Poteva solo andare peggio
Era una brutta giornata e poteva solo andare peggio. Egisto Caproni ne ebbe la conferma quando il monopattino si stagliò contro l’orizzonte urbano che, ok, non era poi così poetico da meritarsi l’uso di parole come “orizzonte” o “stagliarsi”, e forse neppure “urbano”, ma al momento lui si trovava in quel particolare stato d’animo in cui, se possiedi una certa predisposizione, vocaboli simili sgorgano come rutti dallo stomaco in disordine della tua mente. Egisto possedeva una certa predisposizione e il resto è inevitabile: quando la parola arriva, tu apri la bocca e lasci uscire tutto. Anche se è solo sul piano metaforico e in un monologo mentale.
Non è rilevante. Il punto è che Egisto vide il monopattino in arrivo ed ebbe la conferma che era una pessima giornata, in via di peggioramento. Non poteva essere altrimenti, capite. L’estate era finita e il caldo no, non del tutto. Le mosche gli ronzavano attorno alla testa come se fosse, beh, sappiamo a cosa amano ronzare attorno le mosche. Una consegna che sarebbe dovuta arrivare due giorni prima non si era ancora fatta vedere, per misteriosi contrattempi alla frontiera. Aveva anche finito il latte e si era dimenticato di comprarlo quella mattina. Adesso era pomeriggio e stava andando a rimediare, con tanta voglia di lasciarsi alle spalle quella giornata. Solo che stava peggiorando, come si diceva.
Il monopattino. Egisto Caproni li detestava cordialmente. Erano stupidi. I loro conducenti erano più stupidi ancora, almeno secondo il suo modesto parere. E non solo: infestavano il marciapiede. Non tutti, d’accordo, e non sempre, ma alcuni sì e tanto bastava per detestarli tutti. Come i ciclisti, del resto, che più il marciapiede è stretto e più lo infestano. Ma i ciclisti sono il cancro della società e lo sanno tutti, secondo il modestissimo parere di Egisto. I tizi in monopattino, però, erano candidati perfetti per insidiare quel primato negativo. Un primato da primati, di nuovo secondo il modesto e morigerato parere del nostro Egisto. Era una persona molto aperta e comprensiva, capite.
Dicevamo del monopattino. Era in arrivo, era sul marciapiede, era veloce, era guidato (per un valore molto aleatorio di guidare) da un tizio imbavagliato che impugnava uno smartphone e insomma era la quintessenza del ritardo mentale, secondo il sobrio parere di Egisto Caproni. Ti bastava vederlo e la tua giornata peggiorava per osmosi. O forse non per osmosi, d’accordo, ma era una parola che Egisto amava tanto e la usava il più possibile, anche a sproposito. Non che facesse alcuna differenza concreta, sia chiaro: la maggior parte dei suoi discorsi erano monologhi interiori, si svolgevano (o forse si dipanavano) nel privato della sua testa, dove nessuno li poteva ascoltare, quindi grammatica e vocabolario erano a discrezione sua, ecco. Non aveva molti amici, per qualche strana ragione.
Ma il monopattino era in arrivo ed Egisto lo detestava. A pelle. E anche Apelle, figlio di Apollo, che aveva tormentato la sua infanzia con quella specie di filastrocca stupida che, ok, non ha importanza, ma Egisto se l’era appena ricordata e la sua giornata era peggiorata ulteriormente. Perché lo spazio non manca mai, verso il basso. Se poi guardava in avanti, dove c’era il monopattino in arrivo, anche lo zero assoluto diventava un numero insignificante, arbitrario, da nulla. Perché il tizio imbavagliato alla guida del monopattino si stava facendo un selfie, in apparenza. O era una videochiamata? Non importa. Qualcosa di stupido con lo smartphone, invece di guardare la strada. O tempora, o mores!
Egisto Caproni era già all’estrema destra del marciapiede, a un passo dalla specie di aiuola stitica e moribonda che lo separava dalla strada e che, di tanto in tanto, ospitava pure lampioni ridicoli, vari segnali stradali e pochi alberi rachitici. Il monopattino continuava a puntarlo. Era in chiara rotta di collisione con lui. Se n’era accorto quel decerebrato che vi stava appollaiato sopra? A giudicare dal suo sguardo glassato, cadaverico, probabilmente no. E adesso?
Egisto sospirò dentro. Era lì sul marciapiede, tranquillo, che se ne stava andando a prendere il latte, benché non mandato dalla mamma, e un monopattino minacciava di travolgerlo. Era brutto. Ancora più brutto era il fatto che non sarebbe stato travolto soltanto dal veicolo, gesto dignitoso come farsi travolgere da un Apecar scalcagnato, ma lo avrebbe travolto anche il ramapiteco alla guida. Un tizio imbavagliato, con lo sguardo di cadavere, impegnato a farsi un selfie o a videochiamare con un altro celenterato suo pari. Orribile! Essere colto da un attacco di diarrea esplosiva durante la discussione della tesi di laurea sarebbe stato molto meno imbarazzante. Non che a Egisto fosse mai successo, sia chiaro, ma se gli fosse successo, per assurdo, lo avrebbe trovato meno imbarazzante. Ecco.
