Prima che sia tardi
Via Trento era una fucilata tra due filari di edifici vecchi e scrostati. Breve, stretta, su un lato resti di marciapiede, poche auto parcheggiate sull’altro, una lingua di asfalto sgretolato allungata a coprire due, trecento metri al massimo. Niente curve, niente lampioni, solo poche luci appese ai muri delle case, saliva blanda dalla strada principale del paese per spegnersi davanti a un cancello.
Davanti al cancello. Era alto, era grigio, era due grosse lastre di metallo, con un cartello che vietava la sosta. Non potevi guardare attraverso, non potevi guardare oltre. Potevi scrutare oltre, se facevi qualche passo indietro e ti allungavi un poco verso l’alto. Se lo facevi, il tuo premio erano le cime di pochi alberi, abbozzati tra il ferro appuntito e il cielo, e il profilo vago di una collina, più lontana. Cosa ci fosse in mezzo lo potevi soltanto immaginare. Una casa? Un magazzino? Una villa? Forse, o forse altro ancora. Forse anche niente.
Il dottor Precotti non ricordava di averlo mai visto aperto. Cosa ci fosse oltre era un mistero ancora più grande, uno dei pochi misteri che ancora portava con sé da una infanzia sempre più lontana. Più di una volta si era chiesto se sarebbe stato meglio risolverlo, oppure dimenticarsene. Se lo chiedeva anche adesso. Il cancello sembrava sempre uguale. Il dottor Precotti non lo era di sicuro.
Un tempo era stato Ale, bambino alto un due, e il cancello era chiuso. Poi era stato Alle, un poco più alto, e il cancello era chiuso. Nei suoi anni come Alex il cancello era sempre chiuso. Nella breve stagione di Sandro il cancello era ancora chiuso. Oggi era il dottor Precotti, dottore ma non medico, e un bastone lo aiutava a muoversi, ma il cancello rimaneva chiuso. Come via Trento, sempre breve, sempre fatta di edifici scrostati e vecchi. Quel cancello non era mai cambiato, simbolo palpabile di eternità, perno ignoto di un paese che era stato piccolo, poi prosperoso, poi di nuovo piccolo, con un passato molto più luminoso e promettente del suo oggi.
Non che il dottor Precotti lo avesse mai palpato davvero, il cancello, se non forse da piccolo, ma era comunque un simbolo palpabile, perché poteva essere palpato. Non che il dottore lo volesse. Magari lo avrebbe voluto aprire, d’accordo, ma palpare no. Il punto comunque era un altro.
Cosa c’era dall’altra parte? La domanda l’aveva accompagnato attraverso tutta la sua infanzia, come presenza saltuaria, curiosità che di tanto in tanto si affacciava, per perdersi fra mille altri pensieri e fantasticherie, così frequenti in quella età. E anche in età successive, ma a volte è bello fingere che appartengano soltanto alla infanzia, così è più facile convincersi di essere diventati grandi e maturi. Il dottore non si concedeva spesso illusioni di questo genere; solo di tanto in tanto. Quando aveva di fronte a sé il cancello di via Trento, per esempio. Come adesso.
Non passava spesso da quelle parti. Prima di tutto perché camminare non gli era più facile come un tempo. Era un lavoro duro, adesso, e non sempre gli riusciva. Via Trento era lontana dal quartiere in cui lui viveva, tanto lontana quanto è possibile esserlo in uno sputo di paese, cioè non molto, ma era comunque costretto a cambiare strada e fare un giro molto più lungo. Non sempre ne aveva tempo e ancora meno ne aveva voglia. E poi, per cosa? Per vedere una strada vecchia, dove da anni nessuno si era più preso la briga di riparare le buche e rifare l’asfaltatura? Per vedere case vecchie, che forse erano ancora abitate e forse no? Non ne valeva la pena, sul serio.
Pure, ogni tanto ci passava.
«E continuerai a passarci finché non ti sarai tolto la curiosità. O finché non riuscirai più a muoverti. Scegli tu quale delle due verrà prima.»
Il dottor Precotti guardò in basso, da dove proveniva la voce, e lo vide come al solito. Il cane a tre zampe. Un bastardino grigiastro, decisamente brutto, a cui mancava una zampa anteriore. Non c’era un moncherino: mancava proprio, come se non fosse mai esistita. Triste e un poco disgustoso, ma il dottore si era abituato. Era un vecchio amico, da un certo punto di vista. Era anche molto, ma molto preoccupante, da un altro punto di vista, ma non era il caso di pensarci.
Che poi, diciamolo: non aveva alcun senso preoccuparsene. Quando cominci a vedere cani parlanti a tre zampe, ormai sei finito ben al di là delle normali preoccupazioni. Siccome il dottor Precotti lo vedeva, e siccome sapeva di essere l’unico a poterlo vedere o sentire, era sceso a patti con la realtà e aveva deciso di accettarla così come era. E pazienza.
«Un giorno mi toglierò la curiosità, vedrai,» mormorò al cane. «È l’idea generale, no?»
«Un giorno, bene, certo, fantastico. Perché non adesso, allora? Adesso è un giorno, no?»
«È un giorno, ma non è il giorno giusto.»
«Ah, bene, questa mi mancava. Il giorno giusto. Già. Tutto più chiaro.»
«Noto un certo sarcasmo nella tua voce.»
«Lo noti perché c’è. E comunque non lo descriverei davvero come sarcasmo. Non è poi così cattivo e non voglio offenderti o ferirti. Dicevo solo per deriderti.»
«Il che è molto meglio, giusto?»
«Secondo il mio modesto parere, sì. E non puoi essere molto più modesto di un cane randagio a cui manca una zampa. Sono decisamente terra terra, no?»
Il dottor Precotti scrollò le spalle. La strada era deserta, come lo era molto spesso, ma chiacchierare con qualcosa che poteva vedere soltanto lui lo metteva sempre a disagio. Niente di male nel parlare da soli, per carità: lo facevano tutti, spesso e volentieri. Il problema era che, per parlare col cane, lui doveva usare anche la voce. Pensare non bastava. Ci aveva provato. Così adesso sussurrava, ma era sempre un rischio. E se qualcuno se ne fosse accorto?
Se qualcuno se ne fosse accorto, lo avrebbe preso per un matto. Peggio: un vecchio matto. Capitava di trovarne per strada, a volte: anziani che discutevano da soli a voce alta, agitando anche le braccia. E non solo anziani, ok, c’erano anche persone giovani (o almeno più giovani) che si comportavano così, ma il punto era che il dottor Precotti non voleva essere inserito in quella categoria, se lo poteva evitare, ma grazie lo stesso del pensiero. Vecchio matto! Come se se lo meritasse, alla sua età.
Con un ultimo sguardo al cancello chiuso, il dottore si allontanò zoppicando. Il cane a tre zampe lo seguì, il ticchettio irregolare delle sue unghie sull’asfalto un ritmo che soltanto lui poteva sentire, a rompere un silenzio che a breve sarebbe stato rotto anche dalle auto in transito sulla via principale, la poca gente che camminava, zaffate di musicaccia da auricolari, finestrini aperti, negozi, altro. La solita paccottiglia da vita cittadina, anche se non era proprio una città e non c’era poi un granché di vita. Ma era il suo paese, che gli piacesse o meno. In media, tendeva a piacergli.
«Ma non ti piace davvero, ammettilo. Ci sei solo abituato. Come un paio di scarpe che non vorresti mai comprare, ma te le hanno regalate, sarebbe un peccato non metterle e ormai è così tanto che le porti e si sono adattate ai tuoi piedi, sono comode, funzionano. Perché cambiarle?»
Il dottor Precotti sospirò. Era fastidioso il modo in cui quel cagnetto orrendo sembrava leggergli nel pensiero, ma solo quando non ce n’era alcun bisogno. «Come mai hai scelto quella immagine? Non mi sembra molto adatta a un cane mutilato. O te ne intendi anche di calzature umane?» mormorò, lo sguardo basso a fingere di studiare la strada, il marciapiede, quello che capitava.
«Beh, da un certo punto di vista puoi anche dire che me ne intendo. Di calci me ne sono arrivati un bel po’, nel corso della mia attività di randagio. Ti interessa uno studio di quali siano le scarpe che ti fanno più male? Non hai che da chiedere.»
