Pizzata a sorpresa
Siamo alla fine del ventesimo secolo e il mondo non è sconvolto da esplosioni nucleari. Procede per la propria strada tranquillo e fischiettando, senza sapere cosa lo aspetterà nel futuro. Non è certo il migliore dei mondi possibili, ma è almeno migliore di quello che verrà.
È anche e soprattutto migliore dell’umore di Giusbeppe Baracca, al momento.
Non che sia poi così difficile. Quando il destino e tuo padre ti hanno rifilato un nome simile, essere di buon umore è una impresa, soprattutto quando sei in mezzo agli altri. Quando poi sei Giusbeppe, fai prima a rinunciarci e acciambellarti nel suo solito angolo triste e malinconico, a guardare la vita e chiederti quando toccherà anche a te.
Non che fosse quella la domanda più pressante, al momento. Ciò che Giusbeppe si chiedeva, fermo in un angolo della strada, era quando sarebbero arrivati gli altri. Un’ora fa, in teoria. E in pratica?
Giusbeppe guardò di nuovo l’orologio, nella speranza di essersi sbagliato. Non si era sbagliato. Gli avevano detto di trovarsi alle otto davanti alla pizzeria, si era fatto ripetere due volte il posto, giusto per essere sicuro, e per essere ancora più sicuro si era presentato con dodici minuti esatti di anticipo. Si presentava sempre in anticipo, Giusbeppe, e sempre doveva aspettare. Stavolta però era troppo.
«Ti hanno bidonato. Accettalo e torna a casa,» gli disse l’orologio.
Giusbeppe lo guardò male. Era un vecchio Casio, col cinturino di plastica nera e ammaccature varie sulla sua superficie. Non era nuovo e non era bello, ma funzionava ancora e tanto bastava. Peccato che parlasse pure. Non aveva ragione di farlo, ma lo faceva lo stesso. Come le altre cose.
«Non mi hanno bidonato. Arriveranno. Sono solo un po’ in ritardo.»
«Un po’ in ritardo, sì. Ehi, guarda, c’è un asino che vola!»
Giusbeppe non guardò, ma continuò a fissare il maledetto orologio. Perché doveva parlare? Di tutte le altre disgrazie che gli potevano capitare, perché proprio un orologio parante? Che poi era soltanto l’inizio. C’erano disgrazie molto più grandi nel suo piccolo mondo infelice.
«Ha ragione e dovresti ascoltarlo,» gli disse il lampione davanti alla pizzeria. «Ti hanno bidonato.»
«Non vedo perché dovrebbero avermi bidonato,» mugugnò Giusbeppe.
«Già, non lo vedi, come non vedi la maggior parte delle cose che ti capitano attorno. Questo non le rende meno vere. Faresti meglio ad aprire gli occhi sulla realtà.»
Ci mancava giusto un lampione che gli dava consigli di vita. Un lampione! Un palo luminoso che fa il vespasiano per cani come secondo lavoro. La vita è davvero difficile, quando sei un Giusbeppe in un mondo freddo e ostile. Sospirò.
Pure, doveva ammettere che potevano avere ragione. Non era la prima volta che i suoi compagni di classe gli davano un orario sbagliato, oppure un luogo sbagliato, e lo lasciavano ad aspettare come il più fesso dei fessi, mentre loro si trovavano da un’altra parte e si divertivano senza di lui. Sapeva di non essere la persona più simpatica del mondo e non era proprio di compagnia, però non era giusto che lo trattassero così. Era prendersela con lo sfigato del gruppo. Era malvagio.
«È la vita,» disse l’orologio. «Prima ti abitui e meglio è. Potresti poi imparare a dare qualche calcio anche tu, invece di prenderli e basta. Sarebbe un progresso.»
Giusbeppe sospirò. Non il genere di progresso che gli sarebbe piaciuto, ma... no, non poteva stare a fare il palo davanti alla pizzeria per tutta la sera. Non aveva senso. Non sarebbero arrivati, ormai lo aveva accettato anche lui. Forse lo avevano bidonato, forse c’era stato un contrattempo e nessuno si era ricordato di telefonargli. Succede. È la vita.
«Tornatene a casa e non pensarci più.» disse il lampione. «Dormici sopra e magari domattina prova a cambiare qualcosa nella tua vita. Prova a svegliarti, tanto per cominciare.»
Svegliarsi, già. Glielo dicevano tutti gli oggetti, ma come si faceva? Già aveva un nome terribile, che un padre ancora più terribile gli aveva appioppato quando era troppo piccolo per opporsi. Se poi aggiungevi i precedenti, non restava molto spazio per svegliarsi e cambiare. Era un mondo difficile, che non ti concedeva mai una seconda possibilità, e lui aveva già sprecato tutte le prime.