E dunque? Il celenterato imbavagliato non si era accorto di nulla e procedeva verso di lui. Restava solo una cosa da fare, dunque. D’accordo, ne restavano anche altre, ma una sola non illegale, perché il ricorso all’estrema violenza contro i conducenti di monopattini non era ancora stato depenalizzato o almeno considerato legittima difesa, purtroppo. Non viveva in un mondo giusto, in fondo. Dunque una sola cosa da fare, come si diceva. Spostarsi dalla traiettoria.
Egisto Caproni si spostò, soffrendo nel profondo del suo animo tenero e delicato. Era un’ingiustizia, però, anche se lui non era nero e non aveva mezzo guscio di uovo infilato sulla testa. I monopattini non dovevano circolare sul marciapiede, quindi era ingiusto che un umano cedesse il posto a quella schifezza ronzante. Era una vergogna. Pure, lo dovette fare.
Calpestando il terriccio secco, misero e sicuramente inquinatissimo dell’aiuola stitica, Egisto stette a guardare lo svolgersi degli eventi, fuori portata del suo nemico elettrico. Con un poco di fortuna, il demente imbavagliato non si sarebbe accorto che c’era un pregevole sbarramento a separare aiuola e marciapiede, una specie di muretto dentale fatto di sassi diversi tra loro e altri una spanna circa, a volte. Il monopattino lo avrebbe urtato, sarebbe caduto e il tizio avrebbe sbattuto la testaccia vuota. E non si sarebbe fatto alcun male, ovvio, ma almeno sarebbe stato moderatamente punito dal cielo e tanto poteva bastare, per adesso. Era un inizio, quantomeno. Egisto sorrideva un poco.
Per puro riflesso, per culo o per altro ancora, il monopattino virò quando era a pochi centimetri dal primo sasso, si sposto basculando verso il centro del marciapiede e riprese la marcia, come se nulla fosse. E nulla era accaduto, in effetti. C’era solo un pedone in mezzo all’aiuola, a guardare col muso lungo il monopattino in allontanamento. Tutto finito così.
Egisto Caproni scosse la testa e sbuffò. Non era giusto, ecco. Non era giusto. Si era spostato, aveva dovuto mettere piede nell’aiuola moribonda, aveva abbandonato il marciapiede e per cosa? Niente di niente. L’invasore, l’intruso non ne aveva riportato neppure la più piccola delle sbucciature. Era il chiaro segno, era la prova lampante che il mondo non funzionava. Era tutto sbagliato, tutto da rifare.
«Che tu possa morire in modo orrendo!» sibilò tra i denti, mentre usciva dall’aiuola e riprendeva il suo viaggio verso il supermercato e il latte. Giornata orribile, appunto, e poteva ancora peggiorare. Ma Egisto non ci poteva fare alcunché e così si strinse nelle spalle. Che vita grama.
Lo stridio di una frenata brusca, riuscita male. Un tonfo. Mormorio di passanti. Un clacson.
Egisto Caproni si fermò. Cosa era successo? Un incidente, a giudicare dai rumori. Tamponamento o roba simile, con tutta probabilità. Perché le cose possono sempre peggiorare, come si diceva. C’era almeno un aspetto positivo, volendo: era accaduto dietro di lui, quindi non lo riguardava. Ma ancora ululava il clacson, come una banshee postmoderna. Perché? Egisto si voltò a guardare.
C’era un camion, fermo all’ingresso della rotonda. C’erano altre auto ferme in altre imboccature di quella stessa rotonda. C’era la rotonda, al centro, con uno strano monumento che vai a capire a cosa fosse dedicato, ma faceva schifo in ogni caso. C’era qualcosa per terra. Un monopattino. E accanto una persona. Imbavagliata? Da quella prospettiva non si poteva vedere, ma c’era qualcosa un poco più in là, sulla strada. Sembrava uno smartphone, o quanto ne restava. Ah. Possibile?
Possibile, sì. Certo no, ma possibile sì. Egisto sorrise. La maledizione aveva già avuto effetto? Non nel modo che avrebbe voluto lui, perché il corpo non sembrava contorcersi dal dolore, ma almeno si poteva considerare un inizio. Meglio di niente, possiamo dire.
Però non era stata colpa sua, giusto? Egisto ci pensò. No, ovviamente no. Lui aveva solo espresso il più innocuo degli auguri, ok, magari lo aveva anche desiderato un poco, ma i desideri non cambiano la realtà, tanto più se sono vaghi e imprecisi. Era stata solo una coincidenza. Piacevole, questo non lo poteva negare, ma solo una coincidenza, niente di peggio.
Doveva tornare indietro a controllare? Non ne aveva voglia. Doveva chiamare i soccorsi? Ne aveva ancora meno voglia, e poi c’erano già quattro o cinque persone che stavano filmando la scena, per cui tutto era a posto. Se non lo era, si sarebbe risolto da solo. E comunque non lo riguardava. Era un problema altrui. E poi quel tizio se lo meritava, no? Se ci pensate bene, dico.
Giusto. E siccome la cosa non lo riguardava, Egisto Caproni si incamminò a passo leggero verso la sua meta, il supermercato lontano ancora qualche centinaio di metri. Dopo un poco cominciò a fischiettare. Non era una giornata così brutta, in fondo. Sarebbe potuta andare peggio, no?