Per un pugno di briciole
Era stata una normale domenica mattina per Enrico Del Cavolo, fino al suo rientro. Passeggiata in centro, due chiacchiere con alcuni conoscenti incrociati per strada, un poco di slalom per aggirare le aree dove le videocamere di sorveglianza erano più concentrate, pensieri persi nel vuoto a meditare sull’infinito e il lunedì prossimo venturo, eccetera eccetera. Niente di speciale, niente di memorabile o significativo. Una mattinata festiva qualunque, tanto normale quanto può essere per qualcuno che si porta sulle spalle la croce di un cognome ridicolo e una infanzia miserabile.
Poi, come si diceva all’inizio, era rientrato a casa e aveva smesso di essere normale.
Non perché ci fosse qualcosa di speciale nell’edificio. Era un condominio qualunque, non proprio in periferia ma lontano a sufficienza dalle principali rotte del traffico veicolare e umano da essere più o meno tranquillo. Niente moto odiose che macinano e rombano a vuoto per almeno cinque minuti prima di decidersi a partire; niente branchi di ominidi ubriachi e bercianti che amano sfilare sotto la tua finestra in piena notte e magari fermarsi per un poco o un molto; pochi dementi ad ammorbarti con la loro pessima musica sparata ad alto volume. Non un paradiso, ma accettabile.
A grandi linee. Visto da fuori.
Se entravi e prendevi l’ascensore fino al quarto piano, aprivi la porta blindata dell’appartamento sul lato destro, ti toglievi le scarpe e ti accomodavi sul divano del signor Del Cavolo, proprio come lui stava facendo in quel momento, potevi ancora pensare che fosse un posto tranquillo e pacifico, se al piano di sopra dormivano ancora. E se erano svegli? Ritenta, sarai più fortunato.
Erano bestie, così li avrebbe definiti il nostro Enrico. Peggio, erano umani stronzi, come molto più spesso li descriveva nei suoi monologhi interiori. La sola cosa che ancora non gli avessero fatto era sporgere il culo e cagargli sul balcone, ma era solo questione di tempo, potete esserne sicuri. Gente simile, davvero, potete aspettarvi di tutto da loro, purché sia in negativo. Prima o poi ve lo faranno.
Questa, almeno, era l’immagine dei vicini che viveva nel cranio di Enrico Del Cavolo. Quanto fosse poi simile alla realtà è un altro discorso e non vale la pena di affrontarlo qui, sopratutto perché non è importante quale sia la realtà reale, in certi casi: conta solo la nostra realtà soggettiva, e la realtà del signor Del Cavolo era che i vicini al piano di sopra erano mostri che lo odiavano, che desideravano soltanto il suo male. Perché erano malvagi loro. Erano un cancro fmailiare. Ovvio.
Non fu dunque sorpreso di sentire dal piano di sopra una serie di tonfi come se scimmioni in calore stessero ballando il tip tap su un campo minato. Era normale. Non fu stupito neppure quando uno di loro si affacciò alla finestra del salotto urlando selvaggiamente al telefono. Era normale. E quando il tizio smise di parlare e la sua voce fu sostituita da un televisore a volume da concerto heavy metal? Un giorno come santi sopra la testa del signor Del Cavolo.
Ma la sua pazienza si stava già incrinando.
Poi il signor Enrico Del Cavolo andò in camera a cambiarsi, si avvicinò alla finestra per chiuderla e vide le briciole. Erano sul davanzale esterno. Erano su quello interno. Erano finite anche per terra, a intrecciarsi alla moquette blu. Briciole. Briciole.
Labbra pressate e narici dilatate, Enrico ne raccolse una, trattenendo il disgusto. Briciola, sì, di pane e quasi fossilizzata. Il genere di cosa che può spuntare quando scuoti un tappeto o un lenzuolo fuori dalla finestra, se appartiene a un maiale sudicione. A una bestia, insomma. O, come si diceva, a un umano stronzo. Le labbra del signor Del Cavolo si contrassero ancora di più.
Andò a recuperare uno scopino per spolverare e spazzò con cura le briciole, prima all’esterno e poi all’interno. Le gettò in un sacchetto. Passò l’aspirapolvere sulla moquette, più e più volte. Spruzzò alcool su una spugnetta e disinfettò i davanzali. Pulì. Mise via tutto. Si lavò le mani. Aprì di nuovo la finestra della camera e si affacciò, guardando verso l’alto.
Dal davanzale al piano di sopra sporgeva parte di un lenzuolo. Un attimo dopo gli arrivò una raffica di rumori intestinali che forse qualcuno poteva anche definire musica. Non lui. Lenzuolo e musica.
Enrico si ritrasse e chiuse la finestra. Respirò a fondo lentamente, fissando il vuoto. Considerò varie opzioni. Le vagliò. Le soppesò. Prese una decisione. Annuì. Quando è troppo, è troppo. Ci sono dei limiti e non bisogna superarli. Se l’erano cercata loro.
E, oggettivamente, il mondo sarebbe diventato un posto un poco migliore.
Ora, qual era il numero? Ma non c’era bisogno di pensarci. Bastava guardare. Era indicato su quasi tutti i siti nazionali, dopo l’ultimo decreto legge. Così Enrico accese il computer e guardò. Annuì di nuovo. Per sicurezza, seguì il link al sito del ministero e lesse con attenzione tutti i dettagli e i casi in cui era lecito e legittimo telefonare. Lesse di come eseguire correttamente la denuncia. Controllò tre volte, con tutto lo scrupolo di chi è pignolo per natura e vocazione. Perfetto.
Guardò il sacchetto con le briciole. Lo guardò come se lo avesse voluto incenerire. Non era colpa sua. Era loro. Avevano voluto la guerra? E guerra avrebbero avuto. Letteralmente, o quasi.