«Basta farti seghe mentali e vai a casa,» disse l’orologio.
Giusbeppe allargò le braccia. E andiamo, va bene, tanto loro non arriveranno mai. Ma non a casa. A casa non se la sentiva di tornare, non adesso. Aveva detto che avrebbe mangiato fuori: tornando così presto, avrebbe avuto troppe cose da spiegare e spiegare qualcosa a sua madre era terribile, come un tuffo di testa in un pozzo nero. Meglio far passare il tempo e tornare a un orario migliore.
«Sei un cretino, lo sai?» gli disse il lampione.
Giusbeppe sospettava che fosse vero, ma pazienza. Un ultimo sguardo alla pizzeria e alla strada, che si ostinava a rimanere vuota di suoi compagni di classe, e poi se ne andò col passo lento e fiacco di chi non ha un posto dove andare, ma deve andarci lo stesso. Che era più o meno il suo caso.
Camminò. Era un sabato di primavera, clima mite e cielo tendente al sereno, anche se ormai buio: le vie del paese non erano vive, non esattamente vive, ma forse lo sarebbero diventate più tardi, entro i limiti fisiologici in cui possono essere considerate vive le vie di un paesotto come il suo. Non molto e non proprio, insomma, ma un poco meglio del mortorio attuale. Che era triste. Ma tanto.
Negozi chiusi, bar aperti ma ancora spopolati, luci accese dietro le tapparelle, che intravedeva qui e là dove i padroni di casa non si erano presi la briga di abbassare tutto. A casa sua sarebbe stato tutto abbassato: sua madre era fissata per certe cose. Guardavano dentro, diceva. Non che davanti a loro ci fosse qualcuno che potesse guardare dentro, ma secondo lei guardavano dentro lo stesso.
«Lo sai qual è il vero problema,» disse un cartellone che pubblicizzava abiti sportivi.
Giusbeppe annuì. Lo sapeva sì, o almeno lo immaginava. Primo. Primo Baracca. O Primo Indiziato, come lo chiamava lui, ma non quando lo poteva sentire. Suo padre, ecco il problema. Quel demente che gli aveva rifilato un nome tanto stupido.
Non volevi che qualcuno potesse vedere cosa succedeva nella casa dove viveva un tizio del genere. E soprattutto degenere, secondo il sempre modesto e disinteressato parere di Giusbeppe.
Sarà già tornato a casa ubriaco?, si chiese, mentre passava accanto al parco cittadino. Forse sì, dopo il primo round al bar. A casa per mangiare qualcosa, sbraitando scemenze e balle, e poi via di nuovo al bar per il secondo round, che sarebbe terminato alla chiusura del locale. Bella roba.
Non che facesse cose troppo terribili, non sul piano fisico. Ma vedertelo attorno così, barba di sei o sette giorni, occhi vitrei, faccia paonazza e odore da stalla, non era proprio il massimo a tavola. Non lo era neppure lontano dalla tavola. E sempre, sempre ti metteva in imbarazzo. Urlava, raccontava le balle più assurde, rideva da solo, rovesciava roba sul pavimento o sulla tovaglia: come una specie di neonato vecchio e sudicio, imbottito di alcool.
Era uno scheletro nell’armadio che non aveva neppure la decenza di restare nell’armadio.
«Sarai così anche tu un giorno, se non ti metti in regola,» gli disse un cestino dei rifiuti.
Giusbeppe si fermò e si girò di scatto. «Non diventerò mai così, io! Non berrò mai!»
«Oh, l’alcool non è il problema, non il vero problema. È solo un sintomo, la sua manifestazione che puoi vedere, contro cui puoi puntare il dito. Il problema è sotto ed è lo stesso che hai tu.»
Giusbeppe ordinò al cestino di fare qualcosa che era fisicamente impossibile per un oggetto, specie se aveva quella particolare forma.
«Insultami pure, non mi posso muovere. Sono solo un cestino, lo vedi. Sono fatto per ingoiare tutta la spazzatura che mi buttate dentro. Cosa vuoi che sia un insulto in più? Sciocchezze.»
«Se sei solo un cestino, fai il cestino e smettila con queste scemenze!»
«Se c’è qualcuno che dovrebbe smettere con le scemenze sei tu, visto che non sei un cestino. Sei un essere umano, in teoria. Comportati da umano, invece che da oggetto.»
