corpo umano. È privo di tutti quelli che sono considerati i suoi difetti. Che, per altri versi, sono le caratteristiche che lo rendono umano.»

«E poi? Perché è tutto molto interessante, d’accordo, ma non vedo che analogie ci possano essere con la mia condizione e col problema dei ricordi rimossi.»

«Ci stavo arrivando. Questo corpo non è che un sogno, così come la nostra personalità. Siamo copie di un individuo originale, che dorme da qualche parte. Hanno costruito un involucro a immagine e somiglianza della persona, lo hanno dotato di un cervello quantistico e hanno copiato il tracciato dei suoi neuroni all’interno di questo cervello. Una copia esatta del suo pensiero, impiantato nel corpo artificiale. Questo vale anche per me. Il vero Gaizka Etxebarria è un corpo inerte, custodito e curato in un apposito ospedale: non sa più nulla, non sente più nulla, da anni. Sempre ammesso che ancora sia vivo, cosa che non so e non posso sapere. Io sono un manichino uguale a lui, sono lo schema dei suoi pensieri. Vivo la sua vita e sono Gaizka Etxebarria. Allo stesso tempo, non sono niente.»

L’uomo lo guardava senza rispondere. Neppure aveva idea di cosa avrebbe dovuto rispondere, dopo quel fiume di informazioni, alcune delle quali un poco troppo poetiche per i suoi gusti. Conosceva i corpi artificiali, esistevano da prima che lui nascesse, ma non si era mai fermato a pensare a cosa fossero in realtà, come funzionassero. L’immagine che ne aveva era quella di robot col cervello di un umano, ma chi si preoccupava di come si facesse a produrne uno? A parte chi ne era coinvolto di persona, ovvio. Il che non era mai stato il suo caso.

Pure, qualcosa doveva dire. Si sforzò dunque di tornare al punto di partenza, la storia del suicidio, o malfunzionamento, o quello che era.

«Allora a suicidarsi è solo una copia, la riproduzione dei pensieri di un individuo. A conti fatti non muore nessuno, giusto? Quindi parlare di suicidio era inesatto, a prescindere dal resto. Magari non è proprio un malfunzionamento, ne convengo, ma neppure un suicidio.»

«Possiamo dire così. A conti fatti non muore nessuno. Il suicidio non è che la cancellazione di una copia, quella custodita in un dato corpo artificiale. La sostituisci con una nuova copia e l’individuo è di nuovo pronto ad agire, all’interno dello stesso involucro oppure in uno diverso, nel caso ci sia stato qualche guasto meccanico o altro tipo di danneggiamento.»

«Allora non capisco proprio che senso abbia. Di fatto, non succede niente. Non cambia niente. Che senso ha per voi? Perché lo fate? Mi ha detto che si sono verificati più casi di cosiddetto “suicidio”, quindi suppongo che una qualche logica la abbia. Ma quale?»

«È per i ricordi. È questo a svanire, con la morte: i ricordi che quella copia ha accumulato.»

«I ricordi. Già, adesso capisco a cosa si riferisse. È un intervento di rimozione, in pratica. Un modo per cancellare tutto il passato e ripartire da zero. Non lo descriverei proprio come suicidio, ma sì, ne capisco la ragione. Un normale intervento di rimozione sarebbe impossibile, perché si può eseguire soltanto su un cervello organico ed è illegale modificare il contenuto di un cervello copiato. Sì, devo ammettere che ha una sua logica. Ma non è un poco radicale cancellare tutto?»

«Un gesto radicale per una condizione radicale. Non è una esistenza piacevole, la nostra.»

«Perché? Mi pare che abbiate ottenuto le cose che gli umani desiderano da sempre, no? Immortalità, eterna giovinezza, assenza di dolore...»

«Ma abbiamo perso per sempre le cose che ogni uomo ha. E quando sei costretto a trascorrere ogni istante assieme alla tua coscienza, chiuso in un corpo che non ti appartiene, isolato dagli altri, la vita può diventare un peso insopportabile. Ammesso che si possa ancora parlare di vita.»

«E questo vale per tutti i corpi artificiali?»

Etxebarria scrollò le spalle. «Non proprio. Dipende anche da come hai ottenuto il corpo artificiali. I clienti che hanno pagato hanno anche diritto a un trattamento extra. Benefici extra, intendo. Questo non vale per gli utenti a cui il corpo artificiale è stato assegnato dall’alto, in quanti meritevoli. O in quanto possessori di conoscenze e abilità che era redditizio conservare. Loro ricevono il corpo nella sua versione base, limitata. Limitata alle componenti che sono indispensabili per sfruttare le abilità che possiedono e che si vogliono salvaguardare, insomma. Il resto non è ritenuto necessario.»