«Ne faccio volentieri a meno, grazie.»
«Solo dello studio o anche dei calci?»
«Entrambi. Ma adesso taci, che comincia a esserci un po’ troppa gente.»
Parzialmente vero. Aveva raggiunto la strada principale del paese e il marciapiede non lo potevi poi descrivere come affollato, non senza aggiungere una negazione, ma c’era gente, il dottor Precotti la conosceva e, cosa peggiore, quasi tutti lo conoscevano almeno di vista. Meglio comportarsi come al solito da persona normale e fingere di non avere un cane parlante invisibile che lo seguiva. Era quel genere di problema che risulta sempre piuttosto difficile da spiegare, almeno da sobrio.
Così il dottor Precotti proseguì la sua passeggiata zoppicante, seguito dal ticchettio non ritmico del cane altrettanto zoppicante. Salutò come sempre il geometra Furbelli, altro anziano passeggiatore di quella fascia oraria; salutò la signora Pedretti, che montava sempre la guardia accanto alla chiesa e al cartellone coi vari annunci funebri, forse in attesa di comparirvi anche lei, forse in attesa delle sue compagne di pettegolezzi; si fermò per un poco a chiacchierare del tempo col dottor Torboli, che un medico lo era stato davvero fino a qualche anno prima. Rincasò.
Era stanco e soddisfatto, e senza cane. Non si faceva mai vedere in casa, ed era meglio così. Ancora meglio sarebbe stato non vederlo neppure fuori, ma non poi così tanto, se doveva essere sincero. Per quanto brutto, storpio e irreale, era pur sempre una compagnia.
«Quel genere di compagnia che ti accompagna al manicomio,» bofonchiò alla sala vuota. Probabile, ma il manicomio non era il maggiore dei suoi problemi, al momento, per cui poteva anche pensare a cose diverse. O non pensare proprio, che sarebbe stato meglio. Nonché impossibile, se ci pensi bene o anche solo se ci pensi e basta. No?
Come si fa a non pensare? Il dottor Precotti non lo aveva mai scoperto e sospettava che non sarebbe mai riuscito a scoprirlo. Una domanda senza risposta, una delle tante e non la più importante. Pure, a volte sarebbe stato bello mettere a tacere la testa. Tipo adesso, per esempio.
Ma non taceva. Poteva impegnarsi a non pensare (e probabilmente non era la tecnica giusta, ma non ne conosceva altre), ma restava sempre una voce che parlava di qualunque cosa, hah!, le passasse in testa. Frasi a caso, parole a caso, brandelli di canzoni, schegge di avvenimenti passati o presenti. A volte era più di una voce, a volte era un maledetto coro e a volte le voci si parlavano tra loro ed era un poco preoccupante, sì, ma il dottore era arrivato alla conclusione che capitava un po’ a tutti e non valeva la pena di preoccuparsene. Siamo tutti psicopatici, schizofrenici, quello che era. Finché lo sai controllare, non c’è problema. Quando non ci riesci più, Houston abbiamo un problema.
Vedere un cane parlante poteva rientrare nel secondo caso. Forse, magari, può darsi. Se lo era, però, si trattava solo di un sintomo e curare i sintomi non serve: è la causa che devi curare. Glielo diceva pure il dottor Torboli, di tanto in tanto, quando il meteo non forniva abbastanza spunti o qualcuno di loro conoscenza era morto, in qualunque modo fosse morto. Il dottor Precotti sospettava che Torboli cominciasse ad avere qualche problema di età, ma non era certo lui la persona giusta per dirlo. A chi appariva di continuo un cane invisibile e parlante? Ecco, appunto.
Via Trento. Via Trento e il suo cancello sempre chiuso. Non un gran mistero e non certo importante, ma accidenti se non gli sarebbe piaciuto vedere cosa ci fosse dall’altra parte. Di sicuro un cortile, o il retro di una casa, magari anche un giardino malmesso, un letamaio. È così che funziona la realtà e il dottor Precotti aveva avuto decenni per verificarlo. I misteri sono misteri solo finché ne resti alla larga. Quando guardi da vicino e magari li risolvi, scopri che erano interessanti come le palline nere tra le dita dei piedi o la roba che ti si accumula nell’ombelico.
Continuò a pensarci con una porzione di cervello, mentre si scaldava qualcosa da mangiare. Non ci voleva molto. Non aveva mai molta fame, di recente. Non aveva neanche molto sonno, in effetti, e pure altre funzioni corporee ne risentivano, ma erano dettagli secondari. Più rilevante era stata una escursione in collina, alcuni mesi prima. Rilevante al discorso di via Trento, quantomeno. E forse ad altre cose, in effetti. Non proprio a tutto, ma a buona parte.
Era successo dopo la visita dal medico. Il cane non c’era ancora e sembrava avere un senso. Almeno a grandi linee. Come un quadro storto, ma solo un poco, questione di un millimetro o due, quasi non lo noti. Se non li guardi troppo da vicino, ovvio. E se non soffri di disturbi ossessivo-compulsivi. Il punto è che il chiodo regge, il quadro è appeso, tutto va bene, ma non è proprio perfetto, perché è un po’ storto. Quindi tu lo raddrizzi. Un attimo dopo pende di nuovo, ma dalla parte opposta. Tu sbuffi e torni a raddrizzarlo, ma di nuovo il maledetto ricomincia a pendere nell’altra direzione. Alla fine o smetti o passi il resto della vita a cercare di raddrizzarlo, fallendo sempre.
Il dottor Precotti aveva scelto di mettersi al volante e salire in collina. Aveva appoggiato il referto su un mobile della sala, infilato gli occhiali di cui aveva bisogno per guidare, preso le chiavi e via, per un pomeriggio alternativo. Aveva bisogno di pensare, ma aveva voglia di non farlo. Al momento gli era sembrata la soluzione migliore. Come quasi sempre, non lo era stata.
Ci era voluta quasi un’ora a trovare il posto giusto, sia perché guidava piano, sia perché la memoria non era più quella di un tempo. Cercava una strada particolare, dove era stato per l’ultima volta un miliardo di anni prima, o giù di lì. Era bambino, e lo avevano portato i suoi genitori. Perché? Non lo ricordava proprio, ma lo avevano portato lì e tanto bastava. Adesso ci sarebbe tornato da adulto, o da anziano se così si preferisce, e avrebbe concluso la storia.
La storia in sospeso, sia chiaro. Non aveva intenzione di uccidersi o roba simile. Voleva solo trovare un angolo che era appartenuto alla sua infanzia e scoprire cosa ci fosse dopo. Perché mica lo aveva scoperto, da bambino. Da bambino, in base a quanto gli dicevano i suoi ricordi, lui e i suoi genitori avevano seguito per un poco una strada sulla cresta di una collina, si erano fermati, avevano fatto il genere di cose che di solito si fa quando si scende dall’auto, tipo sgranchirsi le gambe, guardare qui e là, fumarsi una sigaretta (nel caso dei suoi genitori), commentare il panorama e così via. Niente di particolare, niente che valesse la pena di ricordare. E infatti il dottor Precotti non lo ricordava.
Ricordava la chiesa. Era vecchia, in rovina, praticamente un rudere. Era accanto alla strada, giusto a sinistra. Era chiusa, con un cartello di un qualche tipo. Divieto di accesso, quasi di sicuro, ma forse a quei tempi non sapeva ancora leggere, perché il dottor Precotti non ricordava il testo sul cartello, o anche solo se ci fosse stato un testo. Probabilmente sì. Il punto era che la chiesa era chiusa, o non ci potevi entrare, che era poi la stessa cosa, e perché mai qualcuno avrebbe dovuto volerci entrare? Era un rudere. Ci dovevano essere mille milioni di insetti schifosi là dentro, come minino.
Il Precotti di allora, il piccolo Ale, non ci voleva entrare. L’edificio era solo un qualcosa che stava lì e probabilmente non ci sarebbe rimasto ancora per molto, se nessuno lo riparava. Interessante? Per niente. Interessante era la strada, che proseguiva oltre la chiesa e si perdeva chissà dove. Era messa piuttosto male, anche se non male come l’edificio, e questo la rendeva ancora più interessante.