Giusbeppe soffiò come un gatto, poi scosse la testa e si allontanò a grandi passi, pestando i piedi più forte che poteva. Smise dopo qualche metro, sentendosi molto stupido, ma proseguì la marcia verso un posto qualunque, purché lontano dal cestino.
Comportati da umano! Come se lui si comportasse in qualche altro modo. Non era certo colpa sua se la vita gli aveva rifilato un padre del genere. Era stato la sua rovina. Prima il nome, che secondo i racconti farneticanti di Primo era solo uno scherzo, per riderci sopra. Era andato all’anagrafe dopo il solito giro al bar e quel cretino dell’impiegato lo aveva preso sul serio. Glielo avevo detto, ma come fai a non capire che è uno scherzo? Volevo solo farlo arrabbiare!
Volevo solo farlo arrabbiare. Era la giustificazione universale per ogni sua stupidata. Giusbeppe non sapeva come fosse andata davvero e non gli interessava molto: sapeva solo che gli aveva rifilato un nome stupido e adesso se lo doveva tenere. Sapeva anche che per qualche motivo riusciva a parlare con gli oggetti, o almeno immaginava di comunicare con loro. Colpa di un gene difettoso ereditato da quel cretino del padre, quasi di sicuro.
«La natura ti fornisce solo la base. Il resto ce lo metti tu,» gli disse un’auto parcheggiata lì accanto.
«Non me ne frega niente e non voglio sentire altro,» rispose Giusbeppe, passando oltre. Ed era vero. Di problemi ne aveva già a sufficienza: una serata da far passare in giro come un idiota, senza cena, e il pensiero del bidone che gli avevano tirato i suoi compagni di classe. Non lo avevano certo fatto apposta, o così gli avrebbero detto lunedì. Telefonate perse, volevamo avvisarti, pensavamo che te lo avesse già detto X, Y, Z. Forse sarebbe stato vero, forse no. Irrilevante in ogni caso.
Giusbeppe fece un altro giro attorno al parco, perché era poco illuminato, deserto e non aveva tanta voglia di infilarsi subito nelle vie del centro. C’era il rischio di incontrare qualcuno e sarebbe stato a dir poco imbarazzante, anche se in effetti non sapeva perché. Lo sarebbe stato e tanto bastava. Per lui o per altri, ma l’imbarazzo è imbarazzo ed è qualcosa che vuoi sempre evitare, se hai un nome di quel tipo. E poi non aveva importanza, se ci pensava bene.
«Ma tu non ci stai pensando bene. Non stai pensando e basta,» disse una panchina.
Giusbeppe sospirò e si sedette. Inutile continuare così. «Sentiamo perché,» disse stanco.
«Perché cerchi il problema nel posto sbagliato. Non è fuori, ma dentro.»
«Oh, fantastico, quello che mi serviva. Una panchina psicologa new age. Dai, continua pure con le tue scemenze, che magari riesci anche a farmi ridere un po’. Mi faresti un favore.»
«Stai pensando che è inutile impegnarti qui, perché ti resta solo un anno di liceo e poi te ne andrai a studiare da un’altra parte. Non nell’università più vicina, come i tuoi compagni che andranno avanti a studiare, ma in una più lontana, dove non conosci nessuno e nessuno ti conosce. Ripartire da zero e così via, giusto? Tabula rasa, vita nuova e un nuovo inizio.»
«Qualcosa del genere, sì, e allora? Che problema c’è? E poi è migliore anche per gli studi, non solo perché è lontana,» aggiunse. «Ci ho pensato a lungo e ho valutato tutto.»
«Non è vero. Non ci hai pensato a lungo e non hai valutato un bel niente. Vuoi solo scappare, con la speranza che da un’altra parte ti andrà meglio. Ma non ti andrà meglio, perché il problema continui a portartelo dietro dovunque vai. Il problema sei tu.»
«Oh, grazie mille per l’incoraggiamento! Mi ci voleva proprio.»
«Sono una panchina. Il mio posto è sotto il culo. Non mi mette in contatto con la parte migliore del genere umano, sai? Che cosa ti aspettavi da me?»
«Un poco di silenzio, ecco cosa mi aspettavo.»
«E allora perché ti sei seduto proprio qui, su una panchina che parla?»
«Perché non fa alcuna differenza. Parlate tutte, quando ne avete voglia.»
Se una panchina avesse potuto ghignare, quella lo avrebbe fatto. «Vedo che stai imparando, eh? Ti ci vuole parecchio, ma alla fine ci arrivi anche tu.»