Enrico Del Cavolo fece un bel respiro e compose il numero verde del Centro per la Tutela del Diritti Umani Imprenditoriali, sezione Copyright. Telefonò. Si identificò, selezionò il crimine che doveva denunciare, indicò con pronuncia impeccabile il nome del colpevole, che nel suo caso era una intera famiglia di malviventi, come spesso capitava, infine recitò l’indirizzo, il piano e l’interno.
La voce meccanica gli rivolse qualche altra domanda personale ovviamente di routine, lo ringraziò per il servizio che stava offrendo alla Patria e promise che giustizia sarebbe stata fatta nel più breve tempo possibile, dopo una verifica della colpevolezza degli accusati. Qualche ultima frattaglia in un legalese stretto, un paio di bip e la chiamata poteva considerarsi conclusa.
Enrico chiuse la comunicazione. Verifica della colpevolezza, beh, era ovvio che ce ne sarebbe stata una. Era prevista dal decreto legge. Era semplicemente giusto. E quante possibilità avevano i vicini di risultare innocenti? Quasi nessuna. Figuriamoci se avevano pagato per tutta la porcheria che ogni giorno ascoltavano a tutto volume. E se anche fosse, quasi di sicuro nella cache di un browser c’era almeno una qualche immagine scaricata da un sito senza l’esplicita autorizzazione del sito stesso.
No, nessun problema. Erano colpevoli e per dio sarebbero stati puniti. Così imparavano a gettare le loro luridissime briciole sul davanzale della sua camera. Maiali. Vermi. Incivili. Cancri umanoidi.
Col sorriso soddisfatto di chi ha scoreggiato in pubblico senza essere scoperto, Enrico Del Cavolo uscì sul balcone e sedette ad aspettare. Era una giornata di sole, come al solito, e ancora non faceva troppo caldo. Erano solo i primi di marzo, dopotutto. Si stava bene all’aperto. Era bello guardare il cielo. Cosa sarebbe arrivato. Cosa avrebbe fatto. Eccetera eccetera. Erano quasi piacevoli persino le ragliate cacofoniche che al piano di sopra chiamavano musica.
«Ascoltatela pure, finché potete,» sussurrò. Sorrise.
Arrivarono quasi mezz’ora dopo. Enrico non sapeva di preciso cosa aspettarsi, le descrizioni erano così diverse che era meglio ignorarle, servivano solo a confondere le idee. Ma dovevano essere loro, non potevano che essere loro. I portatori di giustizia, i droni della giustizia, discendenti domestici e cittadini del droni killer usati per esportare democrazia nel mondo. Altro sorriso.
Sembravano modellini radiocomandati, ma di quelli che solo un bambino ricco, viziato e sbruffone si potrebbe permettere. Il che, da un certo punto di vista, li descriveva abbastanza bene. Vennero in silenzio, passarono quasi davanti a lui, raggiunsero le finestre dell’appartamento di sopra, sostarono per un momento. Parlarono. O almeno recitarono un messaggio registrato.
«In questo appartamento sono conservate copie non autorizzate di materiale indebitamente sottratto ai legittimi proprietari, gli autori e chi ne tutela i diritti. Ai sensi del decreto legge numero...»
Ma il resto lo si poteva ignorare. Sempre sorridendo, Enrico Del Cavolo si sistemò meglio, pronto a godersi la liberazione dagli orribili vicini. E tutto legale. Cosa poteva chiedere di meglio?
Per almeno cinque minuti il rumore fu forte, ma non eccessivo. Era come un televisore acceso su un film di guerra, col volume non al massimo ma ben pompato. Qualcosa di adatto ai tuoi nonni sordi, in altri termini. Enrico lo trovò un poco eccessivo, ma sopportò. Ne valeva la pena. In cambio di un piccolo fastidio adesso, avrebbe ricevuto una lunga pace poi. Un buono scambio, sì.
Droni killer, meditò. Un brutto nome, certo, ma molto utili. Giustizia rapida e indolore, almeno per chi non la riceveva. C’era qualche danno alla proprietà, è vero, ma nulla di eccessivo e in fondo non era un gran male. Come agente immobiliare, Enrico Del Cavolo sapeva che anche in questo c’erano benefici, se li sapevi cercare e se eri pronto a coglierli. Sì, la nuova legge non era poi così terribile e sbagliata come sostenevano alcuni. Bastava saperla usare bene. Lui l sapeva usare bene. Sorrise.
Silenzio. Dovevano avere finito. Avrebbe preferito qualche urlo in più dai vicini, gli avrebbe dato il tocco di soddisfazione extra che ci voleva, ma pazienza. Enrico si sapeva accontentare.
I droni uscirono dalle finestre sfondate, si abbassarono, si fermarono davanti al suo balcone. Enrico Del Cavolo li guardò con una vaga curiosità, ma nulla di più. Avrebbero fatto rapporto, ringraziato o qualcosa del genere. Niente di cui preoccuparsi.
O così pensava.
Il drone più vicino avanzò un poco. Puntò verso di lui. Puntò verso di lui.
«Cosa...» Enrico cominciò ad alzarsi.
«In questo appartamento avete usufruito delle riproduzioni di copie non autorizzate di materiale che altri hanno indebitamente sottratto ai legittimi proprietari, gli autori e chi ne tutela i diritti. In quanto beneficiari indiretti del reato, ai sensi del decreto legge numero...»
Furono davvero sgarbati. Non gli lasciarono neppure il tempo di un’ultima esclamazione perplessa, ma fu una giustizia rapida e, a modo suo, indolore. Per chi non la riceveva, beninteso.