Dove portava? Chi l’aveva costruita? Quando l’avevano costruita? E perché? Era in condizioni più che decenti, all’inizio, con l’asfalto e tutto il resto, ma più andavi avanti e più peggiorava. Buche, e sassi, e crepe nell’asfalto e alla fine pezzi di asfalto tra una crepa e l’altra. Superata la chiesa restava solo quella che suo papà aveva chiamato “una strada bianca”, anche se non era poi così bianca. Più grigiastra, semmai, con tutti quei sassi.
«La nostra macchina non va mica bene,» aveva spiegato. «Per passare di lì ci vuole un fuoristrada.»
Il piccolo Ale aveva accettato, soprattutto perché non sapeva cosa fosse un fuoristrada. Forse era un qualche tipo di supermacchina, che ti faceva viaggiare dappertutto, anche dove non c’erano strade. La strada c’era, ma era bianca, quindi doveva avere qualcosa di particolare. E poi lo diceva il papà, per cui doveva essere vero. Ma gli sarebbe piaciuto continuare. Continuare e vedere.
Questo era grossomodo ciò che ricordava di quel pomeriggio lontano troppi decenni. Forse era pure successo davvero, forse era in gran parte una ricostruzione successiva, che mescolava vaghi ricordi reali e molta fantasia, il tutto condito da una robusta dose di nostalgia, per renderlo più saporito. Ma non era importante distinguere il vero storico dal vero poetico. Era importante ritrovare il posto, la strada, e scoprire dove andasse a finire. Che cosa c’era in fondo?
Una delusione, ecco cosa c’era in fondo.
Il dottor Precotti non ricordava di preciso cosa avesse immaginato da bambino, ma sapeva che per un certo periodo quella strada aveva occupato un posto nelle sue fantasticherie, dove si popolava dei personaggi più irreali e delle avventure più impossibili, in cui lui era sempre l’eroe, perché c’è mai stato un bambino che non fantasticasse di essere l’eroe in avventure fiabesche fuori dal tempo?
Magari qualcuno sì, d’accordo, ma non certo lui.
Il Precotti del presente non fantasticava più. Aveva girato, aveva trovato la collina giusta, la strada giusta, o almeno la strada nel posto che doveva essere giusto, l’aveva seguita per un pezzo e poi non aveva più importanza, perché la strada poteva anche essere giusta in una prospettiva geografica, ma non lo era in tutti gli altri sensi. Non era più quella che aveva percorso da bambino, assieme ai suoi.
Asfaltata di fresco, ben tenuta, ben curata, percorreva il crinale della collina, fiancheggiata qui e là da villette isolate con ampio giardino e antenne paraboliche. Panorama notevole, tranquillità ancora più notevole, vedeva prati e alberi, case sparpagliate qui e là, la serpentina di qualche strada, pali di luce o telefono, distinguili tu se ne sei capace, lui non lo era. Alla sua sinistra, lontana e laggiù, si spandeva la pianura; alla sua destra, in apparenza più vicina, la linea di colline saliva piano piano fino a farsi montagna. Mica male, come posto.
Ma non era quello che cercava lui.
Aveva percorso la strada, adagio, guardandosi attorno. L’aveva percorsa tutta, fino alla fine, e la fine non era una fine, era solo un continuo: la strada sfociava in un’altra strada, con una intersezione a T e strisce pedonali che non sembravano avere alcun senso, perché non c’erano case né marciapiedi, o altri manufatti umani che avrebbero dato uno scopo alle strisce. Soprattutto, niente di fantastico.
Era ovvio, ma era brutto lo stesso. Pure la chiesa in rovina sembrava essere sparita, forse per cause naturali, forse nel corso di miglioramenti urbani che avevano resto la strada un piacevole buen retiro per gente ricca ma non troppo, quella che ai suoi tempi sarebbe stata definita “media borghesia” o giù di lì. Ottimo, splendido, fantastico, ma cosa era venuto a fare da quelle parti?
Il dottor Precotti era tornato indietro fino al punto in cui grossomodo doveva esserci stata la chiesa. Si era fermato. Era sceso. Si era appoggiato al cofano, braccia incrociate e sguardo perso tra i pini. Il solo suono che lo accompagnava erano i messaggi in morse che i picchi si spedivano da un albero all’altro. Ammesso che fossero i picchi a martellare sugli alberi. Il dottore ne era quasi sicuro, ma il magico mondo dell’ornitologia non gli era mai appartenuto. Da qualche parte lì vicino c’erano cose che davano brevi e rapide scariche di colpetti su oggetti di legno: probabilmente erano picchi, o una specie simile. Che poi, diciamolo pure: chissenefrega di che uccelli siano.
Era rimasto a meditare per un poco, poi si era rotto le scatole ed era tornato in auto, aveva allacciato la cintura di sicurezza e via verso casa, lontano da quella pessima idea.
«Se hai un bel ricordo d’infanzia, fai un favore al mondo e lascialo dov’è,» si era ripetuto durante il viaggio. «Non andarlo a toccare. Se lo vai a toccare, lo sporchi e lo rompi.»
Non era deluso. Era solo che... non andava bene, ecco. Non tanto la cosa in sé, ma la sua reazione al nuovo aspetto della cosa. Era normale, ed era normale che fosse normale, ma era anche normale che si sentisse deluso perché era normale. Ok, era un casino e non se lo sapeva spiegare neppure lui, era solo capace di imbozzolarsi nei suoi pensieri, fino a dimenticare quello che voleva dire. Ma non era contento, ecco, e non era soddisfatto. Ed era stata una pessima idea.
Poi era arrivato a casa e aveva trovato il cane a tre zampe, piantato davanti all’ingresso quasi fosse in attesa del padrone. Ma non aveva un padrone. Era palesemente un randagio, di piccola taglia e di brutto aspetto. Aveva anche qualcosa di familiare, ma probabilmente tutti i cagnetti randagi avevano qualcosa di familiare: visto uno, visti tutti. La sola particolarità era la zampa anteriore, assentata in via definitiva senza neppure lasciare un moncherino. Decisamente brutto.
«Levati dai piedi,» aveva bofonchiato il dottore, zoppicando verso la porta.
«Potresti anche chiederlo gentilmente,» gli aveva risposto il cane. «Non muore nessuno.»
Era stato il suo primo incontro con quell’affare che adesso lo seguiva ovunque, tranne dentro casa. Ma prima o poi lo vedrai anche qui, si disse. E magari era pure vero, perché quel cane poteva essere molte cose, ma di sicuro non era normale. I cani normali non sono invisibili agli altri, né ti parlano.
Il dottor Precotti si svegliò nel tardo pomeriggio, anchilosato da una dormita non prevista sul divano del salotto. In un qualche momento del dopopranzo i suoi ricordi della esplorazione in collina erano diventati prima sonno, poi sogni. Si erano anche trasformati in una vescica parecchio pesante, o così sembrava. Meglio alleggerirla in fretta, prima di altri imprevisti. Lo fece, zoppicando e imprecando a bassa voce contro quei vecchi rimbambiti che si addormentano dove capita. Che nel particolare caso il vecchio rimbambito coincidesse con lui non serviva a migliorare il suo umore.
«Non va bene per niente. Proprio proprio per niente.»
Ma era solo stanchezza, abbiocco digestivo, questo e quello. Niente di grave. Niente di serio. Niente a che fare con... con quello con cui non aveva niente a che fare. Là! Sistemato.
Si sciacquò la faccia, controllò lo stato dei vestiti, li giudicò accettabili, senza bava sul colletto della camicia o altre tracce sgradevoli della dormita a sorpresa. E aveva anche bisogno di andare a fare la spesa, se voleva mangiare qualcosa che almeno sembrasse cibo reale. Era in programma come cosa da fare nel pomeriggio, ma poi era andata come era andata e pazienza. C’era ancora tempo, però. Se la smetteva di andare a caccia di farfalle e cominciava a muoversi, magari ce l’avrebbe fatta.
Si mosse. Recuperò tutto il necessario per uscire, controllò due volte di avere preso tutto, controllò che la cerniera dei pantaloni fosse chiusa (lo era), si ricordò all’ultimo che si stava dimenticando le chiavi, le prese, aprì la porta, uscì.