«Sì, sì, va bene. Finisci di farmi la predica e poi chiudi il becco, ok?»
«Non ti sto facendo la predica, sto cercando di aiutarti. Pensi che cambiare posto sia sufficiente, ma ti sbagli. Devi cambiare la persona che porti in quel posto. Se il Giusbeppe che andrà all’università è lo stesso Giusbeppe seduto su di me adesso, continuerà a comportarsi come ha fatto finora. Quello che ti serve è un cambiamento dentro, prima del cambiamento fuori. Cambiare mentalità. Smettere di farti seghe mentali tutto il giorno. Smettere di aspettare e basta. Devi imparare ad agire.»
«Oh, fantastico, grazie per l’infornata di aria fritta e luoghi comuni. Penso proprio che comincerò a fare qualcosa proprio adesso: andarmene.»
Giusbeppe si alzò e si allontanò rapido dalla panchina. Borbottava e fumava, seccato per tutto quel che gli era toccato sentire. Stupidaggini dalla prima all’ultima. Il suo non era una problema che puoi risolvere con un cambio di mentalità, di approccio, di quello che vuoi. Serviva qualcosa di radicale, definitivo. Andarsene da quel posto, dalla sua famiglia, dal passato. Il resto sarebbe migliorato quasi da solo. Bastava uscire dalla cappa sotto cui aveva vissuto fino ad allora e sarebbe diventato di certo una persona nuova. Una persona migliore. Liberarsi, già. E fuggire.
Marciò a lungo per il paese, immerso in fantasticherie su come sarebbe stata bella la sua vita altrove e con altra gente. Niente padre tra i piedi, niente compagni stronzi, niente di niente. Un futuro tutto da scrivere, senza un passato scomodo a zavorrarlo. Sarebbe andata benissimo, ne era sicuro.
Mentre fantasticava di futuri migliori, vide giusto in tempo i suoi compagni attuali uscire ridendo e chiacchierando da un’altra pizzeria. Giusbeppe si infilò in un vicolo e si finse una strana ombra, una cosa da ignorare perché non interessante. I compagni passarono oltre, sempre ridendo e parlando.
Di lui? Ovviamente no. Non c’era traccia di lui nelle poche parole che Giusbeppe colse e forse era il meglio, sì, la cosa migliore per tutti. Tanto se ne sarebbe andato tra poco più di un anno: non valeva la pena di preoccuparsi troppo. Lui avrebbe dimenticato loro e loro avrebbero dimenticato lui.
«Sei veramente un cretino, lo sai?» gli disse una lattina vuota. Giusbeppe la ignorò.
Tirò tardi, da solo e in guardia per evitare brutti incontri, e alla fine fu un buon orario per rientrare e fingere di essere uscito davvero coi compagni per una pizza e altre cose. Aveva fame, ovvio, ma era un problema che poteva sopportare. Forse in camera aveva ancora qualche biscotto e forse erano già finiti: in entrambi i casi poteva sopravvivere. C’erano cose peggiori nella vita.
Una di quelle cose uscì dal portone proprio quando lui era a una decina di metri. Giusbeppe ebbe di nuovo il tempo per tuffarsi dietro un riparo di fortuna, che quella volta fu un cassonetto fetido, ma il più fetido dei cassonetti era migliore dell’alternativa. Primo. Primo Baracca in persona, che usciva a passo incerto dal condominio. Aveva in mano una busta di plastica, piena di chissà cosa, e l’aria più sospetta del solito. Giusbeppe sospirò dentro. Sapeva cosa aspettarsi. Oh, se lo sapeva.
Primo Indiziato sparì, forse verso l’auto o forse verso un bar. O verso l’auto per raggiungere un bar. Andasse pure dove voleva, purché fosse altrove. Giusbeppe uscì da dietro il cassonetto, dove si era accovacciato, e pensò pensieri tristi.
«Lo avresti potuto affrontare, stavolta,» gli disse il cassonetto.
«L’immondizia potrà piacere a te, ma non a me,» rispose Giusbeppe.
«Le mele non cadono mai lontano dall’albero.»
Giusbeppe invitò il cassonetto a svolgere attività contronatura riservate di solito ai mammiferi. Uno sguardo alla direzione dove suo padre era sparito, poi tolse le chiavi di tasca e raggiunse il portone. Era stata una serata lunga e sgradevole, ma forse era finita. Solo che non lo era.