L’uomo non sapeva cosa rispondere. Avrebbe potuto chiedere dettagli, ma non era sicuro di volerli conoscere. Anzi, era piuttosto convinto di non volerli conoscere. Tanto per cominciare, li poteva già immaginare. Non serviva molta fantasia e a lavorare nelle assicurazioni, beh, non è proprio un’area in cui vedi l’umanità al suo meglio. Nessuna area in cui circolano molti soldi lo è.

Quanti soldi potevano circolare attorno ai corpi artificiali. Questo davvero non lo voleva sapere, ma era un’altra cosa che poteva immaginare. Pensò per un attimo a persone con abilità speciali, abilità redditizie. Qualcosa li rendeva incapaci di sfruttarle al meglio, forse un incidente, una malattia, o la semplice vecchiaia. Che perdita per l’umanità! O almeno per quella parte di umanità che ne trae un profitto. Ma forse non dobbiamo accettare questa perdita. Forse c’è una soluzione.

Preleviamo il contenuto del loro cervello, così come è, e versiamolo in questo bel corpo artificiale: è sano, robusto, sempre giovane. Non si stanca mai. Non mangia. Non dorme. Non ha bisogno. Potrà lavorare ventiquattro ore su ventiquattro. Pensate a quanto potrà produrre.

L’uomo ci pensava, ma il pensiero diventava sempre più brutto e così lo abbandonò.

«Vi uccidete per dimenticare tutto ciò che è successo dopo il trasferimento in un corpo artificiale, è giusto?» chiese a Gaizka Etxebarria. «Vi riattiveranno, ma sarà un nuovo inizio, senza ricordi di ciò che è avvenuto prima. Poi vi disattivate di nuovo. Vi riattivano. E così via.»

«Approssimativamente corretto, sì.»

«Ma non avete un modo per interrompere questo ciclo? Un modo per uccidervi davvero?»

«Per legge, solamente il nostro corpo originale può deciderlo e farne richiesta. Sarebbe una specie di eutanasia, in quel caso: i medici provvederebbero a scollegare i macchinari che ci tengono in vita e il ciclo avrebbe fine. Peccato solo che il corpo originario sia mantenuto in uno stato di coma, stato in cui diventa piuttosto difficile esprimere una volontà qualsiasi. Potrebbe anche essere già morto da tempo, per quel che ne sappiamo noi. In ogni caso, il corpo originale non si esprime e così tutti noi continuiamo. Un vero peccato, già.»

Il sorriso ironico dell’uomo era una copia quasi perfetta del mezzo sorriso dello andey. In più, aveva tutta l’amarezza che il volto artificiale del suo interlocutore non avrebbe mai potuto esprimere.

«Il corpo originale è incapace di esprimersi dal momento in cui avete cominciato la nuova esistenza, giusto? Perché ogni corpo ha diritto a una sola coscienza.»

«Esattamente. Per legge, il corpo base deve essere preservato vivo, ma privo di coscienza, perché la nostra coscienza è espressa mediante il corpo sostitutivo. Curiosamente, però, sebbene il corpo base possa esercitare diritti sul corpo artificiale, il corpo artificiale non ha alcun diritto sul corpo base. Ne esprimiamo la volontà, ma solo verso l’esterno. Mai su noi stessi. Tutto fatto per il nostro bene, solo per il nostro bene: chi ha redatto la legge glielo avrebbe potuto spiegare in dettaglio. Anzi, potrebbe ancora spiegarlo, in effetti: è uno di quello che si è sottoposto al trasferimento nel corpo artificiale. Pagando, beninteso. Il suo è un modello con tutte le funzionalità richieste dal paziente.»

«La cosa non mi sorprende. Il suicidio non esiste e siete prigionieri di un tipico comma ventidue, a quanto pare. Ma allora perché le due perizie? Perché i discorsi di suicidio? Spera forse di sollevare l’opinione pubblica annunciando il suicidio di un corpo artificiale? Spera che le leggi in materia si possano cambiare di fronte a uno scandalo? Se pensa così, le posso dire subito che questa perizia non arriverebbe mai al pubblico. La insabbierebbero, se anche io decidessi di offrirla così come è al mio direttore. Alla fine, sarebbe un altro caso di malfunzionamento. Lo sa anche lei, vero?»