Il cane era lì ad attenderlo, bello come un grave incidente. Il dottor Precotti lo osservò per un tempo indeterminato, poi annuì. Il cane, giusto. Il solito cane. La dormita doveva averlo proprio stordito.
«Non è la dormita e lo sappiamo entrambi,» gli disse il cane. Il dottore lo ignorò.
Camminò a passo lento verso il supermercato, il ticchettio di unghie sull’asfalto come sottofondo a ogni suo movimento. Come sempre. Non si stancherà mai di seguirlo, quel cane maledetto? Ma era un cane parlante che vedeva solo lui, per cui era ovvio che non si sarebbe stancato. E comunque era un cane. I cani ti seguono dappertutto. Si sa.
Il dottor Precotti scosse la testa. Fare la spesa, questo solo contava.
«Hai intenzione di farti una nuova dormita, mentre pensi alle tue altre esplorazioni? Quelle ai luoghi che vuoi riscoprire, prima che sia troppo tardi.»
Fare la spesa. Fare la spesa e ignorare il cane.
«Immagino che via Trento sarà il gran finale, se mai ti deciderai a cercare qualcosa. Il tempo non è un bene illimitato e noi lo sappiano, giusto? Se aspetti troppo, l’occasione se ne andrà e tu neppure lo saprai mai. Un vero peccato, giusto?»
Qualunque cosa si fosse messo in testa adesso quel botolo storpio, il dottore non gli avrebbe mai e poi mai dato la soddisfazione di rispondere. Poco ma sicuro.
«Ma forse è meglio così, hai ragione. Meglio mantenere un ultimo angolo di speranza, finché te ne ricordi, invece di riempirlo con la realtà. Ne abbiamo già avute abbastanza di delusioni.»
Il dottor Precotti entrò nel supermercato e il cane maledetto lo seguì, continuando a blaterare. Ma di tutte le assurdità che gli potevano capitare, perché proprio un cane parlante? Ne avrebbe accettato a braccia aperte uno che fosse mille volte più brutto, ma silenzioso. E invece no. Storia della sua vita.
Fu tanto il fastidio di quella piaga chiacchierona che il dottore si accorse di non ricordare più quello che voleva comprare. La spesa, d’accordo, ma cosa, di preciso? Che cosa gli serviva? Qualcosa per cena, visto che ormai era tardo pomeriggio. Probabilmente c’era anche altro, ma l’altro non era così urgente, o almeno non lo doveva essere, altrimenti se ne sarebbe ricordato. Giusto? Giusto. Quindi, la prima cosa da fare era comprarsi la cene e poi, se gli fosse venuto in mente altro, tanto meglio. Se non gli fosse venuto in mente, di nuovo tanto meglio. Problema risolto in ogni caso.
«Ma non lo hai risolto davvero. Ti stai solo nascondendo.»
«Taci,» borbottò mentre non c’erano altri clienti nelle vicinanze.
«Oh, io posso anche tacere, ma la realtà non cambia. E lo sappiamo entrambi.»
Era già alla cassa quando si ricordò uno degli oggetti che doveva comprare. Tornò indietro, lo prese, se ne ricordò un altro, fece per prenderlo ma nel frattempo lo aveva dimenticato di nuovo. Lanciò il più delicato degli accidenti, sospirò e raggiunse la cassa. E tanti saluti al resto.
Era un gomitolo di dolori, quando raggiunse la porta di casa. Aveva camminato troppo, e fin troppo in fretta. Aveva dormito male sul divano. Aveva questo e quello. Doveva riposare, ma riposare bene, in un letto, comodo. E magari, già che c’era, poteva anche...
«Parlare con me? Sarebbe meglio, non trovi?»
«No, non trovo,» rispose al cane. «Non ho proprio niente da dirti, adesso. Magari domani, o un altro giorno, ma adesso no. Sono stanco.»
«Questo non lo metto in dubbio, ma dubito che tu vorrai parlarmi in altre occasioni. Meglio fare una cosa finché puoi, invece di rinviarla al futuro. Non era uno dei tuoi motti?»
Il dottor Precotti scrollò le spalle. «Forse lo era, non me lo ricordo. Ma non ha importanza.»
«Come vuoi, come vuoi. Vai, cena e riposa. So dove trovarti.»
E lo sapeva di sicuro, quel maledetto. Ma era anche compagnia, da un certo punto di vista. Non una buona compagnia, ma in certi casi ci si deve accontentare di quello che passa il convento, anche se è un convento virtuale, uscito da un modo di dire. Il punto era che il dottore lo odiava, quel cane, ma ne avrebbe anche sentito la mancanza, se fosse sparito davvero. Ok, ne avrebbe sentito un poco la mancanza, e solo all’inizio, probabilmente, ma un poco era superiore a zero, no? Appunto.
Se fosse stato zitto di più, però, sarebbe stato meglio. O se avesse detto qualcosa di interessante, una spiritosaggine, magari raccontato aneddoti da cane. Invece lo sapeva solo stuzzicare e provocare, e solo con storie prive di senso. Come se ci fosse bisogno di pensare al referto del medico.
Il dottor Precotti si bloccò mentre esercitava le sue fantastiche doti di cuoco inetto. Chi aveva mai parlato di un referto medico? Non certo lui. Da dove era uscita quella storia, dunque? Non lo sapeva e non gli piaceva. Stanchezza, con tutta probabilità. Stanchezza e confusione. Anzi, confusione nata dalla stanchezza. Sì, così suonava meglio. Una dormita e sarebbe passato tutto.
Solo che non passò.
Si svegliò col fiatone da un sogno in cui gli erano accadute cose molto brutte, una dopo l’altra. Ma brutte sul serio, mica balle. Praticamente orrende. Cosa fossero di preciso era difficile dirlo, adesso, perché non se le ricordava più molto bene, ma gli avevano messo addosso un lavoro, guarda... non avrebbe più chiuso occhio per quella notte, poco ma sicuro.
Dieci minuti dopo si riaddormentò.
Al mattino ricordava grossomodo che gli era successo qualcosa durante la notte, ma era convinto di essersi dovuto alzare per andare in bagno. E sì, non si sentiva molto riposato, anche se non sapeva il motivo. Dormito male, forse. Succede, quando si invecchia. Forse c’era stato anche qualche sogno, ma i sogni mica sono un problema, no? Voglio dire, ti può capitare da bambino, un incubo ti sveglia e per un po’ hai paura ad addormentarti di nuovo, ma alla sua età era ridicolo. Giusto?
Quando uscì per la solita passeggiata mattutina, il cane a tre zampe era lì ad attenderlo. Niente che non fosse uguale a ogni altro giorno, ormai da mesi, ma al dottor Precotti non piacque. Difficile che la vista di un cane simile potesse piacere a qualcuno, d’accordo, ma nel caso specifico c’era un altro elemento che, vedi, praticamente lo aveva sulla punta della lingua, ma non gli veniva. Una forma di stipsi verbale che non gli era comune. Non un buon segno, forse.
«Buongiorno! Dormito bene? Ti stavo giusto aspettando.»
Il dottor Precotti fissò il cane. Lo stava deridendo? Possibile, ma con un cane vallo a sapere. Non è molto facile leggere la loro faccia, o almeno non lo era per lui. Per un esperto magari sì, uno di quei cinefili, cinofili, come si chiamano. Quelli che amano i cani. Il dottore non li amava. Non ne aveva mai neppure avuti, se era per questo, ma non cambiava il fatto che lui non li amava. I cani invece lo sembravano amare, o almeno lo seguivano spesso, il che forse era la stessa cosa. O forse no.
Quel particolare cane lo seguiva ovunque, ma quello era anche un cane molto particolare, per cui si poteva dire che non faceva testo. Assomigliava però a un altro cane, uno che aveva già visto.
«Ci stiamo arrivando, eh? Alla buon’ora, ma fai pure con comodo.»
Il dottor Precotti riemerse dalle riflessioni. Il cane lo fissava e sì, adesso era sicuro che stesse anche ghignando. Moderatamente sicuro. Nei limiti in cui il muso gli permetteva di ghignare, per lo meno.
«Hai qualcosa da dire?» gli chiese a bassa voce.