Il primo sospetto lo ebbe appena entrato nel loro appartamento, mentre si toglieva le scarpe sedendo sul bracciolo del divano. Sembrava vuoto. Non che fosse mai molto pieno, ma adesso sembrava più vuoto del solito. Giusbeppe si guardò attorno, ma non riuscì a localizzare niente di mancante, così si strinse nelle spalle e decise che era solo una sua impressione. Brutta serata e tutto il resto, capite.
Raggiunse la porta della sua stanza scalzo e avanzando al passo del giaguaro, Giusbeppe edition. La mamma era a letto e non la voleva svegliare: gli avrebbe rotto le palle con le sue domande e adesso di rotture di palle non ne voleva proprio. E neanche di domande. Aprì la porta, accese la luce e non fu più questione di sospetti, ma di certezze. Bestemmiò sottovoce.
Primo Indiziato gli aveva perquisito la camera. Aveva frugato ovunque e non si era neppure preso la briga di fingere di rimettere a posto. Di solito lo faceva, quando cercava qualcosa da rubare. Era uno dei modi in cui ti accorgevi del suo passaggio. Frugava, poi rimetteva a posto alla sua maniera, cioè molto male. Stavolta aveva frugato e basta.
E rubato.
Soldi no, perché Giusbeppe aveva imparato a proprie spese che era da pazzi uscire e lasciare soldi a casa. Ti poteva capitare di ritrovarli, a volte, ma le probabilità erano a tuo sfavore. La fame di soldi di suo padre non si placava mai. Era quel genere di persona, e guai a rinfacciarglielo. Si arrabbiava e dava la colpa a te. Lui era onesto. Lui non faceva cose del genere. Hah!
Infatti Primo Indiziato non aveva rubato. Era un chiaro caso di dissoluzione spontanea. Gli oggetti a cui si poteva dare un minimo valore erano spariti da soli dalla sua camera, per visitazione divina. Il solito stronzo. Non che fosse rimasto molto di valore, ma si era fregato anche quel poco, oggettucoli e curiosità da quattro soldi. Ecco cosa aveva nella borsa di plastica, lo stronzo.
«Non era niente di prezioso,» gli disse il letto. Il cuscino era rovesciato: doveva aver frugato anche lì dentro, suo padre. Anche nel materasso? Possibile: le lenzuola erano in disordine.
«Ma era mio,» ringhiò Giusbeppe a bassa voce. «Era mio!»
«Adesso non lo è più. Avrai meno cose da portare con te, quando fuggirai anche tu.»
Giusbeppe lasciò perdere. Non aveva senso discutere con un letto. Non ne aveva la forza né mentale né spirituale, o quello che era. Si sentiva vuoto, vuoto e buttato via. Ecco perché doveva andarsene. Ecco perché se ne sarebbe andato. Trovare se stesso? Agire? In un posto simile non potevi proprio.
Sistemò la camera alla meglio, si spogliò, andò in bagno, tornò, si infilò il pigiama, si mise a letto, spense la luce e pensò a cose tristi. Il cuscino cercò un paio di volte di parlagli, ma Giusbeppe non lo ascoltò. Gli bolliva la testa. Gli giravano le palle. Gli bruciava lo stomaco. E, ma solo su un piano figurato, gli bruciava pure il culo. Parecchio. Maledetto padre maledetto.
Ci dormì sopra e non fu un bel dormire. Il giorno dopo scoprì che Primo Indiziato si era defilato sì, ma in forma definitiva. Non una gran perdita, secondo il suo modesto parere, e anche la madre non aveva reagito troppo male, nel complesso. «Dovremo arrangiarci in un qualche modo,» aveva detto, e in un qualche modo si sarebbero arrangiati, ma avere perso quella palla al piede avrebbe portato di sicuro qualche beneficio a loro. Meno soldi rubati, tanto per cominciare.
Il lunedì a scuola Giusbeppe fu accolto come si aspettava. Abbiamo cercato di contattarti, qualcosa è andato male, pensavamo che, succede, questo e quello. Si giustificarono, si scusarono e ripresero a ignorarlo come al solito. Poteva andare peggio, tutto sommato.
Un anno. Un anno e qualche mese, poi se ne sarebbe andato anche lui. Bastava sopportate e avrebbe sopportato. Era abituato a sopportare. Poi, finalmente all’università, lontano da tutto e da tutti, una nuova vita lo avrebbe atteso. Un rinascimento. Una speranza. Un domani luminoso.
«Non cambierà niente se non cambi prima tu,» gli disse il banco. Giusbeppe lo ignorò. Aveva torto. All’università sarebbe cambiato tutto. Se lo sentiva.
Forse avrebbe dovuto ascoltare meglio, ma questo è un altro discorso.