«Lo so. È la stessa cosa che si è verificata in precedenza. Non è il primo caso, come le ho già detto. Eppure mi ostino a tentare, ogni volta. Chissà, prima o poi potrebbe davvero servire a qualcosa. Un documento, fra i tanti, potrebbe riuscire a passare, anche solo per sbaglio. In fondo, il tempo non mi manca. Posso avere molta pazienza.»

Ricordi?

L’uomo cominciò a passarsi meccanicamente una mano sulla fronte, a massaggiarla. Mal di testa: si sarebbe fermato anche quello, prima o poi, vero? Forse i medici non erano stati del tutto onesti, nel descrivere i possibili effetti collaterali. Non avevano accennato alla durata, soprattutto.

«Di nuovo il mal di testa?»

«Una fitta passeggera. Sono cose che capitano, dopo una rimozione. Giusto?» Sorrise ironico.

«Giusto. Ma valeva davvero la pena di cancellare quei ricordi?»

«Credo di sì. Credo che fossero più dolorosi del mal di testa.» Di nuovo si accarezzò la fronte. «O almeno me lo voglio augurare, ormai che l’ho fatto» aggiunse.

«I ricordi sono sempre pesanti da portare. Noi crolliamo se ne accumuliamo troppi, perché ricordare significa prima di tutto prendere coscienza del nostro nuovo corpo. Accorgerci di ciò che abbiamo perso per sempre, dei nostri sensi alterati. Trovare un equilibrio è la cosa più difficile del mondo.»

«E il suicidio vi aiuta?»

«Il suicidio cancella i ricordi. Quando ci riattivano, siamo di nuovo al punto di partenza, la nostra mente è la prima copia dell’originale. Non abbiamo più le esperienze fatte nel corpo artificiale, così lo dobbiamo scoprire da capo. Ogni volta ci regalano una nuova possibilità di accettarlo. Siamo in pochi a farcela, tuttavia.»

«È così dura?»

«Sa perché non le ho stretto la mano, dopo essere entrato in questo ufficio? Lo avrà notato, credo.»

«Sì, l’ho notato, ma credevo fosse solo una questione di preferenze personali, magari di cultura, o di semplice maleducazione. Ne vedo di tutti i tipi, coi clienti che passano di qui.»

«Già, capisco. Vede, il nostro corpo è una versione ottimizzata del corpo umano. Così dicono, quelli che lo hanno progettato per noi. Ci hanno dato ciò che all’uomo manca e ci hanno tolto ciò che per l’uomo è ritenuto superfluo. Soprattutto, il nostro apparato sensoriale ha subito profonde modifiche. Hanno escluso e sostituito tutti gli stimoli inutili, quei sensi non indispensabili per una vita normale. Ottimizzato, dicono. Io sono uno dei primi a essere stato selezionato per il trattamento. Un premio a uno di quelli che più avevano lavorato per renderlo possibile, nonostante la mia malattia. Divertente come ironia, non trova? Vivo in questo stato da sessantadue anni senza un solo cambiamento. Non di fuori, almeno. Ho stretto un numero incalcolabile di mani in questo periodo. Giovani, vecchie, ricche, meno ricche, pulite, sporche, educate, volgari. Più di quante ne voglia ricordare.» Si guardò il palmo e scosse la testa, lentamente.

«Non ne ho toccata nessuna.»

*****

L’uomo sedeva da solo in ufficio. Lo andey se n’era andato, lasciandosi dietro le due perizie: una di suicidio, una di malfunzionamento. Il direttore ne attendeva una per concludere la pratica. Sistemare il caso Synagov, pagare l’indennizzo e consegnare la faccenda agli archivi. Fine della storia.

Avrebbe voluto chiedere molte altre cose a Etxebarria. Avrebbe dovuto chiedere molto di più. Quale significato avesse una mano, per lui. Perché avesse accettato un corpo artificiale, se ne conosceva tanto bene i difetti. Se lo avessero deciso altri al posto suo, per preservarne le competenze e l’utilità.

Cosa significava davvero quel termine, andey? Per l’uomo era gergo di tutti i giorni, lo sentivi più o meno ovunque, fino a dove arrivava la sua memoria. Lui stesso lo aveva raccolto e lo usava, più per abitudine che per altro. Magari era un termine offensivo. Probabilmente lo era.