«No, no, niente di che, continua pure. Il tempo non manca. Non per un altro po’, quantomeno.»
Il dottore sbuffò e scosse la testa. Sempre peggio ogni giorno. La cosa peggiore poi era che lui stava discutendo con un cane, e uno che neppure esisteva. Un parto della sua mente. Un’allucinazione che era venuta parecchio male. Non poteva almeno essere un cane intero? E di razza, già che c’era: uno piacevole da guardare, tipo un pastore tedesco, un collie, uno husky, cose simili. I cani erano cani e non gli piacevano, d’accordo, ma c’era molta più dignità nel disprezzarne uno che avrebbe ricevuto un ruolo da protagonista in un film, invece di uno sgorbio a un passo dalla tomba.
«Potrò anche sembrare a un passo dalla tomba, ma ti assicuro che ti sono molto più utile di quei tuoi esemplari da film. Grazie per il pensiero.»
«Mi leggi anche nella mente, adesso?»
«Ti leggo in faccia. Lo avrebbe capito chiunque che mi stavi insultando. Con un poco di fantasia in più si poteva anche intuire il tipo di insulto. Niente di difficile, vedi.»
Il dottore sbuffò di nuovo. Strinse meglio il manico del bastone, guardò in entrambe le direzioni e si avviò a passo lento. Si fermò dopo quasi dieci metri.
«Hai dimenticato di chiudere la porta, sì,» commentò il cane.
Con una parolaccia più pensata che pronunciata, il dottor Precotti tornò indietro, chiuse a chiave la porta, controllò di averla chiusa davvero, controllò di avere rimesso le chiavi in tasca, controllò che la cerniera dei pantaloni fosse alzata, perché non si sa mai, quindi partì di nuovo.
Camminò fino al parco e si sedette su una panchina. Era una scena triste, da pensionato rimasto solo al mondo, non un cane con cui parlare e niente con cui riempire le giornate. Una di quelle cose che in passato si era ripromesso di non fare mai, neppure sotto minaccia di morte, e adesso eccolo che si sedeva su una panchina nel parco, mani appoggiate sul bastone, sguardo perso nel vuoto, niente con cui riempire le giornate. Un cane però ce l’aveva, e gli parlava pure. Hah!
«Allora, cos’è che mi volevi dire davanti a casa?»
Il cane si accucciò e lo guardò in faccia. «Niente di particolare. Non sono io a dover parlare. Sei tu e lo sappiamo entrambi. È solo che tu non vuoi. Giusto?»
«Non ho la minima idea di cosa stai dicendo, sai?»
«So e non so. So che non vuoi avere la minima idea di cosa sto dicendo, ma sinceramente non so se non lo puoi, anche. Non lo posso escludere, a questo punto. Non sei in ottima forma.»
«Non ho bisogno che me lo venga a dire un cane storpio, ma grazie lo stesso. Prova almeno a darmi un indizio e staremo a vedere, che ne dici?»
«Come desideri. Ricordi il sogno di stanotte?»
Una mano del dottor Precotti tremò. «Sognato niente, stanotte. Dormito come un sasso.»
«Sì certo. Tra non molto avrai anche sviluppato le stesse capacità mentali di un sasso.»
«Senti un po’, ma non parli troppo complicato per essere un cane?»
«Parlo complicato quanto basta. Parlo complicato quanto vuoi tu. Adesso, vogliamo anche parlare del sogno che hai fatto stanotte? Dio, mi sento la caricatura di uno psicanalista...»
«Se non ti piace, smettiamo. Per me non c’è problema.»
«Parlami del sogno di stanotte.»
Il dottor Precotti sospirò. Era una mattina piena di sospiri, quella. «Non lo ricordo.»
«Pensaci sul serio e lo ricorderai.»
«Non funziona così coi sogni...»
«Funziona così con questo sogno. Pensaci sul serio e lo ricorderai. Te lo assicuro.»
Il dottor Precotti ci pensò sul serio. Per un poco non successe niente, poi lo ricordò davvero. Non ne fu contento. Non era esattamente spaventoso, non esaminandolo a mente fredda su una panchina del parco. Era sgradevole, sì, soprattutto per il retrogusto che gli lasciava in bocca. In senso figurato, sia chiaro: in bocca non aveva alcun sapore particolare, ma se prendiamo in esame quella che potrebbe essere definita come la sua bocca spirituale, o la bocca dell’anima, allora il gusto che vi lasciava era sgradevole. Ricordava anche un poco il fegato alla veneziana, a pensarci.
Ma il punto era il sogno, quello che lo aveva svegliato alcune ore prima. Aveva sognato di un tempo lontano, ma lontano sul serio, roba di cinquant’anni o giù di lì. Era giovane, era un ragazzo ed era in estate, di pomeriggio. Era uscito a camminare, faceva caldo, aveva dimenticato il cappello, il sole lo randellava senza pietà e sudava come un dannato. Ma non era spiacevole, non ancora. Perché lui era giovane, come si diceva, e quando sei giovane non è poi così terribile sudare in piena estate. Quasi non ci pensi, quasi non te ne accorgi. O almeno lui non se ne accorgeva, nel sogno.
Non si accorgeva neppure del modo insensato in cui il paesaggio continuava a cambiargli attorno, e la pianura si faceva montagna, per poi declinare a collina, con una spruzzata di campagna e un poco di bosco, e ogni tanto c’erano pure squarci azzurri di mare in lontananza. Nessuna sua camminata in età giovanile aveva mai incluso tutti quegli scenari nello stesso pomeriggio, ma era un sogno, il che rendeva i cambiamenti più normali e accettabili. Meno accettabile era il gruppetto di suoi compagni delle elementari, che per un poco avevano camminato con lui e poi si erano dispersi in volo, ma era un sogno, come si diceva, e nei sogni tutto è lecito, almeno finché dormi.
Il problema era stato il villaggio, che non era neppure un villaggio ma una frazioncina da tre case e neanche uno straccio di bar. O uno straccio di strada: solo edifici vecchi raggomitolati assieme forse per tenersi compagnia, forse per comodità. Una specie di pozzo più o meno al centro, decrepito e di mattoni, era la sola decorazione che si vedesse. Non che un pozzo si potesse considerare decorativo, ma nel caso specifico lo poteva sembrare, per mancanza di alternative. Qualche gallina razzolava di qua e di là, tra sole e polvere.
Era deprimente. Nel sogno lo aveva riconosciuto, ma nella realtà il dottor Precotti non ricordava di avere mai visto niente di simile. Forse era un collage, che la sua mente aveva composto unendo dati reali, magari angoli intravisti nel corso della sua vita, e parti di scenografia di film, o descrizioni da qualche romanzo, roba simile. Fosse come fosse, nel sogno si era fermato vicino al pozzo, aveva per un poco guardato le galline e poi si era fatto un panino. Aveva anche pescato una bottiglia d’acqua e l’aveva posata accanto a sé, sul pozzo.
Poco dopo era arrivato il cane a tre zampe. Non è vero. Era apparso dal nulla, come il panino, e gli si era avvicinato a passo incerto, lo aveva annusato ed era sparito di nuovo. Poi c’era stato un tonfo nel pozzo. No, non proprio un tonfo. Una specie di splussh, seguito da un gorgoglio, che non è il più bello dei rumori se lo senti provenire dal pozzo a cui sei appoggiato col sedere. Il dottor Precotti si era giurato a guardare, ma l’interno del pozzo era nero, buio pesto, non si vedeva che per due, forse tre dita dal bordo. Il resto era come se non esistesse.
C’era qualcosa che nuotava, là dentro.
Il dottore lo sentì e fuggì, ma siccome era un sogno la sua fuga era lentissima, come se avesse più di ottant’anni invece di essere un ragazzo. Nella realtà non aveva ancora ottant’anni, ma era zoppo e la sua fuga sarebbe stata sicuramente alla moviola, ma nel sogno era un ragazzo, maledizione, non era logico che corresse così piano, eppure correva piano e il suono di qualcosa che nuotava continuava, diventava più forte, sembrava più vicino.
Qualcosa lo stava inseguendo.
Si era girato e aveva visto che il pozzo gli si era attaccato al sedere. Stava fuggendo portandolo con sé. Così il giovane dottor Precotti si era tolto i pantaloni, ma il pozzo rimaneva attaccato a lui anche a chiappe scoperte. Questo lo aveva irritato più ancora che spaventarlo.
Aveva ricominciato a correre, era inciampato in un banco delle superiori, era caduto sulla sabbia. Il cane a tre zampe era apparso di nuovo dal nulla e gli aveva leccato la faccia. Era come se gli avesse strofinato sulla guancia un pesce in decomposizione, ma era solo una lingua fetida e bagnata, il che non lo rendeva comunque un gran miglioramento, almeno secondo il suo modesto parere.
Poi due mani fredde e viscide gli avevano afferrato la gola, da dietro, e lui si era svegliato.
Il dottor Precotti ricordò tutto questo, seduto sulla panchina del parco, ma ancora non capiva quale senso potesse avere. Sgradevole, d’accordo, ma perché il cane aveva insistito per farglielo ricordare, beh, questo rimaneva un enigma. Glielo chiese.
«Perché mi hai fatto ricordare questa scemenza? Non ha senso.»
«Quindi te lo sei ricordato? Nei dettagli? Prova a raccontarmelo.»
Il dottor Precotti glielo raccontò, dopo essersi assicurato di essere ancora da solo. Poteva accettare un gran numero di cose, ma proprio non desiderava farsi vedere mentre parlava da solo nel parco, al modo dei vecchi rimbambiti. Ci sono limiti a tutto e la sua dignità non avrebbe retto.
«Lascia perdere la dignità. La tua testa ha fatto un poco di confusione, ma nei sogni è normale. Hai notato qualcosa di familiare? Ti ha ricordato un qualche evento reale?»
Il dottore ci pensò. «No,» rispose alla fine.
«Eppure avrebbe dovuto. È stata la prima volta che mi hai visto.»
«No. Primo, perché da ragazzo non vedevo cani invisibili e neanche parlanti. Secondo, perché non è mai esistito quel gruppo di case, almeno non dalle mie parti. Terzo, perché nessuno è mai uscito da un pozzo per strangolarmi. Me lo ricorderei, te lo assicuro. Non è il genere di cosa che si dimentica in fretta, non importa quanto tu ti stai rimbambendo.»
Il cane agitò la sua unica zampa anteriore. «Non perderti dietro l’insignificante. Come ho detto, hai aggiunto parecchia roba extra, ma il nucleo del sogno è stato il nostro primo incontro. E non parlo di me oggi. Parlo del vero cane a tre zampe, quello che hai incontrato durante una tua camminata e ti ha seguito per quasi tutto il pomeriggio.»
«Non mi è mai successo...» ma si fermò. Davvero non gli era mai successo? Perché c’era qualcosa, sì, che gli suonava familiare. Poteva non essere accaduto proprio a lui, poteva solo averlo sentito da un altro, ma qualcosa c’era. «Va bene, ammettiamo pure che lo sia stato. E allora? Che importa?»
«Non trovi strano che stai immaginando adesso un cane randagio che avevi incontrato soltanto una volta e molti anni fa? Perché lo sai che mi stai immaginando, vero?»
Il dottor Precotti lo fissò in silenzio. Meditava. O almeno aveva in faccia una espressione persa nel vuoto, era immobile e non reagiva al mondo, il che poteva farlo sembrare immerso in meditazione o roba simile. Poteva anche farlo sembrare morto o decerebrato, se si voleva essere più cattivi, ma la meditazione può andare bene, per adesso, perché da un certo punto di vista era proprio quanto stava facendo. Scavava nel proprio cranio, cercando di capire a cosa stesse pensando di preciso.
Era più difficile di quanto potesse sembrare.
Il cane che vedeva non poteva essere vero. Però lo vedeva, quindi doveva essere vero, per un certo valore di verità e a un certo livello di realtà. Come immagine proiettata dal suo cervello, magari, ma anche una immagine esiste, se proprio si vuole essere pignoli. Il dottor Precotti non era molto sicuro di voler essere pignolo, ma era meglio fare il bizantino che accettare di essere pazzo.
«Non sei veramente pazzo,» lo rassicurò il cane. «Non esattamente pazzo, almeno.»
«E questo mi dovrebbe rassicurare?»
«Non lo so, ma è un dato reale. Usalo come preferisci.»
Ed ecco un altro problema. Non stava solo parlando con un cane. Parlare coi cani è normale, ogni giorno lo fanno milioni di persone in giro per il mondo, forse anche un paio di miliardi. Il problema era che i cani non rispondevano, di solito. Non a parole, quantomeno. Il cane che vedeva lui, invece, non solo rispondeva, ma a volte sembrava parlare come un professore. E lui non parlava soltanto: ci dialogava col cane. Si dedicavano a intensi dibattiti.
Non poteva essere normale. Giusto?
Non poteva e lo aveva già riconosciuto e accettato. Quindi cosa voleva adesso da lui quel cane? Una confessione scritta? Sottoporlo a qualche test? Ma soprattutto, da dove veniva? Non dalla sua testa, perché il cane diceva cose che non c’erano proprio nella sua testa. Probabilmente.
Il problema era che la sua testa non era più il luogo sicuro e (relativamente) noto che era stato fino a qualche tempo prima. C’era stata un’epoca, e non poi così remota, anzi, era praticamente lì dietro il più vicino angolo, in cui la sua mente gli era sembrata una fortezza, un bastione, un baluardo contro il caos e il cambiamento del mondo, e altra roba molto retorica su questo copione. Un tempo.
Adesso la poteva usare per scolare la pasta e probabilmente qualche pezzo sarebbe caduto assieme all’acqua di cottura. Era triste, era deprimente, ma era la verità. Si chiamava vecchiaia.
«Si chiama in un altro modo, nel tuo caso. Referto, ricordi?»
Il dottore lo ignorò. Si chiamava vecchiaia, poteva non essere molto piacevole ma presto o tardi era qualcosa che toccava a tutti. Tranne chi moriva prima, d’accordo, ma il principio era lo stesso: pure loro sarebbero invecchiati, se ne avessero avuto il tempo. Un evento naturale. Già. Appunto.
Di cosa stava parlando? Da dove era partito?
Il cane lo fissava con una intensa espressione da cane bastonato: essendo un randagio malmesso e privo di una zampa, bisogna dire che gli riusciva particolarmente bene.
«Probabilmente non abbiamo più molto tempo. Anzi, togli il probabilmente: non ne abbiamo più.»
Il dottor Precotti ricambiò lo sguardo con una espressione molto, molto confusa. Anche nel suo caso gli riusciva particolarmente bene, perché era molto confuso. «Non capisco,» sussurrò.
«Dimmi qualcosa che non so...» Il cane si alzò a fatica, oscillando un poco prima di ritrovare il vago equilibrio che la zampa mancante gli aveva lasciato. «Ti ricordi la tua visita in collina?»
«Quale collina?»
«Quando sei andato a cercare la strada. Quella con la chiesa in rovina. Non sapevi dove portasse, la strada. Lo volevi scoprire. Te lo ricordi, dai.»
Il dottore annuì. Se lo ricordava, sì. Lo aveva sognato un paio di giorni prima.
«Non lo hai sognato. Ti sei addormentato mentre lo stavi ricordando. Sul divano. Ed è stato ieri, non un paio di giorni fa.»
«Uguale. Cosa c’entra la strada, adesso?»
«Avevi una visita di controllo dal tuo medico, quel giorno. Ricordi? Sei andato a cercare la strada in collina subito dopo la visita, col referto ancora in mano.»
«Non lo avevo in mano. Lo avevo lasciato a casa.»
«Vedi che ti ricordi? Ottimo. E ti ricordi anche il contenuto del referto, vero? È stato quello che ti ha fatto venire voglia di andare in cerca della strada. Dopo la strada, sei andato a cercare altri posti del tuo passato. Più che altro della tua giovinezza, devo dire, ma è un genere di nostalgia normale e più che comprensibile, specie nel tuo caso. In parte volevi recuperare tempi migliori, in parte dare loro una chiusura, concludere cose rimaste incompiute, eccetera eccetera. Ricordi?»