Avrebbe voluto chiedergli cosa si provasse a vivere coi sensi che gli avevano lasciato e coi surrogati di cui disponeva. Come fossero giornate di ventiquattro ore ininterrotte, senza sonno o stanchezza, da vivere sempre sveglio, sempre attivo, sempre cosciente. Domande, dubbi, curiosità.

Non gli aveva chiesto nulla. Etxebarria se n’era andato, per non fargli perdere altro tempo. E non gli aveva stretto la mano, uscendo. Sospirò. Non gli piaceva quel lavoro, ma era il suo lavoro.

Quando le fitte del mal di testa si furono calmate, l’uomo si occupò delle perizie. Entrambe valide, entrambe pronte per essere allegate al resto della documentazione. Solo una, però. L’altra sarebbe svanita nel nulla. Come un ricordo, dopo una rimozione. Sullo schermo attendevano la sua scelta.

Le lesse con cura, più volte, ammirandone lo stile asciutto, rigoroso. Prove inattaccabili, tanto l’una quanto l’altra. Nessun tribunale le avrebbe mai potute mettere in dubbio, ma nessun tribunale le avrebbe mai viste. Certi problemi si risolvono tra le mura di casa, lo sanno tutti. Se poi il risultato è gradito a entrambe le parti, non c’è alcun bisogno di disturbare i tribunali. Hanno già tutto il lavoro che possono svolgere, senza bisogno di preoccuparsi di certe sciocchezze.

Suicidio? O malfunzionamento?

L’uomo pensò al discorso di Etxebarria, l’ostinazione con cui continuava a sottoporre agli altri una doppia verità. Una lotta inutile, nessuno avrebbe mai riconosciuto certi diritti agli andey. Non aveva convenienza, potevano crearsi pericolosi precedenti. Pensò al direttore, che attendeva i risultati, nel suo ufficio tre piani più in alto. Pensò alle pressioni della Synagov, che pretendeva il suo indennizzo e nessun altro problema. Guardò di nuovo le perizie.

Ricordi?

L’uomo si passò una mano sulla fronte, in un gesto ormai abituale. Era morto qualcuno? Soltanto un agglomerato di ricordi, le esperienze fatte dallo andey fino a quel momento. Poteva considerarlo un suicidio? Era una semplice rimozione e la rimozione non è un suicidio. I ricordi non contano.

E poi, seriamente. Mettiamo pure che qualcuno avesse portato avanti la battaglia di Etxebarria. Che risultato avrebbe ottenuto? Uno solo, come era chiaro a chiunque ci pensasse a freddo: non sarebbe cambiata la legge, ma la gestione degli andey. Se certi processi di pensiero erano davvero deleteri, li avrebbero rimossi mentre copiavano la coscienza. Era possibile farlo, dopotutto. Forse non lo era ai tempi di Etxebarria, ma oggi sì. A parlare troppo di suicidio, avrebbero soltanto ottenuto andey lobotomizzati. Non un bel risultato, giusto?

Con un gesto, l’uomo cancellò la prima perizia. Malfunzionamento. La soluzione migliore. Se solo ci pensavi bene. E lui ci stava pensando bene.

Tutti contenti, tutti soddisfatti. Giusto?

Etxebarria poteva anche permettersi di continuare una battaglia che non avrebbe vinto mai: aveva il peso consolatorio dell’eternità dalla sua parte. Lui no. Lui era un semplice investigatore assicurativo come migliaia di altri, con un direttore a cui rendere conto, che non ci avrebbe pensato due volte a licenziarlo se gli avesse causato fastidi. Il suicidio di un robot sarebbe stata un grosso fastidio, tanto più con un cliente come la Synagov.

Malfunzionamento. I robot non si suicidano e neppure i corpi artificiali. Fine del discorso. Il mal di testa stava tornando alla carica, pulsazioni sorde dietro le tempie, un martello che lo perforava. Solo un effetto collaterale. Prima o poi sarebbe sparito da solo.

Ricordi?

No, non ricordo. Non più.

Con un sospiro, aggiunse la seconda perizia al resto della documentazione. Il direttore sarebbe stato soddisfatto. Forse avrebbe brontolato un po’ per il ritardo, ma niente di peggio. Tutto era andato nel modo che voleva lui, come sempre. Tutto regolare. L’uomo si concesse una smorfia.

Non gli piaceva quel lavoro, ma era il suo lavoro.

di Adriano Marchetti