Ricordava? Più o meno, più meno che più. La strada sì, e poi forse c’era stato qualcosa a proposito di una spiaggia, con un’isoletta non troppo lontana, che si poteva vedere dalla riva. O lo aveva solo immaginato? C’era stato nella vita reale, oppure in un sogno?
«Vita reale, vita reale. Volevi cercare un posto dove i vostri genitori vi avevano portati da bambini. Tu e tuo cugino. Hai trovato qualcosa di simile, ma non era come lo ricordavi e sei tornato deluso. Il posto probabilmente era lo stesso, ma le tue memorie erano state riscritte così tante volte negli anni che era impossibile ritrovarle in una qualunque realtà. È normale. Tutte le nostre memorie cambiano in continuazione. Sono riscrivibili. Ogni volta che ricordiamo qualcosa, noi modifichiamo il ricordo e poi lo salviamo nella versione modificata. La versione più vecchia svanisce.»
Il dottor Precotti ascoltava e non capiva. «Mi forniresti la versione semplificata, per favore?»
Il cane scrollò la testa. «Non ha importanza anche se adesso non capisci. Lo sai già. Prima o poi ti tornerà in mente, oppure non succederà mai, e in entrambi i casi non farà differenza. Il risultato sarà sempre lo stesso. Lo so io, quindi lo sai anche tu. Il punto è un altro: vuoi concludere le tue ricerche o preferisci lasciare perdere tutto? La scelta è tua. Se aspetti ancora un poco a scegliere, non farà più alcuna differenza, perché la vita sceglierà per te.»
«Eh? Quali ricerche?»
«Via Trento. Vuoi vedere cosa ci sia dietro il cancello? È l’ultimo mistero che ti resta, no?»
Il dottor Precotti esitò. Lo voleva? Certo che lo voleva! Ci passava spesso, no?, da quella maledetta strada, soltanto per vedere un cancello chiuso, sperando di trovarlo aperto. Era la sua missione, no?
Non lo desiderava poi così tanto, a pensarci meglio. La strada era stata un fiasco e il cane sosteneva che c’erano state altre esplorazioni dello stesso tipo, tutte deludenti. Via Trento poteva essere giusto un nuovo bidone, magari il peggiore di tutti. Poteva essere meglio tenersi il dubbio. Lasciare aperta una porta a... a qualcosa che adesso non gli veniva in mente. C’era una parola, o almeno un concetto o roba simile, ma adesso gli sfuggiva. Via Trento poteva esserlo. Voleva sapere? O voleva restare in una beata ignoranza? I discorsi del cane erano anche piuttosto inquietanti, a dire il vero. Erano pieni di allusioni che non lo rassicuravano proprio. Sembravano uscite da un qualche horror.
Il dottore chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. Sarebbe stato bello avere ancora la mente pronta e lucida della sua gioventù, o anche solo della sua maturità. Una mente che non fosse la presente, in altri termini, e magari neppure quella futura, perché era improbabile che potesse migliorare. Proprio una brutta cosa l’entropia, specie quando ne osservi il risultato dentro al tuo cranio.
«Tu cosa mi suggerisci?» chiese al cane.
«Non suggerisco. Hai deciso di farmi uscire dalla porta, non cercare di farmi rientrare dalla finestra, adesso. Specie perché non sei ancora pronto a farlo per davvero.»
«Non ti capisco.»
«Lo so, ma capirai.»
«Sai davvero cosa c’è oltre il cancello?»
Il cane abbozzò un movimento che poteva essere una scrollata di spalle o solo una pulce. «Non l’ho mai visto aperto, ma ci siamo documentati. Abbiamo chiesto in giro, sai come funziona. So quando e perché lo aprono. Se ti interessa ancora...»
«Perché parli al plurale?»
«Pluralis maiestatis, ovvio. Ti aspetti qualcosa di diverso da un piccolo randagio deforme?»
Il dottore ci pensò ancora per qualche minuto, in silenzio, poi si arrese. «E va bene, andiamo pure a vedere. Via il dente, via il dolore, giusto?»
«Giusto o sbagliato, faremo così. Non oggi, però. Il giorno è giovedì nel tardo pomeriggio. Se non ti ricorderai, passerò io ad avvisarti. Sempre se non cambierai idea, nel frattempo.»
«Non la cambierò.»
Ma non ne era così sicuro. Era sicuro però di aver passato fin troppo tempo nel parco, così si alzò e si avviò lentamente verso casa. Lungo la strada si fermò a chiacchierare col dottor Tombini, ma non per molto perché il modo in cui lo guardava il medico lo metteva a disagio. Come se fosse un nuovo tipo di microbo attraverso un microscopio, oppure un nuovo paziente. E poi il cielo era sereno, con un gran sole che cuoceva come in tarda primavera, e il tempo non offriva molto di cui discutere, se non per dire che le mezze stagioni avevano fatto la fine del dodo.
Se ne accorse solo dopo essersi seduto in poltrona, senza scarpe e con la cintura allentata. Il dottore si chiamava Torboli, non Tombini. Possibile che lo avesse davvero chiamato Tombini? Possibile che gli avesse sbagliato il nome proprio in faccia? In quel caso era comprensibile il suo sguardo: doveva avere pensato che il Precotti si stesse rimbambendo.
E probabilmente aveva ragione.
Il pensiero lo sorprese, ed era un pensiero brutto. Era anche reale. Aveva cercato di girarci attorno in più occasioni, aveva simulato, aveva scherzato, aveva fatto di tutto, tranne che accettare e regolarsi di conseguenza. Dove aveva messo la cartella con tutte la scartoffie del medico? Analisi e referti, gli appuntamenti, le prescrizioni, tutto. Ne teneva una, lo sapeva. Aveva sempre tenuto in regola quelle cose. Una cartella in un cassetto, ne era quasi sicuro. Ed era grigia. Grigia e con una scritta nera, col pennarello nero. Una scritta in stampatello. Sì. Anche se raramente faceva quello che dicevano, lui le teneva tutte. Le carte, dico. Da qualche tempo non ne aggiungeva più, ma... irrilevante.
Quale cassetto?
Ma non poteva essere un problema. I cassetti erano un numero limitato, in casa: quando lo voleva, li poteva setacciare tutti in poco tempo. Il punto era un altro. Perché la voleva proprio adesso? Non lo sapeva. Era un altro di quei pensieri che gli erano venuti così. Doveva esserci un nesso logico, o un nesso analogico, qualcosa del genere. Libera associazione di idee. Adesso bastava trovare il punto di partenza e il resto sarebbe venuto da sé. Facile. Semplice. Naturale.
Il suo cranio era vuoto. A proposito, che giorno era? Della settimana, dico. Il numero non aveva poi molta importanza. Il cane gli aveva dato appuntamento per giovedì, quindi oggi non lo era, ma che giorno era? Quanto mancava a giovedì? Poteva solo sperare che fosse poco: la sua testa peggiorava in fretta, o almeno dava questa impressione, ed era brutto. Ma brutto brutto.
Era come una diga che scricchiola e scricchiola, per un poco regge, si sforza ma alla fine cede. Una volta che cede, cede sul serio e senza fare prigionieri. Si salvi chi può. Chi non può, affoghi. Se non lo schiaccia prima la pressione dell’acqua.
La diga sembrava avere più crepe che cemento, ormai.
Il pensiero dell’ospizio diventava sempre più attuale. Non era più così spaventoso come all’inizio. A conti fatti, era come essere in vacanza, no? Non una bella vacanza, d’accordo, non stiamo parlando di villaggi turistici a cinque stelle, ma poteva essere una soluzione. Non il finale che avrebbe voluto o sognato, ma quello che gli toccava. La storia della vita di quasi tutti, insomma. C’era di peggio. E forse ce lo avrebbero già mandato, se avesse avuto qualcuno al mondo. Ma non aveva più nessuno. Era solo come un cane. Anzi, con un cane. Ahaha. Ospizio. Giusto.
Se così doveva essere, però, voleva priva guardare oltre il cancello che concludeva via Trento. Non si aspettava alcunché di super o anche solo di decente, ma voleva una chiusura. Voleva un punto con cui la storia si potesse concludere. Una metafora qualunque. Sarebbe stato meglio di niente.
Quanto mancava a giovedì?
Mancava che alla fine fu il cane a entrare in casa e venirlo a chiamare, per la prima e ultima volta. Il suo compagno di tante chiacchierate solitarie si presentò al centro della sala, mentre il dottore stava in poltrona a fissare una parete, cercando di ricordarsi che cosa avesse voglia di fare. Mangiare era una possibilità, ma non gli brontolava la pancia, quindi doveva essere qualcosa di diverso. Cosa?
«Non preoccuparti di cosa hai voglia di fare. Tu seguimi e al resto penserò io.»
Il dottor Precotti si alzò e si avviò verso la porta, poi tornò indietro perché il cane lo convinse che i pantaloni gli sarebbero serviti se voleva uscire e gli sarebbero serviti ancora meglio se ci infilava le gambe e li allacciava. Con una certa fatica e altri consigli si preparò, poi si accorse che cominciava ad avvertire una discreta fame e il cane gli spiegò che era affamato perché non aveva mangiato per tutto il giorno, si era dimenticato, ma adesso non c’era tempo e ci avrebbe dovuto pensare dopo.
Pazienza, cose che capitano.
Mentre chiudeva la porta dietro di sé, nascondendo la desolazione e la sporcizia della casa, un raro lampo di lucidità mostrò al dottore che il suo tempo era scaduto davvero, aveva perso la battaglia e l’ospizio non era più solo una possibilità, ma una realtà da benedire. «Dovrò chiedere a qualcuno di aiutarmi a farmi ricoverare,» borbottò. «Stupido io ad aspettare così tanto. Non ci avevo pensato che vivo da solo? Magari mi farò accompagnare dal cane. Lui capisce ancora.»
Con quell’ultimo pensiero di grande razionalità, la notte tornò a posarsi sul cervello del dottore, ma non era un problema, non ancora. Gli restava il cane, il cane a tre zampe che tanti anni prima aveva passato quasi un pomeriggio a seguirlo ovunque, mentre adesso era lui, Precotti, a seguire il cane. O l’immagine che la sua mente aveva riesumato dai ricordi e utilizzato per guidarlo.
Camminarono adagio nel tardo pomeriggio, lungo un marciapiede che un tempo era stato affollato o così gli era sembrato, quando l’economia del paese se la passava meglio, ma adesso era triste, quasi desolato, quasi silenzioso. O era lui a vederlo così? Realtà o allucinazione, come il cane che lo stava guidando? Il dottor Precotti aveva rinunciato a scoprirlo. Seguiva e basta.
Via Trento. Il cane zoppicava in avanti e l’umano lo seguiva a testa bassa. Era lucido quanto bastava per non volersi rovinare subito la sorpresa, o la delusione. Avrebbe visto il cancello aperto, così quel cane gli aveva promesso, e adesso lo avrebbe scoperto. Nel bene o nel male. Avrebbe visto e poi... e poi non avrebbe avuto più importanza. Ultimo mistero, ultima risposta. Adesso.
Il cane si fermò. «Guarda pure, se vuoi,» disse. Il dottor Precotti guardò.
Vide un camion della nettezza urbana. Dietro il camion c’era il cancello. Aperto. Oltre il cancello la strada finiva in uno spiazzo moderatamente largo, in cemento malmesso. Dietro lo spiazzo c’era un edificio, ancora più malmesso. Era vecchio, era decrepito, era abbandonato, era transennato. Subito davanti si allineavano cassonetti dell’immondizia di vario tipo, per le raccolte differenziate che pure il suo piccolo paese portava avanti con convinzione. Ai lati qualche albero malmesso. Dietro il tetto dell’edificio, lontana, la gobba di una collina, forse malmessa e forse no. Era un letamaio.
«Tutto qui?» sussurrò il dottore.
«Tutto qui,» gli rispose il cane da un qualche punto alle sue spalle. «Un tempo quell’edificio era un albergo, a quanto pare, e questo cancello era l’ingresso di servizio, sul retro. Da qui passavano tutti i rifornimenti, lenzuola e asciugamani, dipendenti, eccetera. In seguito l’albergo è fallito e ha chiuso, l’edificio è rimasto abbandonato e ha cominciato ad andare in rovina, nessuno ha più avuto bisogno di usare il cancello, eccetera eccetera. Credo che possa immaginare benissimo anche tu i dettagli, mi pare superfluo ripeterteli. Se anche non li riesci a immaginare, è comunque superfluo ripeterti cose che hai già sentito e che dimenticherai nel giro di un paio di ore al massimo.»
«Le ho già sentite.»
«Le hai già sentite, sì. Ti sto solo ripetendo i risultati delle tue ricerche. Perché ti eri deciso a sapere cosa ci fosse dietro il cancello, anche se adesso non lo ricordi più. Ti eri informato sia in comune, da un tuo vecchio conoscente che ci lavorava, sia da chi abitava nei dintorni. Beh, non ne erano rimasti molti che se lo ricordassero aperto, sai com’è: di tempo ne è passato parecchio. Una vecchia di una novantina d’anni o giù di lì l’avevi trovata e qualcosa te lo aveva saputo raccontare.»
«Mi ero informato. Avevo fatto ricerche.»
«Sì e ancora sì.»
«E poi l’ho dimenticato.»
«Già. Questione di malattia più che di delusione, direi. Perché sei malato, lo sai.»
Il dottor Precotti sospirò. «Sì, credo di saperlo. Adesso. Fra un po’ potrei non saperlo più.»
«Vero. Hai altre curiosità?»
«Per cosa lo usano adesso quel cortile?» chiese, puntando all’interno del cancello.
«Raccolta rifiuti, a quanto pare. Non so dirti di preciso come funzioni, perché non lo so e perché mi lascia indifferente. Ci ha lasciati indifferenti, in effetti, quando lo abbiamo scoperto. Qualunque sia l’uso che ne fanno oggi, non ha niente a che fare con le nostre fantasie di un tempo.»
«Nostre.»
«Nostre, già. Lo hai capito come funziona, adesso?»
Il dottor Precotti sospirò. Capito era forse una parola troppo forte, ma a grandi linee sì, una idea se l’era fatta. Non aveva mai parlato con un cane, immaginario o meno che fosse. Aveva sempre e solo parlato con se stesso, la parte di Alessandro Precotti che si era mantenuta un poco più sana, anche se per valori molto bassi di sanità, ed era fuggita dal cervello malato che la ospitava. Si era costruita un guscio immaginario fuori di sé e si era proiettata là dentro. In un certo modo.
O lo aveva immaginato e basta, che era molto più probabile. Era diventato schizofrenico quel tanto che bastava per salvare un frammento del proprio cervello dalla demenza senile o da quello che era. Il medico aveva usato un nome diverso, ma era un nome che al dottor Precotti non piaceva, neppure in un monologo interiore. Anzi, soprattutto non in un monologo interiore. E quindi...
«E adesso che facciamo?» chiese, girandosi verso il cane.
Che non c’era più. Che non c’era mai stato. Dalla parte del cancello, il suono di un motore avviato e pronto a partire lo avvisava che per oggi il lavoro era finito, il cancello sarebbe tornato a chiudersi e a proteggere il proprio segreto. Gran bel segreto.
Forse sarebbe stato meglio non scoprirlo. Forse sarebbe stato meglio rimanere nell’ignoranza per un altro poco. Forse sarebbe riuscito a tirare avanti con la finzione. Forse. Ma adesso? Troppo tardi?
La strada dietro di lui rimaneva vuota, il cane si ostinava a non tornare. Nato dal suo cervello per un poco, nel suo cervello sembrava essere tornato. E adesso lui?
Il dottor Precotti si guardò attorno. Cosa ci faceva lì? Perché non era a casa? Aveva fame e doveva tornare a casa. Ma da che parte era? Lo sapeva di sicuro, figuriamoci! Nessuno è così tanto suonato da non ricordarsi più dove abita. Giusto? E poi, non era una tragedia. Tutti lo conoscevano in paese. Bastava chiedere, chiedere. Fermare uno e chiedere. Uno dei, sì, beh, non c’era nessuno lì intorno, ma era comunque. Bastava.
Tornare a casa. Sì. Casa del dottor. Signor. Io sono. Io.
Cosa stava facendo?